Riconciliazione. Nessun futuro senza perdono di L.Tomassone

Letizia Tomassone
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I percorsi di riconciliazione devono costruirsi a partire dal racconto delle ingiustizie e delle violenze e attraverso la presa di responsabilità, a impedire strumentalizzazioni della storia e l’infinita catena di recriminazioni e vendette. Come credenti e come chiese cristiane e protestanti come ci poniamo di fronte a questi temi? Come ci tocca e interroga la parola biblica? Letizia Tomassone (pastora valdese) scegliendo alcuni episodi e personaggi dell’Antico Testamento, talvolta scomodi e spiazzanti, ci conduce in un percorso di riflessione che segue le figure scelte nella costruzione della pace e della giustizia.

Non c’è futuro senza perdono, afferma l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu [1]. E infatti il grande lavoro fatto in Sud Africa dopo l’apartheid ci offre l’esempio di un’importante operazione collettiva di giustizia e riconciliazione. La pratica delle corti per la verità e la riconciliazione istituite da Mandela è ancora sempre da ricordare, perché non si ceda all’indifferenza e non si dica che la nonviolenza è impossibile. Nelle corti, insediate nei quartieri e nei villaggi, i torturatori e gli oppressori erano chiamati a raccontare le loro azioni, assumendosene le responsabilità. Allo stesso modo anche i torturati e le vittime dovevano raccontare. L’assunzione di responsabilità e la franchezza nell’individuare cosa era accaduto, la possibilità di parlare ed essere ascoltati e ascoltate: questo è stato l’elemento chiave di tutto il processo di riconciliazione in Sud Africa.

La differenza da quanto accaduto in Italia dopo la II guerra mondiale salta agli occhi: qui da noi nascondimento e amnistia hanno cancellato anche la necessità di raccontare e di assumersi le responsabilità. Questo ha alimentato uno spirito di parte e un uso strumentale della memoria che può essere rintracciato anche nei modi in cui le colpe dei partigiani sono ri-raccontate in alcuni libri recenti, nelle polemiche sui militanti di Salò o sui morti delle foibe. In un certo senso, non aver fatto chiarezza su quanto avvenuto, non ha spezzato la catena delle rivendicazioni e di una memoria che si alimenta di rancori e di una sequenza di vendette, anche solo nelle parole usate.

Va detto che le corti per la giustizia e la verità del Sud Africa si sono basate su alcuni elementi tradizionali della cultura nera di quel popolo: assemblee di villaggio e momenti collettivi di presa in carico della vita sociale. Forse questa rete collettiva di capacità decisionale è stata devastata in Europa e in Italia più che altrove dalla globalizzazione, che ha svuotato i nostri cortili e le nostre piazze e ci offre in cambio solo luoghi vuoti come i centri commerciali e le vie dello struscio con le vetrine accese.

Tutto questo ci fa considerare che nel lavoro per la pace sono necessarie due cose essenziali: dei luoghi di condivisione e costruzione collettiva del vivere comune, e la capacità di mantenere viva e vera la memoria, di non rimuovere e non travisare, insomma una memoria capace di analisi lucida e trasparente. Quanto c’è di questo nella Bibbia che sfogliamo e nella cultura biblica delle nostre chiese evangeliche?

Direi che i due elementi individuati non hanno la stessa storia nel testo biblico. Infatti sia i profeti sia i libri storici della Scrittura danno gran rilievo alla memoria persino come elemento fondante della fede e anche dell’assunzione di responsabilità. Questo avviene a tal punto che in molte occasioni i profeti caricano la responsabilità del male che affligge il popolo, delle invasioni o delle guerre sul popolo stesso, sulle sue idolatrie, sull’ingiustizia sociale dilagante.
“Ecco, la mano del Signore non è troppo corta per salvare, né il suo orecchio troppo duro per udire; ma le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto”. (Is 59:1-2)

Il profeta invita dunque a non scaricare le colpe del male su Dio – o sul fato, o sul destino misero e gramo che si accanisce su chi già è nella desolazione. Non Dio ma voi, dice Isaia, vi siete separati da Dio. In fondo tutta la Scrittura è un invito a diventare soggetti responsabili della propria vita, e a contrastare l’indifferenza di fronte a quanto accade. Una figura simbolica di questo è per esempio Raab, la prostituta, che salva tutta la sua famiglia decidendo di accostarsi alla fede di Israele. Nel crollo delle mura di Gerico, nella distruzione della città, lei e i suoi sono portati in salvo. Di lei si può dire che fa una scelta di campo, si può persino accusarla di aver tradito il suo popolo salvando i giovani esploratori che si erano rifugiati nella sua casa: non una scelta nonviolenta in via di principio dunque. Piuttosto il desiderio di salvare quelle giovani vite e insieme di salvare tutti i suoi.

