Il volto femminile di Dio di L.Eugenio

Ludovica Eugenio
Leggendaria, gennaio 2014

Durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio del 2013, papa Francesco, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha affermato di voler «lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna». Che cosa questo significhi concretamente lo si vedrà in futuro, ma quello che è certo è che queste parole lasciano trasparire la mancanza di un riconoscimento della strada che la teologia femminile, vitale e creativa, ha compiuto nel corso di tanti anni. Concetto, questo, espresso limpidamente dalla teologa brasiliana Ivone Gebara in un articolo per Brasil de fato (2 agosto 2013): «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?», ha scritto.

Sottolineando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». Si ha qui una rappresentazione plastica, di fatto, delle coordinate da cui ha preso le mosse ed entro cui si è sviluppato il pensiero teologico femminile. Così come nella società, infatti, anche nella Chiesa le donne hanno avuto un ruolo fondamentalmente marginale, nonostante l’affermazione solenne, nella Lettera di San Paolo ai Galati, che con il Battesimo non vi sono più distinzioni di etnia, di condizione sociale, di genere (Gal 3,28).

In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia – strisciante ma non troppo – di cui la teologia maschile si è fatta portatrice (l’autore della prima Lettera a Timoteo, ma anche Tertulliano, nel II secolo, e persino Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Martin Lutero). Sulla ricchezza della donna sono state le donne stesse a riflettere. E hanno cominciato a farlo in tempi piuttosto recenti, da quando cioè, negli anni Sessanta e Settanta, hanno assunto consapevolezza della loro condizione di “secondo sesso” dando il via alla lotta per la propria emancipazione; questa riflessione è approdata anche al mondo religioso, a partire dalla convinzione che il volto delle donne potesse essere un riflesso del volto femminile di Dio e che tale dimensione, oscurata nel corso di quasi due millenni, dovesse andare recuperata. Con molti percorsi diversi, e a partire da contesti differenti, le donne hanno cominciato a cercare nuovi modi di esprimere il divino e modelli di spiritualità che tenessero conto dell’identità femminile, schiacciata nei secoli da una cultura e da una società fondamentalmente patriarcali.

È stato così che, a livello planetario, l’analisi della subalternità della donna e l’elaborazione di una strada che portasse a un cambiamento e a un recupero delle ricchezze spirituali femminili nella Chiesa hanno cominciato a prendere corpo in forme diverse, con una critica profonda condotta in nome delle verità evangeliche storicamente tradite: in tutti i continenti si sono sviluppati gruppi di riflessione, con un accento diverso a seconda del contesto; dalla connotazione più spirituale e di supporto al ministero dell’Europa, a quella di preghiera e lettura politica del Nordamerica, a quella comunitaria dell’America Latina, a quella solidaristica dell’Asia e impegnata nel settore dell’assistenza sanitaria dell’Africa. Lentamente le donne hanno preso coscienza dell’emarginazione di cui erano state vittime nella Chiesa e hanno voluto vedere riconosciuta la loro dignità calpestata da na cultura ecclesiastica sessista, maschilista e patriarcale. Hanno preso in mano il Vangelo, senza altra mediazione che la loro sapienza e la loro esperienza, e hanno compreso il loro valore altissimo agli occhi di Dio, a fronte di quanto per secoli erano state abituate ad ascoltare e che avevano interiorizzato. In questa nuova e radicale presa di coscienza, l’affermazione del sé femminile è passata, per le religiose, attraverso l’abbandono dell’abito – simbolo del potere maschile che le aveva schiacciate – o attraverso una forte critica dall’interno, con uno spirito di riforma.

La teologia femminile, nata nel Nordamerica, ed espressa in lingua inglese a partire da un’identità di matrice europea, è da subito teologia femminista, declinata secondo una molteplicità di orientamenti: da quello radicale a quello sociale, culturale, della liberazione, tutti accomunati, tuttavia, da un medesimo punto di partenza, quello del racconto del libro della Genesi, in cui uomo e donna sono creati, entrambi, a immagine e somiglianza di Dio. I diversi filoni filosofico-politici hanno generalmente un altro elemento comune: quello della solidarietà di Dio nei confronti della donna nella sua lotta per la dignità e del rifiuto di un’immagine prettamente maschile di Dio. Ne sono una imprescindibile espressione le prime opere della teologia femminista, da Mary Daly e il suo Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne a Rosemary Radford Ruether e il suo saggio Sexism and the God-Talk. Toward a Feminist Theology, che riprende la figura di Dio come liberatore, quale era stata trasmessa dalla tradizione profetica biblica, a Elisabeth Schüssler Fiorenza, il cui notissimo In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane dà particolare risalto al simbolo biblico di Sophia. Caratteristica dell’opera teologica femminista è il rifiuto delle interpretazioni maschili e patriarcali o androcentriche riguardanti società e Chiesa, e una ridefinizione in termini positivi delle coordinate della comunità, concepita come luogo di uguaglianza, di parità di generi, etnie e di reciprocità nel rapporto dell’essere umano con la natura, con un forte orientamento all’azione concreta.

