I due sinodi, quello vero e quello dei media

Sandro Magister
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Nel primo concistoro del suo pontificato Jorge Mario Bergoglio non è stato tenero con la casta dei cardinali. In apertura dell’assise ha loro addebitato “rivalità, invidie, fazioni”. E nell’omelia conclusiva “intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze”. Eppure è a questo poco stimato collegio cardinalizio che Francesco ha affidato la prima importante discussione ad alto livello sul tema del prossimo sinodo dei vescovi, la famiglia, in un tempo come l’attuale – ha detto il papa – in cui essa “è disprezzata, è maltrattata”.

Il sinodo sulla famiglia è stato il centro focale degli incontri tenuti in Vaticano nei giorni scorsi. L’intero collegio cardinalizio vi ha dedicato due giorni, il 20 e il 21 febbraio. E per altri due giorni, il 24 e il 25, vi ha lavorato il consiglio della segreteria generale del sinodo, che è un po’ l’aristocrazia elettiva della gerarchia cattolica mondiale. Entrambe le riunioni si sono svolte a porte chiuse, cosa che in sé non sorprende. Ma quanto s’è intravisto di questa marcia di avvicinamento al sinodo basta a rendere ancor più palpabili le novità e le incognite introdotte da papa Francesco.

La discussione dei cardinali è stata introdotta da una relazione di ben due ore tenuta dal cardinale Walter Kasper. Mentre il consiglio del sinodo ha esaminato le risposte pervenute in Vaticano al questionario trasmesso in ottobre a tutte le conferenze episcopali. La relazione di Kasper non è stata resa pubblica, ma solo riassunta alla stampa in termini molto succinti da padre Federico Lombardi.

La decisione di papa Bergoglio di affidare a Kasper la relazione introduttiva è stata interpretata come il segnale di un possibile cambiamento della prassi della Chiesa su un punto nevralgico, il divieto della comunione ai divorziati risposati. Già negli anni Novanta, infatti, Kasper si era distinto come fautore di un cambiamento, assieme ad altri cardinali e vescovi tedeschi. A fermare tutto fu l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger.

Questa volta – stando a quanto riferito da padre Lombardi – Kasper non è tornato a proporre esplicitamente un mutamento. Ma ha tenuto alta l’aspettativa che esso possa arrivare, in particolare quando ha prospettato che “la via del sacramento della penitenza sia un cammino valido per una soluzione del problema”. Risulta che tra i sessantanove cardinali intervenuti dopo la sua relazione molti abbiano apertamente invocato innovazioni su questo punto, come del resto era già avvenuto in varie interviste e dichiarazioni di cardinali e vescovi, nei mesi scorsi.

Lo stesso papa Francesco aveva dato un segnale in questa direzione, quando lo scorso luglio, sull’aereo di ritorno dal Brasile, si era espresso con queste parole sibilline: “Una parentesi: gli ortodossi hanno una prassi differente. Loro seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità [di matrimonio], lo permettono. Ma credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale”.

Successivamente il papa aveva anche voluto la pubblicazione di una nota dell’attuale prefetto della congregazione per la dottrina della fede Gerhard L. Müller, fermissima nel ribadire l’intangibilità del matrimonio indissolubile. Ma ora di nuovo Francesco ha dato segni di apertura al cambiamento, affidando a Kasper il compito di introdurre la discussione dei cardinali e complimentandosi vivamente con lui al termine della stessa.

Per la revoca del divieto della comunione ai divorziati risposati si sono espresse – in forma quasi plebiscitaria – anche le risposte al questionario presinodale fin qui rese pubbliche. A rendere noti i risultati sono state le conferenze episcopali di Germania, Austria e Svizzera, in ciò contravvenendo all’impegno di riservatezza richiesto e subendo il blando rimprovero del segretario generale del sinodo, il neocardinale Lorenzo Baldisseri.

Tecnicamente il questionario non si presta ad essere tradotto in dati statistici attendibili. Chiunque poteva rispondervi e nelle forme più varie. Ed è evidente che ad attivarsi nel rispondere e nel dare pubblicità alle proprie risposte sono stati soprattutto i fautori del cambiamento, sia come singoli che come gruppi.

Nel presentare lo scorso 5 novembre il questionario alla stampa, l’arcivescovo Bruno Forte, segretario speciale del sinodo, disse che il sinodo “non deve decidere a maggioranza o seguire l’opinione pubblica”, ma aggiunse anche che “sarebbe sbagliato ignorare che una consistente parte dell’opinione pubblica ha una certa istanza”.

