Sulla via di giustizia e pace. Una valutazione della 10a Assemblea del Consiglio ecumenico

Luca Maria Negro
www.riforma.it

Il 13 febbraio si è conclusa all’Istituto ecumenico di Bossey (Ginevra, Svizzera) la prima riunione del Comitato esecutivo del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) dopo la recente decima Assemblea di Busan (Corea, 30 ottobre – 8 novembre 2013) sul tema «Dio della vita, guidaci alla giustizia e alla pace». Il Comitato esecutivo è formato da venti dei membri del più ampio Comitato centrale (150 persone), più il moderatore e i vice-moderatori del Comitato centrale e il Segretario generale del Cec; si riunisce due volte l’anno per monitorare le varie attività dell’organismo ecumenico mondiale. Al termine dell’incontro abbiamo incontrato a Ginevra il Segretario generale del Cec, il pastore luterano norvegese Olav Fykse Tveit, per fare il punto sulla situazione del Consiglio dopo l’Assemblea di Busan.

– A tre mesi da Busan, qual è la sua valutazione della decima Assemblea del Consiglio ecumenico?

«È stata un’Assemblea caratterizzata da molte novità. Anzitutto per il contesto: era la prima volta che l’Assemblea si riuniva in un paese dell’Asia con una presenza cristiana forte e in crescita, ma anche con l’esigenza di testimoniare insieme la fede in un paese diviso in due come la Corea. In un certo senso era il contesto ideale per affrontare il tema dell’Assemblea, dedicato alla giustizia e alla pace. La mia valutazione è che si sia trattato di un’Assemblea “pacifica”, senza grandi controversie, che ha in qualche modo “rimesso in carreggiata” il movimento ecumenico, forse in modo più sobrio che nel passato. Siamo cioè coscienti del fatto che non possiamo risolvere tutti i problemi che esistono tra le chiese e nel mondo, e tuttavia insieme possiamo fare molto, se solo siamo capaci di concentrarci sui nostri compiti. C’è stata anche una buona integrazione tra gli aspetti teologici e quelli della testimonianza delle chiese nella società».

– E qual è stata la valutazione del Comitato esecutivo?

«Direi che il Comitato ha confermato in generale questa valutazione di un’Assemblea ben organizzata, pacifica e costruttiva. E ha confermato la proposta di proseguire il lavoro del Consiglio organizzandolo intorno all’idea, emersa a Busan, di un “pellegrinaggio di giustizia e di pace”, unificando in questa prospettiva i nostri sforzi nei vari ambiti, dall’unità alla missione, al dialogo interreligioso, alla promozione dei diritti umani e al lavoro per la pace. È importante precisare che non si tratta solo di mettere al centro la preoccupazione della giustizia e della pace, ma anche l’idea di un “pellegrinaggio comune”. Il Cec, in altre parole, deve sempre di più muoversi come una comunione, una fraternità di chiese: è nella misura in cui saremo in grado di coinvolgere le chiese membro nei nostri programmi che il nostro lavoro acquisterà senso. Come ho detto nella mia relazione al Comitato esecutivo, se alla prima Assemblea di Amsterdam del 1948 le chiese si erano impegnate a “stare insieme”, quella di Busan ci ha lasciato il chiaro mandato di “muoverci insieme”».

– In questa prospettiva, cambierà qualcosa nello stile di lavoro del Cec?

«Oltre a cercare di coinvolgere più direttamente le chiese membro nel lavoro del Consiglio, si avverte l’esigenza di diventare sempre di più una voce autorevole nella promozione della giustizia e della pace, particolarmente nel lavoro che si svolge qui a Ginevra con le organizzazioni internazionali ma anche sostenendo gli sforzi di pace delle chiese nei loro contesti nazionali e regionali. Per esempio in questi giorni stiamo cercando di fare in modo che i leader delle chiese del Sud Sudan possano svolgere un ruolo significativo nei negoziati di pace di Addis Abeba, e seguiamo con attenzione la situazione in Siria; abbiamo appena incontrato qui a Ginevra alcuni rappresentanti dell’opposizione siriana».

