CEI, cattolicesimo e democrazia

Attilio Tempestini
www.italialaica.it | 25.02.2014

La vicenda, che ha visto la Commissione episcopale italiana rinunziare ad eleggere il proprio presidente, mi pare rappresenti un buono spunto per ragionare sulla classica questione del rapporto, fra cattolicesimo e democrazia.

I termini, della vicenda, sono ben noti: se in precedenza era il papa a nominare questo presidente, l’attuale pontefice ha lasciato che fosse la CEI a provvedere in merito, con un’elezione. Ma i vescovi italiani hanno deciso di non imboccare, tale nuova strada.

Va da sé, che su una decisione del genere possono aver pesato motivi contingenti. Ma è altrettanto facile rilevare che essa è stata presa malgrado per le analoghe commissioni, di altri paesi, si provveda al riguardo con appunto un’elezione. Insomma, per il cattolicesimo italiano al suo livello episcopale, la dimensione della democrazia (di cui è difficile negare che le elezioni siano un elemento di fondo) è così lungi dall’essere vista positivamente, che essi non soltanto hanno evitato di farsi promotori di una maggior autodeterminazione, non soltanto hanno evitato di contestare una diminutio capitis rispetto alle competenze degli analoghi organi di altri paesi, ma rifiutano un’autodeterminazione octroyée.

Capovolgiamo, adesso, la prospettiva e chiediamoci: quale è il modo in cui vedono il cattolicesimo, sia i partiti sia le istituzioni in cui la democrazia italiana si organizza e si struttura? La risposta mi pare facile: vi è, da parecchi decenni, un ampio riguardo verso tale religione, considerata risorsa preziosa per la democrazia.

Ovviamente, lungo tali decenni una pietra miliare è stata rappresentata dal voto del PCI, in Costituente, a favore dell’art. 7 della Carta. Voto che peraltro possiamo riallacciare a quando nel 1936 la rivista del partito, “Lo Stato operaio”, scriveva: “noi comunisti ti diamo la mano, lavoratore cattolico, perché assieme a te vogliamo lottare per una giustizia più grande”. Così come possiamo, dopo la Costituente, vedere in continuità col voto sull’art. 7 quel settore del PCI che -Ingrao ne era, il maggior esponente- dava particolare importanza al dialogo col mondo cattolico.

Senza contare, naturalmente, che un passo dopo l’altro la compagine maggiore, fra quelle sorte dalla scomparsa del PCI, ha finito per fondersi con una compagine cattolica. In definitiva, lungo settant’anni e fra tanti cambiamenti di linea, un punto fermo si può pur individuare!

È un punto fermo che viene nel modo migliore alla luce, se consideriamo (in contrapposizione e tornando, alla Costituente) quel socialista il quale a proposito dell’art. 7 rilevava come il rispetto, per la religione cattolica, andasse contraccambiato col rispetto per “quanti, come noi, non riescono a vedere nella volta celeste, che stelle, stelle e stelle”.

Però, allorché Craxi diventa segretario del PSI è evidente che la stagione, in cui tale partito ha rappresentato il principale soggetto di un’area per la quale discorsi come quello appena riportato potessero aver peso, è ormai alle spalle. Con conseguenze che si sono fatte sempre più sentire, sulle istituzioni. Giacché se, come ho già ricordato su “Italia laica”, Napolitano ha qualche anno fa difeso l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica, precedentemente Ciampi aveva commentato la decisione di un magistrato, contraria a questa esposizione, citando la frase di Croce secondo la quale non possiamo non dirci cristiani. Frase che in effetti sentiamo citare, di frequente; ben più di frequente di quanto si risponda che, se Croce aveva sempre ragione, l’aveva allora anche per il voto contro i Patti Lateranensi che espresse, da senatore, durante il fascismo.

Occorre risalire a Scalfaro, per trovare un Presidente della Repubblica di cui io non ricordi interventi del genere. Da un cattolico per antonomasia, è stata probabilmente mostrata -stando al Quirinale- maggiore attenzione per quella esigenza di considerare la religione “un fatto privato”, che mi pare rappresenti per la laicità un buon biglietto da visita.