Rispetto alla teologia femminista statunitense di origine anglo- europea, quella nata nel contesto afro americano aggiunge alla riflessione un ulteriore tassello della storia dell’emarginazione femminile con il dato del pregiudizio razziale e della classe sociale. Le teologhe nere degli Stati Uniti – un nome tra tutti, quello di Alice Walker – danno vita alla teologia womanist che contempla la liberazione per ogni persona vittima di oppressione a causa della razza, del genere o della classe sociale. Analoga è l’esperienza delle donne statunitensi di origine ispanica (la loro teologia, denominata a volte “latina”, porterà anche l’etichetta mujerista), la cui riflessione teologica contempla il radicamento all’interno di una comunità in cui forte è la rilevanza di una religione tradizionalmente e culturalmente marcata da tratti popolari, mentre quelle di origine asiatiche porteranno con sé, nella propria elaborazione teologica, il segno forte della compresenza e convivenza di diverse tradizioni religiose. Ne emerge, in tutti i casi, un forte legame con la prassi della vita quotidiana, campo di battaglia dell’identità femminile, e con la comunità di appartenenza, legami indissolubili nella lotta quotidiana per l’affermazione della dignità femminile.

E questo, l’affermazione della dignità femminile, è il perno attorno al quale ruota tutta la riflessione e la produzione teologica al di fuori dei confini degli Stati Uniti. È la lotta delle donne africane – Teresia Hinga, in Kenya, parla delle molteplici reti di oppressione di cui le donne sono vittime, aggiungendo alle diverse forme di oppressione già analizzate quelle del militarismo e del colonialismo. In tale contesto, non si tratta di cercare un’integrazione delle donne in un sistema che è “sbagliato”, e in cui le donne dovrebbero adattare le proprie doti e ricchezze a un mondo androcentrico, quanto di trasformare quel sistema ridefinendone le coordinate, in modo da raggiungere una reciprocità totale tra uomo e donna. Le donne traggono forza da una verità inconfutabile: il Dio che ha resuscitato Gesù dai morti vuole che esse abbiano vita in pienezza, le ama e desidera che trovino la loro realizzazione, e le accompagna giorno dopo giorno nelle loro fatiche. È tuttavia evidente che, in questa ritrovata relazione d’amore, la teologia femminile abbia trovato difficoltà nell’attribuire al Dio che le ama le immagini e i simboli esclusivamente maschili della tradizione, simbolo ed espressione di una concezione gerarchica dei rapporti tra uomo e donna che via via, da un punto di vista sociale, viene superata.

Nel momento in cui l’uomo non è più signore, anche l’immagine di un Dio maschile e potente che chiede obbedienza come un padrone perde terreno. Dio è un Dio d’amore e di compassione che sta accanto a chi soffre, ma è soprattutto – e questo è un elemento di grande novità – qualcuno con il quale si dispiega una sostanziale relazione di reciprocità, un fluire di sentimenti che vanno in entrambe le direzioni, da Dio alla donna e viceversa. Il modello è quello del Cantico dei Cantici (Dio lo sposo), ma Dio è anche spirito vitale che risiede dentro la donna. L’amore di Dio rende le donne libere di agire nella storia, forti, senza più bisogno di un Dio che viene in aiuto ma consapevoli di un Dio che è dentro di loro, sempre, come forza creatrice e di trasformazione che non può essere contenuta in nessuna immagine tradizionale.

Di qui, un altro grande interrogativo che le donne si pongono nel loro fare teologia: se, cioè, e in che misura, e in che modo, l’essere femminile possa essere segno e sacramento della realtà divina e della sua azione. Detto in modo più semplice: Dio può essere espresso al femminile? La risposta è lineare: sì, se le donne riescono a riprendersi la propria identità di esseri amati da Dio. È questo meccanismo che rende possibile alle donne dare a Dio nomi femminili, sottraendolo all’abitudine più che consolidata (degli uomini di Chiesa, in quanto detentori dell’autorità) di attribuirgli tratti esclusivamente maschili e riferiti al potere maschile (come dimostra l’arte pittorica di secoli), abitudine che ha provocato, nella storia, effetti devastantanti. In primo luogo, la riconduzione esclusiva dell’immagine di Dio a una lettura letterale, che ne fa un idolo, e totalmente interno a parametri umani, cosa che cancella il tratto di mistero santo.

