Eutanasia, le condizioni di un diritto

Vera Schiavazzi
www.riforma.it

Uno scrittore che personalmente apprezzo, Emanuele Trevi, scrive sul Corriere della Sera un ampio reportage sulle scelte legislative del Belgio, che ha deciso di ammettere anche i minorenni all’eutanasia. Il suo testo (http://lettura.corriere.it – n. 108, 15 dic. 2013) mi spinge, direi anzi mi obbliga, a riflettere e a discutere. È evidente, e non è una colpa, che Trevi conosce poco o nulla dei problemi che ogni giorno, in migliaia di ospedali, di hospice e di abitazioni private in tutto il mondo accompagnano la fine della vita e la (relativa) libertà dei singoli di decidere come indirizzarla. Trevi cita per esempio Lucio Magri, «un politico generoso e disinteressato», che secondo lui è dovuto scappare in Svizzera «come un delinquente, quando la depressione ha stroncato la sua voglia di vivere».

E contrappone (giustamente, perché le due questioni hanno analogo valore) le migliaia di coppie costrette a «un vergognoso esodo verso la Spagna solo per usufruire di una fecondazione assistita degna di questo nome». Per inciso, accanto al pezzo di Trevi il Corriere ne pubblica un secondo, affidato a un medico, che racconta i disastri che l’accanimento terapeutico può compiere su pazienti anziani e molto malati. Un accanimento che peggiora le loro vite, quand’anche riesca a prolungarle, e incide moltissimo sui bilanci del sistema sanitario nazionale e sulle vite delle famiglie. È forse ora che proviamo, insieme, a esercitare da un lato la nostra libertà di giudizio, e dall’altro a confrontarci entro confini e dati certi, e non solo su suggestioni o opinioni.

Cominciamo da Magri, che merita tutto il rispetto per avere scelto di mettere un termine alla sua vita, così come lo meritano due grandi registi italiani, Mario Monicelli e Carlo Lizzani, che si sono dati la morte (nel 2010 e nel 2013) gettandosi in modo ben più cruento e doloroso dal balcone di casa. Effettivamente, Magri sembra aver compiuto una scelta più meditata e ponderata, ricorrendo al suicidio assistito (che è cosa diversa dall’eutanasia) in un luogo privato della Svizzera, probabilmente un albergo. Quello che Trevi non dice, probabilmente perché non lo sa, è che anche la liberale Svizzera, e anche nei Cantoni dove il suicidio assistito è ammesso, esclude la depressione dalle ragioni mediche che consentono anche a chi non è svizzero di cercare una morte «premeditata». La spiegazione è quasi banale: benché la depressione sia una malattia clinicamente riconosciuta, essa è ancora soggetta a un così forte e controverso dibattito clinico da non consentire, nella maggior parte dei casi, una diagnosi di incurabilità. La Svizzera inoltre (possiamo darle torto?) chiede ai candidati al suicidio di pensarci molto bene, e impone quindi un periodo minimo di residenza nel suo territorio a chi sceglie di suicidarsi con l’assistenza di un medico, che porrà accanto a lui un farmaco mortale che – però – sarà il paziente a dover ingerire con un atto volontario.

Magri ha deliberatamente e legittimamente scelto di ignorare queste regole, e si è limitato a traversare il confine per farsi somministrare da un amico un cocktail letale che in Italia, anche alla luce delle possibili ricadute penali e della cultura difensiva diffusa nella categoria (quella stessa cultura che provoca l’accanimento terapeutico sugli ultraottantenni), gli sarebbe stato difficile ottenere. Se il medico che lo ha fatto venisse denunciato alle autorità di Berna, finirebbe sotto processo, anche se probabilmente con conseguenze più miti rispetto a un tribunale italiano. Il principio è chiaro: la morte è – almeno sul piano terreno – irreparabile, e non lascia spazio a ripensamenti. In altre parole, la Svizzera non desidera (e neppure il Belgio o l’Olanda) diventare la meta di un «turismo per caso» dove chiunque sia in preda al dolore e allo sconforto può mettere fine alla sua vita, o peggio consentire a un suo parente o amico di incoraggiarlo in questo senso.

La domanda è: chi decide? E su quali basi? Quando parliamo di «diritto all’eutanasia», e magari lo rivendichiamo per il nostro paese, parliamo del diritto di un malato grave (e soltanto del suo) a porre fine alle sue sofferenze, che egli stesso giudica inutili o superiori alle sue forze, e comunque prive di possibilità di guarigione o di speranza. Non vi è dubbio che si tratti di un diritto, che tuttavia spesso, proprio per la gravità delle condizioni, è stato affidato a voce o per scritto a terzi (i genitori, i figli, il coniuge o il compagno e così via). Occorre dunque essere sicuri che questa libertà di giudizio sia davvero tale, e non possa essere influenzata da esigenze esterne. Occorre, per esempio, che la legittima stanchezza e disperazione di chi vive accanto a un malato grave non diventi di stimolo nell’augurarsi la sua morte. Occorre che le famiglie siano adeguatamente assistite, e che il welfare pubblico funzioni. Occorre che il sistema sanitario stesso non abbia ragioni per «preferire» una soluzione a un’altra.

Solo a queste condizioni si può parlare del diritto di ciascuno di noi nello scegliere la propria fine della vita. Ammettendo, comunque, che si possa cambiare idea, come l’esperienza di ciascuno suggerisce (un amico magistrato mi racconta di un collega malato cronico, che aveva da anni avvisato di voler essere lasciato morire in pace quando fosse arrivato il momento; al suo capezzale, parenti e colleghi si davano il cambio anche per far rispettare questa volontà, che egli tuttavia modificò a pochi giorni dalla fine, chiedendo con il movimento delle palpebre di poter essere intubato e respirare qualche giorno in più, ciò che ovviamente avvenne. Che cosa si sarebbe dovuto fare altrimenti?).

Alcune espressioni, come «cultura della vita» o «cultura della morte» sono diventate nel nostro paese appannaggio di una parte, o di una chiesa, proprio come altre (per esempio «libertà») sono diventate appannaggio di un partito. Dunque non le userò. Voglio però concludere con alcune domande provocatorie: perché molti di noi sono favorevoli alla coltivazione di cellule staminali, anche da tessuti umani, e contrari alla sperimentazione sulle cavie, cioè sui topi che sterminiamo a migliaia nelle cantine dei condomini? Perché pensiamo bene della fecondazione artificiale, anche quando comporta l’acquisto all’estero di altre cellule umane (l’ovulo delle «donatrici» ucraine o spagnole, che spesso non sono tali) e insieme difendiamo l’aborto? E perché, infine, siamo favorevoli a una «buona morte» (buona per chi?) che vogliamo rimettere nelle mani di un singolo essere umano, malato, anziano, solo, che non sappiamo confortare?

Quando avrò risposto a queste domande, sarò (come già sono) contraria a ogni forma di accanimento e di protrazione di vita artificiale. Ma fino a quel momento, preferisco dubitare.