I fautori di un accoglimento delle istanze della “base” chiamano però a proprio sostegno due espressioni che ritornano spesso nella predicazione di papa Francesco. La prima è che i pastori della Chiesa devono avere “l’odore delle pecore”. La seconda e più esplicita è che i pastori devono saper camminare non solo davanti e in mezzo al gregge, ma anche dietro, “perché lo stesso gregge ha il fiuto nel trovare la strada”.

Tutto ciò mostra una crescita delle aspettative nell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa. Aspettative di cambiamento della dottrina e della prassi cattolica non solo sulla questione dei divorziati risposati ma su altri aspetti oggi all’ordine del giorno come le unioni tra omosessuali, i modi per generare o adottare figli, eccetera.

Si può prevedere che queste aspettative dell’opinione pubblica si faranno ancor più forti e pressanti quando il sinodo si riunirà in ottobre in prima sessione, col solo compito di raccogliere proposte, essendo rimandata alla seconda sessione del 2015 la formulazione delle scelte operative da presentare al papa per la decisione ultima.

Sta quindi accadendo con questo sinodo, quasi per scelta volontaria del papa e delle alte gerarchie, ciò che inopinatamente accadde con il concilio Vaticano II: cioè il suo raddoppiarsi in un concilio “esterno”, molto attivo sui media e rispondente ad altri criteri, capace di influire in modo determinante sul vero concilio.

Un anno fa, in uno dei suoi ultimissimi discorsi da papa, dopo l’annuncio delle dimissioni, Benedetto XVI evocò quei due concili paralleli, da lui stesso vissuti drammaticamente in prima persona, con parole di chiarezza lampante.

Disse tra l’altro: “C’era il concilio dei Padri – il vero concilio –, ma c’era anche il concilio dei media. Era quasi un concilio a sé, e il mondo ha percepito il concilio tramite questi, tramite i media. “Quindi il concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo è stato quello dei media, non quello dei Padri. “Il concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. “Era un’ermeneutica politica. Per i media il concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. “Sappiamo come questo concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… E il vero concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi. Il concilio virtuale era più forte del concilio reale”.

Come questo paradigma “esterno”, prodotto per il mondo e per effetto del mondo, divenne un vero e proprio canone ricostruttivo e interpretativo del concilio Vaticano II, così rischia di accadere col sinodo sulla famiglia indetto da papa Francesco. È un paradigma che sta cambiando anche la presenza della Chiesa sulla scena pubblica, dove proprio la famiglia è sottoposta alle sfide più cruciali.

Ne è sintomo un articolo uscito sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma che col papa gesuita ha visto crescere il suo ruolo di portavoce ufficiosa del vertice della Chiesa. L’autore dell’articolo, padre GianPaolo Salvini – già direttore della rivista e amicissimo dello scomparso cardinale Carlo Maria Martini – ha ripescato un documento di un anno fa di una commissione della conferenza episcopale francese e lo ha ripresentato come fosse il modello di presenza ideale della Chiesa sulla scena pubblica, il più al passo con i tempi. Certo, la visione cristiana del matrimonio non è la stessa che oggi si sta imponendo in vari paesi. Ma per “La Civiltà Cattolica” ciò non deve offrire alla Chiesa spunto di “polemica accesa” o di condanna:

“Non dobbiamo aver paura che i nostri modi di vivere entrino in contraddizione con le norme in voga nella società attuale. L’importante è che la nostra testimonianza appaia non come un giudizio sugli altri, ma come coerenza tra la nostra fede e le nostre azioni. In questo modo sarà possibile dare un apporto costruttivo anche all’intera società”. Per un breve periodo l’episcopato francese, quando era suo presidente l’arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois, si era impegnato con vigore nel contrastare la rivoluzione sessuale voluta dal presidente François Hollande. E Benedetto XVI aveva dato loro pieno appoggio, col tagliente suo ultimo discorso prenatalizio alla curia romana del 21 dicembre 2012.

Ma poi, una volta divenuto legge il matrimonio omosessuale, i vescovi francesi si sono ritirati dalla scena pubblica, nonostante le piazze continuino a riempirsi di cattolici, ebrei, musulmani, agnostici contrari a questa e ad altre leggi similari. Allo spirito di minoranza creativa e combattiva i vescovi di Francia hanno sostituito uno spirito di minoranza puramente testimoniale, paga degli “spunti positivi contenuti nelle ragioni degli altri” e aliena da condanne: “Chi sono io per giudicare?”.

E per questo hanno ricevuto il plauso dei gesuiti di Roma, che li hanno eletti a modello per la Chiesa universale con l’imprimatur delle autorità vaticane e in definitiva del papa. Col rischio che, attenendosi a questo modello, si instauri tra la Chiesa e le potenze mondane un rapporto non di dialogo ma di sottomissione, come per i “dhimmi” in una società musulmana.