La preghiera e la catechesi sono impregnati di questa immagine maschile dominante di Dio. In secondo luogo, il linguaggio del potere maschile condiziona pesantemente l’immaginario sociale, definendo le dinamiche di un patriarcato che si esprime e si riflette nella società e nella Chiesa (il Re dei Re), divinizzando, allo stesso modo, la figura maschile: secondo le parole di Mary Daly, «se Dio è maschio, il maschio è Dio». Ne consegue che se il maschile è la realtà più vicina a Dio, il femminile se ne distanzi. Ciò ha provocato l’effetto di convincere le donne di non poter essere degne di fronte a Dio nella loro identità femminile, ma solo nella propria dimensione spirituale, negando a se stesse, dunque, il proprio valore di esseri determinati e sessuati, e creando una dipendenza sempre più marcata rispetto agli uomini, veri e legittimi detentori di un rapporto privilegiato con Dio. Ecco, dunque, che trovare il volto femminile di Dio significa anche eliminare l’idolo nonché scalzare il potere patriarcale rendendo possibile immaginare Dio al di fuori dei limitanti parametri umani: come dire che Dio è un “lui”, è una “lei”, e allo stesso tempo – e proprio per questo – va molto al di là di tutto ciò. Ecco poste le basi per il rispetto della differenza e per la possibilità di pari diritti, nella società e nella Chiesa.

D’altra parte, un’immagine femminile di Dio è particolarmente evocativa: quella della madre, simbolo di origine della vita, amore, cura, nutrimento. Si tratta di un’immagine di cui è ricca la Bibbia (una per tutte, Is 49,15, «Si dimentica forse una donna del suo bambino…», a proposito del rapporto che Dio ha con il suo popolo). Tale immagine, tuttavia, ha un carattere ambivalente perché, se assunta come unico modello di realizzazione della donna – come accaduto nella società patriarcale, che ha fatto della maternità un’istituzione – risulta limitante. Senza dire che non per tutti o per tutte l’immagine materna è necessariamente un’immagine positiva e che, soprattutto, l’immagine materna può ricondurre a un ruolo passivo. In linea generale, tuttavia, la possibilità di parlare di Dio come di una madre affettuosa e amorevole consente di aggiungere all’immagine del rapporto tra Dio e essere umano la dimensione unica della relazione con una realtà piena di mistero che dà la vita e che ama la sua creatura e ne ha compassione.

Importante, a questo proposito, l’ “esperimento mentale” portato avanti da Sally McFague sul modello di Dio come madre (Models of God. Theology for an Ecological, Nuclear Age), in cui stabilisce un nesso profondo tra maternità e giustizia (la madre come essere d’amore che dà la vita e che desidera la realizzazione e il benessere dei suoi figli, secondo uno spirito di equità e di attenzione ai più bisognosi). In questo senso, Dio è madre. Ma Dio è anche molto altro. È sophia, sapienza, ossia – come afferma Elisabeth Schüssler Fiorenza – Dio nella sua forza redentrice nel mondo. Questa immagine è utilizzata nei libri sapienziali, ma anche dai Vangeli e da Paolo per identificare Cristo. Ancora, dunque, un’immagine femminile per esprimere il mistero di Dio, che si affianca a quella della colomba per rappresentare lo Spirito, a quella di Dio come la donna che cerca la moneta perduta (Lc 15,8-10).

Questa ricerca delle immagini femminili di Dio, tuttavia, non deve indurre nella tentazione di veicolare una concezione dualistica e biologica di un Dio con due volti, uno maschile e uno femminile, ripetendo l’associazione stereotipata del tratto maschile con tutto ciò che è forte e attivo e di quello femminile con l’aspetto passivo e accogliente. Ciò infatti non sarebbe che un ritorno al mondo patriarcale cui si intendeva sottrarre l’immagine di Dio, con un ruolo nuovamente subalterno della donna. Guardando a questo ricchissimo e composito patrimonio di riflessione individuale e corale delle donne, quale futuro si prospetta, oggi, per la teologia femminile?

Se le parole apparentemente incoraggianti, ricordate all’inizio, con cui papa Francesco sottolinea la necessità di dare risalto alla teologia femminile concedono spazio alla speranza di un rinnovato rispetto e di un più ampio spazio per il volto plurale della Chiesa – e in questo orizzonte ampio, dunque, anche per le donne – molte sono le teologhe che esprimono un certo disincanto. Come Patricia Paz, che nel suo blog sul portale Religiòn Digital contesta una sorta di “ghettizzazione” del pensiero teologico femminile: «Mi risulta inaccettabile – afferma – continuare a sentir parlare delle donne come se fosse un gruppo di persone immature incapaci di assumere decisioni e che hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne».