Ior, le resistenze nella curia vaticana alla pubblicazione delle carte

Massimo Franco
www.corriere.it

Poco prima che Jorge Mario Bergoglio partisse per il Conclave, una donna argentina gli disse: «Eminenza, quando va a Roma si porti dietro un cane. E gli faccia assaggiare tutto quello che le danno da mangiare, prima di toccare lei il cibo». È’ uno dei tanti episodi raccontati da Massimo Franco nel saggio Il Vaticano secondo Francesco. Da Buenos Aires a Santa Marta: come il Papa sta cambiando la Chiesa e conquistando i fedeli di tutto il mondo, in uscita domani per Mondadori.
Il libro è un’inchiesta che parte dai documenti dell’Archivio Segreto Vaticano sulla storia di Casa Santa Marta, costruita nell’Ottocento come lazzaretto per malati di colera e oggi scelta come casa da Francesco. Prosegue in Argentina per analizzare il modello latinoamericano che il pontefice sta esportando a Roma. E tocca le sfide aperte che il Papa affronta tra le mille resistenze della Curia, sulla scia di un Conclave che ha chiuso l’era del primato italiano ed europeo.
Proponiamo di seguito alcuni brani del capitolo «Oltre lo Ior», e di un colloquio a Buenos Aires con monsignor Victor Manuel Fernandez, rettore della Universidad Catolica Argentina, Uca, tratto dal capitolo «Il tango di Bergoglio».

Quando nel luglio del 2013 il vertice dello Ior, in carica da appena pochi mesi dopo la turbolenta uscita di scena di Ettore Gotti Tedeschi, decise di rendere pubbliche le nuove direttive sui clienti dell’Istituto per le opere di religione, notò una reazione ostile. L’iniziativa partiva dalla necessità di dare prova di trasparenza, allontanando almeno una parte delle ombre che da anni si allungano sulle attività dell’Istituto ospitato nel Torrione di Niccolò V, nel cuore delle sacre mura. Ma le resistenze risultavano altrettanto forti.

Non era opportuno, si obiettava, mettere in circolazione notizie riservate che poi «potevano essere usate dalla massoneria» contro il Vaticano. Eppure, esisteva un’esigenza accentuata dal modo singolare col quale era stato scelto il successore di Gotti Tedeschi: e cioè nel limbo temporale tra le dimissioni di Benedetto XVI e l’inizio del Conclave. Il vertice della banca cercò di spiegare che la comunità finanziaria internazionale continuava a tenere gli occhi addosso allo Ior; e che lo stesso Francesco considerava una priorità la riforma radicale dell’Istituto (…).
Non a caso, sorprendendo tutti, a metà giugno Francesco aveva nominato «prelato» dello Ior monsignor Battista Ricca, direttore della Casa Santa Marta, dove aveva scelto di vivere: una persona di sua totale fiducia, anche se digiuna di finanza, come anello di collegamento e «orecchio» del pontefice tra la Commissione cardinalizia presieduta da Tarcisio Bertone e il Consiglio di sovrintendenza con a capo, appunto, il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg. E dieci giorni dopo, con un «chirografo», un documento riferibile a lui personalmente e datato 24 giugno, aveva istituito una «pontificia commissione referente» per «conoscere meglio la posizione giuridica e le attività dello Ior».

A presiederla fu chiamato un anziano e rispettato cardinale salesiano, Raffaele Farina, ex Prefetto della Biblioteca Vaticana. Al suo fianco, un’altra «eminenza» stimatissima da papa Bergoglio, Jean-Louis Tauran, francese; monsignor Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, spagnolo e coordinatore della commissione; monsignor Peter Bryan Wells, statunitense e numero tre della Segreteria di Stato; e la presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Mary Ann Glendon, ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede e giurista alla prestigiosa università di Harvard.

Se non era un vero e proprio commissariamento, gli somigliava. E comunque, faceva intendere che Francesco era insoddisfatto del modo in cui andava avanti la riforma. Passarono giorni prima che la richiesta di von Freyberg ricevesse una risposta. Tanto che alla fine, raccontano in Vaticano, il presidente dello Ior si rivolse a monsignor Ricca. E gli chiese di parlarne direttamente con il Papa. Francesco e il monsignore si incontrarono a colazione a Santa Marta, come accade abbastanza spesso. E Francesco, dopo avere analizzato i pro e i contro, decise che si pubblicasse tutto. L’episodio conferma sia la volontà del pontefice argentino di procedere sulla strada della trasparenza, sia le resistenze fortissime che incontra.
Gotti Tedeschi, interrogato dalla magistratura per alcuni giri di soldi dello Ior ai quali sarebbe risultato totalmente estraneo, non nascondeva di avere intravisto conti correnti «strani», e operazioni così misteriose che lui stesso ne era stato tenuto all’oscuro (…). L’ex presidente, sfiduciato il 26 maggio del 2012, da quel momento era stato tagliato fuori da tutta la rete vaticana che contava. Aspettava di essere convocato da Benedetto XVI per potergli spiegare la propria verità, o almeno da monsignor Georg, suo segretario privato. A intermittenza gli veniva assicurato che presto sarebbe accaduto (…). Fino a quando, all’inizio di febbraio del 2013, fu fissato un incontro proprio con Bertone: l’ex mentore di Gotti Tedeschi, poi suo avversario per le resistenze del presidente dello Ior ad avallare operazioni finanziarie ritenute spericolate.

Il luogo prescelto era lo studio del cardinale Giuseppe Versaldi, potente «ministro delle finanze» vaticane. Erano passati quasi nove mesi dalla sfiducia. E bisognava ammansire l’economista piacentino, fargli capire che la sua quarantena stava per finire, che papa Benedetto XVI era quasi pronto a riceverlo; e che dunque non doveva sentirsi abbandonato, né essere tentato di raccontare la frazione di segreti che riteneva di avere raccolto. Versaldi era l’anfitrione di quella che doveva apparire la grande riconciliazione tra Gotti Tedeschi e il Segretario di Stato.
Testimone e promotore del colloquio: il vescovo di Piacenza, la città del banchiere, monsignor Giovanni Ambrosio. Quante cattiverie sono state dette sul nostro conto!, avrebbe esordito Bertone vedendo il banchiere: quasi fossero stati entrambi vittime di quello che era accaduto allo Ior. Poi lo rassicurò, gli disse di tenersi a disposizione, perché presto il Papa lo avrebbe convocato. Ma la convocazione non ci fu mai. Pochi giorni dopo l’incontro di Gotti Tedeschi col segretario di Stato vaticano, Josef Ratzinger si dimise….

Il problema ormai non è lo Ior, ma il rapporto della finanza vaticana col mondo esterno; e l’esigenza di seguire le indicazioni di un Papa deciso a imprimere una svolta al modo di gestire i soldi. Con l’arrivo di Francesco lo Ior è apparso solo un vecchio guscio: una corazza bancaria creata nel 1942 da Pio XII anche per impedire al fascismo di Benito Mussolini in guerra di controllare i fondi e le operazioni finanziarie del Vaticano. E appare figlio di un’altra era geologica della Chiesa: quella della segretezza abbinata all’impunità; dei soldi in contanti raccolti e distribuiti per cause pie e meno pie senza doverne rendere conto a nessuno e senza che si potesse nemmeno risalire sempre ai beneficiari (…).

L’Istituto per le opere di religione è la metafora di una metamorfosi difficile, dolorosa e insieme improcrastinabile. E le nomine a ripetizione fatte da Francesco nei primi mesi del papato hanno sottolineato l’urgenza e insieme l’affanno col quale si tenta di riplasmare un organismo che ormai crea problemi al Vaticano, più che risolverli (…). A sbrogliare quegli intrecci occorrevano dei professionisti in grado di incontrare il rispetto delle istituzioni finanziarie e dei governi a livello globale. Per questo a fine maggio del 2013 il Vaticano si convinse ad affidare a Promontory l’esame dei conti correnti dello Ior, e successivamente di entrare nel ginepraio dell’Apsa.

Ma nei sacri palazzi società come Promontory alimentavano dubbi e diffidenze. Era come fare entrare in casa un intruso, se non un nemico. Un colosso come quello evocava lo spettro della massoneria internazionale, i gangli più oscuri del potere di Wall Street, dei governi occidentali e delle banche centrali gonfi di pregiudizi verso la Santa Sede. E pazienza se il pregiudizio era, in realtà, reciproco. A sentirsi «occupato» e «infiltrato» da un piccolo esercito di marziani era il Vaticano. Perché Promontory, una società di consulenza con base a Washington, è considerata una sorta di controllore-ombra.

Fondata e diretta dal 2001 da Eugene Ludwig, banchiere e avvocato nato a Brooklyn, New York, e cooptato dal presidente Bill Clinton nel 1993 per dirigere l’Occ, l’organo che controlla l’attività delle maggiori banche Usa, in pochi anni è diventata una potenza (…). Alla base del modo di agire c’è l’esperienza di ex «cani da guardia» della legalità finanziaria, provenienti da organismi governativi al massimo livello. Tra i 450 dipendenti ci sono due ex capi della Sec, la Security and Exchange Commission, equivalente Usa della Consob che vigila sulle attività di Borsa; e due ex top manager della Federal Reserve, la banca centrale americana. Il problema vero, però, è un altro. L’ingresso di una ventina di «segugi» di Promontory, armati di computer, nel torrione di Niccolò V, è stato visto come un cedimento di sovranità della Santa Sede.

«L’autonomia finanziaria di uno Stato è un pezzo della sua sovranità», sostiene sotto garanzia di anonimato un cardinale ben addentro a questi temi. «E la sovranità della Santa Sede è messa a rischio se non si interpreta con prudenza l’esigenza di trasparenza. Dare un potere assoluto di indagine a società come Promontory equivale a consegnare in mano a poteri e potenze straniere documenti sensibili e informazioni sui conti di ogni singolo cardinale…». Ma la struttura vaticana subiva i controlli perché non aveva voluto vedere e prevenire le conseguenze che i cambiamenti avvenuti nella finanza globale avrebbero comunque imposto. Era un difetto di visione strategica, figlio di un’autoreferenzialità e di un’illusione di impunità duri a morire. Eppure, quando a luglio Francesco aveva voluto una «commissione referente» tipo quella sullo Ior, qualche campanello avrebbe dovuto suonare. Si intuiva che i tempi del Papa e quelli della riforma non collimavano…

Il ritmo era di 1.000-1.500 conti controllati ogni mese. E a fine estate scattò la richiesta di chiusura dei conti di quattro ambasciate politicamente «sensibili»: Indonesia, Iran, Siria e Iraq. Poche settimane dopo arrivarono lettere con le quali 1200 correntisti «laici» si vedevano interrompere ogni rapporto con la banca vaticana (…). Da tempo si ipotizza che possa essere stato depositato anche denaro ricollegabile a organizzazioni criminali (…). In quel caso, sarebbe stato confiscato? E come, visto che la Santa Sede è uno Stato estero? Si intravede una labirintica terra di nessuno legale, che soltanto trattative tra Italia e Vaticano a livello statale, finanziario e giudiziario possono risolvere.

Nel 2013 all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede si svolgevano incontri discreti tra le due sponde del Tevere per capire come uscirne. Con la mediazione dell’ambasciatore Francesco Maria Greco arrivavano messaggi nei quali i vertici di Bankitalia, della Segreteria di Stato vaticana, del governo ipotizzavano soluzioni bilaterali dove convogliare i fondi sospetti, e joint venture giudiziarie per indagare a fondo. Insomma, una collaborazione che di fatto si era fermata per una trentina d’anni, mentre in parallelo continuavano le complicità.

Il pericolo era stato reso tangibile dall’arresto, il 28 giugno del 2013, di monsignor Nunzio Scarano a Roma: un uomo-chiave dell’Apsa, accusato di frode e corruzione con un ex agente segreto italiano e un broker (…). La vera domanda era: quanti monsignori Scarano esistono nelle pieghe delle attività finanziarie vaticane (…)? Si tratta di un grumo di mistero di fronte al quale perfino un pontefice determinato come Francesco sembra obbligato a seguire tempi diversi da quelli che si è imposto.

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Diario Vaticano / La segreteria di Stato ha perso il controllo sull’economia

Sandro Magister
http://chiesa.espresso.repubblica.it

La riforma globale della curia romana ancora non è dietro l’angolo. Lo ha ribadito a fine febbraio il coordinatore del consiglio di cardinali istituito da papa Francesco anche con questo scopo.

Ha detto infatti su “Avvenire” del 25 febbraio il cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga: “Le riforme della curia hanno sempre richiesto molto tempo. Viviamo nell’era dell’immediato e molti vorrebbero delle risposte. Si stanno esaminando le posizioni sui dicasteri, seguiranno quelle sui consigli. Abbiano pazienza”.

Ma in attesa di questa annunciata riforma globale, papa Francesco non se ne sta fermo. Procede con i suoi atti riformatori a colpi di motu proprio. Proprio nello stesso giorno in cui il porporato dell’Honduras chiedeva pazienza, il 24 febbraio, Jorge Mario Bergoglio ha dato infatti una ulteriore accelerata al cambiamento delle strutture economico-finanziarie della stessa curia.

Lo ha fatto con il motu proprio “Fidelis dispensator et prudens”, dal versetto 42 del capitolo 12 del Vangelo di Luca, che parla appunto di un “amministratore fedele e prudente”. Con questo motu proprio il papa ha istituito tre nuovi organismi. Il più importante è un nuovo dicastero, l’atteso “superministero” delle finanze vaticane, retto da un cardinale prefetto. Incarico che nello stesso giorno Francesco ha affidato al cardinale australiano George Pell.

Essendo guidato da un cardinale, il nuovo ministero vaticano sarà quindi di prima categoria, ma non si chiamerà congregazione. Il suo nome infatti è “segreteria per l’economia” e ai suoi vertici ci sarà – sempre di nomina pontificia – anche un “prelato”, quindi un ecclesiastico non necessariamente vescovo, con le funzioni di segretario generale.

La neonata segreteria – si legge nel motu proprio – “risponde direttamente al Santo Padre e attua il controllo economico e la vigilanza” sui dicasteri della curia romana, sulle istituzioni collegate con la Santa Sede e sullo Stato della Città del Vaticano. Saranno sua competenza anche “le politiche e le procedure relative agli acquisti e all’adeguata allocazione delle risorse umane, nel rispetto delle competenze proprie di ciascun ente”. Il nuovo cardinale segretario per l’economia – specifica inoltre il motu proprio – “collabora con il segretario di Stato”.

Il motu proprio istituisce anche la figura, sempre di nomina pontificia, di un “revisore generale” con compiti di “revisione contabile (audit)” dei suddetti enti vaticani o collegati alla Santa Sede. In questo caso, non essendo specificato che si tratta di un incarico riservato ad ecclesiastici, è ovvio che potrà essere ricoperto da un laico o da una laica. Il documento crea infine un nuovo consiglio per l’economia che ha il compito di “offrire orientamenti sulla gestione economica e di vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e finanziarie dei suddetti enti”. Orientamenti di cui la neonata “segreteria per l’economia” dovrà tenere conto.

Questo nuovo consiglio subentra al consiglio di cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede istituito da Giovanni Paolo II nel 1981. Quest’ultimo era costituito da quindici cardinali residenziali di vari paesi e veniva convocato e presieduto due volte l’anno dal cardinale segretario di Stato, in collaborazione con il cardinale presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede. Il nuovo consiglio conserva il profilo internazionale, ma accanto a otto ecclesiastici –che potranno essere anche vescovi senza la porpora – comprenderà sette “esperti laici di varie nazionalità con competenze finanziarie e riconosciuta professionalità”.

In un comunicato della sala stampa vaticana diffuso prima della pubblicazione del motu proprio è stato specificato che a capo della segreteria il papa ha nominato il cardinale Pell, “attuale” arcivescovo di Sydney, sede che comunque lascerà a fine marzo per stabilirsi a tempo pieno a Roma. Nello stesso comunicato viene inoltre confermato, esplicitandolo per la prima volta, che l’APSA, l’amministrazione del patrimonio dei beni apostolici, continua ad essere la “banca centrale del Vaticano, con tutti gli obblighi e le responsabilità delle istituzioni analoghe in tutto il mondo”. E viene ribadito che l’AIF, l’autorità di informazione finanziaria, mantiene l'”attuale e fondamentale ruolo di vigilanza prudenziale e disciplina delle attività all’interno della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”.

Nel motu proprio papa Francesco spiega che le decisioni prese con esso arrivano dopo aver “considerato attentamente” i risultati della commissione referente sulle strutture economico-amministrative della Santa Sede e dopo aver consultato i cardinali del consiglio degli otto e del consiglio per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, quest’ultimo ora di fatto esautorato (e che venissero congedati, i quindici cardinali uscenti l’hanno appreso solo la mattina del 24 febbraio, quando si sono ritrovati, senza alcun preavviso, in quella che sarebbe stata la loro ultima riunione).

Sempre nel motu proprio viene affidata al cardinale prefetto della nuova segreteria il compito di scrivere gli statuti della stessa segreteria – il che in realtà appare un po’ anomalo – come pure degli altri due nuovi organismi istituiti, il consiglio per l’economia e il revisore generale. Naturalmente, la portata effettiva del motu proprio del 24 febbraio potrà essere valutata appieno solo dopo la pubblicazione degli statuti e dopo che i nuovi organismi troveranno posto nella riforma globale della curia di là da venire.

Nel frattempo però si può ipotizzare – e qualcuno l’ha già fatto – che la creazione di questa nuova segreteria e la decisione di affidarla a un australiano siano un colpo inferto alla centralità della segreteria di Stato e allo storico predominio italiano nella curia romana. In ambito francofono, ad esempio, il vaticanista Sebastien Maillard ha scritto su “La Croix” che la creazione della segreteria per l’economia segna “la fine” della figura del “numero due” del Vaticano, cioè del segretario di Stato. Mentre lo scrittore Nicolas Diat – autore di un discusso libro, “L’homme qui ne voulait pas être pape”, che si è meritato una recensione con annessa smentita, ma solo in francese, da padre Federico Lombardi – ha detto che “la nomina di un cardinale dell’Oceania è il simbolo più eclatante della de-italianizzazione della curia romana”.

In effetti con la nomina di Pell alla guida della “segreteria per l’economia” viene di fatto relativizzata la figura del responsabile dell’altra e finora unica “segreteria” vaticana, quella “di Stato”, solitamente affidata a un ecclesiastico italiano. Va tenuto presente che nella prassi degli ultimi decenni la vera cabina di regia della politica economico-finanziaria della Santa Sede era diventato l’ufficio amministrativo della segreteria di Stato, il cui responsabile continua tuttora a essere ricevuto in udienza quotidiana dal sostituto.

E storicamente questo ufficio è stato sempre retto da ecclesiastici italiani. Gli ultimi due sono stati il prelato piemontese Gianfranco Piovano (durante la cui lunga reggenza l’ufficio assunse una tale importanza da essere percepito in Vaticano quasi come una “terza sezione” della segreteria di Stato) e dal 2009 il lombardo Alberto Perlasca.

Ora però questa cabina di regia sembra trasferirsi in un nuovo dicastero posto alle dirette dipendenze del papa e su un apparente piano di parità con la segreteria di Stato, con cui è chiamato a “collaborare” senza però esserne subordinato. E questa cabina di regia non è stata affidata a un italiano, bensì a un australiano, mentre come numero due è stato nominato, il 3 marzo, il prelato maltese Alfred Xuereb, segretario particolare di Francesco e già da lui “delegato” il 28 novembre a “vigilare e tenere informato” il papa sui lavori delle due commissioni referenti sullo IOR e gli altri uffici finanziari vaticani.

Quanto alla prefettura degli affari economici della Santa Sede, le cui attribuzioni sono di fatto assorbite dalla neonata segreteria, sembra proprio destinata a sparire, anche se nulla è stato scritto in proposito nel motu proprio e nella nota che lo ha accompagnato. Anche la prefettura, dalla sua fondazione nel 1967, è stata solitamente guidata da un ecclesiastico italiano, ultimo dei quali il cardinale Giuseppe Versaldi. L’unica eccezione è stato lo statunitense Edmund C. Szoka dal 1990 al 1997. Ma la nomina di Xuereb è interessante anche per due aspetti.

Anzitutto appare evidente che il suo nuovo incarico è incompatibile con quello di primo segretario particolare del papa. Ciò vuol dire che a un anno dalla sua elezione Francesco dovrà scegliersi un nuovo collaboratore per sostituire quello ereditato da Benedetto XVI (Xuereb fu infatti il secondo segretario di papa Joseph Ratzinger dal 2007 allo scorso anno). Ed è probabile che come primo segretario subentrerà a Xuereb l’argentino Fabián Pedacchio Leaniz, che Bergoglio chiamò a sé dopo l’elezione.

Il secondo aspetto curioso della nomina di Xuereb è che fino a poche ore prima il designato a questo incarico sembrava essere il monsignore spagnolo Lucio Ángel Vallejo Balda, membro della società sacerdotale della Santa Croce, collegata all’Opus Dei, nonché numero due della prefettura degli affari economici, segretario della commissione referente sulle strutture economico-amministrative della Santa Sede e talent scout di una discussa componente di tale commissione, Francesca Immacolata Chaouqui.

A dare la sua nomina per scontata erano stati sia Pell che lo stesso Vallejo Balda, all’agenzia Europa Press. E il preannuncio aveva fatto rumore soprattutto in ambito ispanico. Esemplare l’articolo a doppia firma dei due giornalisti di punta del sito cattolico progressista Religion Digital, che anticipavano la nomina di Vallejo Balda a “numero dos de la nueva segreteria economica” con questo roboante titolo: “El economista español de la Iglesia austera de Francisco”.

Ma con la nomina di Xuereb papa Francesco ha fatto capire, “urbi et orbi”, che in Vaticano le nomine le fa lui. Nel caso qualcuno non l’avesse ancora capito.