– Le chiese evangeliche membro del Cec appartengono in gran parte al protestantesimo «storico». C’è qualche progresso nella partecipazione al movimento ecumenico delle chiese di area «evangelicale»?

«A Busan abbiamo potuto constatare un certo miglioramento nei rapporti, dovuto soprattutto al lavoro del “Forum mondiale cristiano” a cui partecipano praticamente tutte le famiglie confessionali cristiane e che dal 1998 è servito a creare relazioni e fiducia tra i diversi partecipanti. Importante è stato anche lo sviluppo di relazioni con l’Alleanza evangelica mondiale (World Evangelical Alliance): per esempio nel 2011 il Cec, l’Alleanza evangelica e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso hanno sottoscritto una dichiarazione comune sulla “testimonianza cristiana in un mondo multireligioso”».

– E i rapporti con la Chiesa cattolica? Ci sono speranze per un rilancio dell’ecumenismo con papa Francesco?

«Per ora ho avuto con lui solo un breve incontro, ma potrò parlargli il 7 marzo prossimo in un’udienza privata. Certamente, papa Francesco sta portando nuove iniziative e nuovi stimoli, non solo alla Chiesa cattolica ma anche al cammino ecumenico. Non credo che cambierà la dottrina o il concetto cattolico della chiesa, ma certamente porta uno stile diverso, un nuovo modo di essere chiesa – e quindi anche di come possiamo essere chiesa insieme; per esempio attraverso la sottolineatura della chiesa come servitrice dei poveri, o attraverso la sua prospettiva eminentemente pastorale».

– Che cosa dirà al papa il 7 marzo?

«Gli dirò che il modo con cui sottolinea la vocazione della chiesa al servizio della gente è un’ispirazione anche per tutti noi. Come staff del Cec abbiamo voluto studiare il suo testo recente Evangelii Gaudium e lo abbiamo trovato un documento molto stimolante. Per me, come protestante, l’evangelo è gioia perché ci libera per servire Dio, per essere sale e luce nel mondo. Penso che la sua visione apra molte possibilità di lavoro comune, non solo tra Roma e Ginevra ma anche nei contesti locali».

– Da ultimo, una domanda sul nuovo progetto immobiliare che prevede di demolire e ricostruire la sede del Cec, il «Centro ecumenico» sorto a Ginevra negli anni ’60 del secolo scorso.

«Il senso del progetto è quello di utilizzare in modo più razionale la nostra proprietà, situata nel quartiere degli organismi internazionali di Ginevra. In realtà, una parte dell’attuale Centro ecumenico non sarà toccata: la cappella, la hall d’ingresso e probabilmente la grande sala di riunioni. Per il resto prevediamo la costruzione di vari edifici che possano essere utilizzati in parte per gli uffici del Cec e di altri organismi ecumenici e in parte per metterli a reddito per uffici di altre organizzazioni, appartamenti, forse un albergo. In questo modo garantiremo al Consiglio una fonte sicura di reddito, soprattutto per coprire i fabbisogni della nostra cassa pensioni che ha urgenza di essere alimentata, e risolveremo il problema di ristrutturare edifici che hanno ormai mezzo secolo. Ma le motivazioni del progetto vanno ben al di là delle questioni finanziarie: hanno a che fare con l’importanza di garantire una presenza stabile e visibile delle chiese e del movimento ecumenico a Ginevra, città internazionale in cui sono presenti rappresentanze diplomatiche di tutti i paesi del mondo, con organismi internazionali che lavorano su temi che sono al centro delle preoccupazioni delle chiese, come la pace, la giustizia, i rifugiati, l’Aids… La nostra presenza a Ginevra è strategica, anche perché c’è, negli organismi internazionali, una nuova consapevolezza del fatto che le organizzazioni “di fede” non sono un problema ma al contrario sono un potenziale per la soluzione dei grandi problemi del nostro mondo».