Francesco, un papato di rottura? Si, ma anche no

Adriano Donaggio
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Con le celebrazioni del Natale, della giornata che ha dato inizio al’ anno nuovo, dell’ Epifania, si è concluso, nei fatti, il primo anno del pontificato di Papa Francesco, letto e commentato con diversità di sottolineature, di accentuazione di consensi su alcuni interventi piuttosto che su altri. Anche, perché no, con perplessità. Se è certo il successo mediatico, il consenso popolare non è mancato, le più o meno dichiarate perplessità rimangono sottotraccia ma non per questo sono meno insidiose.

E’ tipico il caso di uno dei più accreditati vaticanisti italiani impegnato per alcuni mesi a misurare, non senza sussiego, ciò in cui Papa Francesco riprendeva una linea già tracciata da Papa Ratzinger e ciò da cui si discostava. Chiave di lettura ingenua, ovviamente. Dio, per definizione, e, per usare i termini del catechismo di Pio X, “l’ Essere assoluto, Signore del cielo e della terra”. E’ impossibile per chiunque possedere la sua totalità. Per definizione, l’ uomo, sia esso anche il Papa, è una parte del Cielo e della terra. La sua fede, il suo impegno religioso rappresenta il continuo, inesauribile impegno a dialogare con Dio, non a possederlo. La fede espressa da Sant’ Agostino non è quella espressa da San Tommaso. Non per questo uno è meno fedele alla Chiesa dell’ altro. Così è per i Papi. Ciascuno porta il contributo della sua esperienza di fede, di un’ esperienza e di una ricerca che nessuna vita, può esaurire. Come ha scritto Saramago: “finisce il viaggiatore, non il viaggio”.

Qual è l’ esperienza di Papa Francesco? Beh! Intanto quella di un uomo che viene dall’ altro capo del mondo rispetto alla Curia romana, alle consuetudini e agli intrighi dei palazzi Vaticani. Da un altro capo del mondo rispetto all’ esperienza di vita di una città di normale dell’ Europa occidentale. Il Cardinale di Buenos Aires ha conosciuto gli orrori della dittatura, sa cos’ è la povertà, la miseria estrema, il degrado di una periferia umana, la sua povertà materiale e personale. Sa cosa avviene quando ci sono grandi interessi di denaro: la criminalità organizzata (e quale criminalità!), sa cos’ è il narcotraffico, la prostituzione, le perversioni e lo sfruttamento sessuale, l’ uso dell’ uomo, vecchio o giovane che sia, divenuto oggetto da usare, o da gettare, per ricavarne un guadagno economico, quale che sia. Conosce la difficoltà della vita di una famiglia e di una persona onesta in una società malata, putrida. Sa che il Verbo si è fatto carne, in questa carne. Sa bene quanto questa umanità ferita abbia bisogno della tenerezza di Dio, di trovare una speranza che una situazione umana così corrotta non può trovare nel suo presente.

E’ un Papa che ha subito voluto incentrare il suo insegnamento non sul Papa, non sulla figura ieratica del Sommo Pontefice, non sulla maestà dei Palazzi della città del Vaticano, ma sulla Chiesa, su Dio, il Signore, e sul Figlio, Gesù Cristo, che questa umanità feroce ha voluto condurre al martirio, al terribile supplizio della Croce. Un’ umanità che ancora oggi crocifigge molti figli di Dio, in molte parti della terra. Nei suoi incontri Papa Bergoglio ha voluto comunicare, svolgere un’ azione pedagogica con l’ abbandono di segni esteriori privi di sostanza religiosa (la croce d’ oro, la macchina prestigiosa); ha voluto sottolineare l’ importanza per il popolo di Dio della preghiera, ha voluto riportarlo anche alla preghiera che nasce nel silenzio, nella riflessione e nell’ espressione di un rapporto tra il proprio io, le proprie emozioni, e il rapporto, non solo rituale, non solo comunitario, ma anche personale con Dio.

Il popolo di Dio. Un’ espressione molto usata durante il Concilio Vaticano II e poi fatta cadere in disuso perché “troppo sociologica”, in realtà per la paura che il popolo di Dio mettesse in discussione il clericalismo della Chiesa. Un Papa che si pone il problema di come valorizzare, dare spazio, onore, rispetto alla donna senza clericalizzarla, ha nella sua testa una preoccupazione seria su come ripensare il ruolo e la dignità del laicato nella Chiesa., altro tema di cui da tempo si parla poco nella Chiesa. E questo impegno passa certamente anche per la riforma della curia vaticana, diventata, in molti casi, centro perverso del potere clericale, della distanza tra la Chiesa e il mondo. O per converso di una vicinanza corrotta come l’ arresto o messa sotto accusa di personalità religiose; l’ esigenza di riformare lo Ior, i sospetti di riciclaggio che aleggiano su alcune operazioni, sembrano indicare,

Un papato di rottura? Si, ma anche no. Cos’ è che unifica il pontificato di Papa Francesco? Cos’ è che riconduce “ad unum” un pontificato che sembra muoversi, e parlare, a 360 gradi? In realtà Papa Francesco sembra continuare, mettere in atto, la lezione del Concilio Vaticano II, un Concilio non dogmatico, ma un Concilio pastorale, che ha saputo distinguere tra l’ errore e l’ errante (la mancanza della conoscenza di questa distinzione ha portato a a molti equivoci nella lettura delle sue parole e nei titoli dei massmedia). Da molti, in questi ultimi anni il Concilio più che nellla sua fecondità è stato visto come “il perturbante”, come qualcosa da ridimensionare. Da questo punto di vista, per qualcuno è stato motivo di perplessità il fatto che nella Chiesa avessero assunto posizioni di grande responsabilità Vescovi e Cardinali (Bagnasco, per es.) che si sono formati alla scuola di quello che è stato una delle personalità più ostili al Concilio Vaticano II: il cardinale Siri (non è da escludere che Papa Giovanni nel saluto ai vescovi convenuti a Roma per l’ inizio del Concilio si riferisse a Siri quando parlò di “critiche fatte senza discrezione” ancora prima che il Concilio avesse avuto luogo). Sia come sia, una cosa è certa: la volontà di papa Francesco di fare Santo Giovanni XXIII violando le pratiche in uso, certo non è un gesto umorale, ma un gesto ben meditato.

Gli storici del Concilio hanno censito, dalla fine di questo grande evento ad oggi, la pubblicazione di oltre 4000 titoli di varia importanza e rilevanza. Questo ci dice degli stimoli che sono venuti da questo grande evento, ma anche quanto un dibattito così complesso possa introdurre non solo stimoli e riflessioni produttive, ma anche aspetti divisivi. E, tuttavia, quello che è chiaro, è che Papa Francesco ha ereditato e coerentemente porta avanti quello che, in un importante convegno internazionale organizzato dall’ Istituto Paolo VI, ha riproposto alla riflessione quel “principio di pastoralità” che ha caratterizzato il Concilio e che mons. Brambilla nel suo intervento ha così delineato: “Se ci si misura a fondo con il ‘principio di pastoralità’ esso diventa più che un’ ermeneutica del Concilio, il Concilio diventa piuttosto un’ ermeneutica del presente e del futuro della missione evangelizzatrice della Chiesa.

Questo passaggio comporta ‘la scoperta inaudita che la capacità di apprendimento dall’ altro e dal mondo è la condizione stessa dell’ annuncio”. Papa Francesco non ha certo rinunciato alla propria identità, al proprio credo, ai cardini della propria fede, ma ha capito benissimo, come hanno capito benissimo Paolo Vi e Benedetto XVI, quando hanno commentato il Concilio, che la scelta di uno stile è una scelta di identità. Proprio perché quella di Papa Francesco è un’ identità forte, che le prove della vita non hanno indebolito, può permettersi un dialogo forte con un mondo moderno che ha così cambiato e, in molti casi peggiorato, a causa dello sfruttamento, della speculazione, del sovvertimento di valori consolidati, la condizione umana.