Tuttavia Raab viveva ai margini della sua città, anelava lei stessa e una vita migliore che quella città non le offriva: forse per questo poteva prendere le distanze da essa e allearsi a questo nuovo popolo che portava con sé una storia di schiavi e schiave liberate dall’oppressione. E la cosa interessante è che anche in Israele Raab continuerà a stare come una finestra aperta sul mondo, senza un’assimilazione che ne cancelli l’identità, ma invece come memoria continua del fatto che il Dio d’Israele convince anche altri oppressi e altri popoli a sperimentare la libertà dalla schiavitù.

A dire il vero è proprio in uno dei libri più cruenti del primo testamento che troviamo la storia di Raab e alcuni altri racconti di strategie di sopravvivenza dei popoli e delle persone: si tratta del libro di Giosuè, quello che racconta la conquista del paese di Canaan, e che è servito da traccia per legittimare la conquista delle Americhe e l’estinzione violenta dei nativi e degli indiani, così come il sionismo e l’appropriazione di terre e case altrui in Israele. Per esempio, oltre alla storia di Raab (cap.2) c’è la storia dei Gabaoniti (cap.9) che si fingono provenire da luoghi lontani, con tutta una messinscena degna dei migliori attori. I Gabaoniti si prestano ai lavori servili per questi nuovi padroni che arrivano nella loro terra, pur di non essere massacrati e sottoposti alla legge che imponeva di distruggere ogni cosa e ogni essere vivente nelle città conquistate. Si trattava di una legge indirizzata contro l’avidità, ma ci fa vedere l’immagine violenta di un Dio, ancora incapace di parlare al popolo nei termini della condivisione di una terra e di risorse comuni. Non possiamo chiedere al testo biblico di uscire dai limiti temporali della cultura che lo ha prodotto, anche se a volte questo accade e ci offre grandi speranze sulla possibilità umana di percepire gli elementi spiazzanti della presenza divina fra noi.

Il nostro lavoro con i testi è però un lavoro di interrogazione su di noi, su come li recepiamo e su come possiamo comprendere in modo più maturo un Dio che supera la violenza e l’oppressione. Spesso i testi del primo testamento sono spiazzanti perché portano avanti istanze di liberazione e di giustizia ma poi le limitano a quanti aderiscono alla fede nel Dio d’Israele. Così è per gli schiavi ebrei, che devono essere rimandati liberi dopo pochi anni, mentre non c’è la stessa prescrizione per i non ebrei. Forse, fatta salva la necessità di contestualizzare i testi e dunque di riconoscerne il grande valore per un cammino umano che si avvia verso una sempre maggiore giustizia, si può considerare questo: solo una giustizia che riguarda tutta l’umanità e tutti gli esseri viventi che condividono il ciclo vitale su questo pianeta e nell’equilibrio dei pianeti nel sistema solare e oltre è degna del Dio che crea il mondo per la vita.

In questo modo la teologia della creazione ci spinge a radicare la giustizia nella realtà presente invece che in un futuro immaginato o sognato. Proprio come nelle corti del Sud Africa, il sogno si fa realtà, con tutta la fatica di un lavoro minuto che non vuole rimuovere la responsabilità e i contributi di ognuno e ognuna.

Si è chiusa da poco la X Assemblea ecumenica del CEC, il cui tema era ancora collocato all’interno del processo che segna il cristianesimo del nostro tempo: “Giustizia Pace e Integrità del Creato”. I documenti finali inviati alle chiese hanno ricalcato, sul tema della pace nella giustizia, i documenti finali della grande assemblea sulla pace di Kingston (2011). In particolare si è messo l’accento sulla denuncia delle armi nucleari come contrarie ai diritti umani e alla vita. Facendo riferimento all’incidente di Fukushima, l’assemblea, che si è tenuta nella stessa area geografica del Giappone, ha affermato la necessità di mettere fine all’uso del nucleare che espone anche a livello civile a rischi troppo elevati per le società umane e per il pianeta stesso.

Nell’assemblea non ha prevalso la linea della nonviolenza globale e della cancellazione della guerra dalla storia. A Kingston era stato un maestro del mondo quacchero a proporre una linea teologica che diceva “ogni guerra e ogni violenza sono peccato”. Mai più guerra significa lavorare contro una finanza mondiale che impoverisce e rapina le risorse dai paesi già più fragili, significa denunciare la produzione e il commercio di armi, significa per le chiese separarsi da questa società malata di violenza. Il documento sulla pace prodotto a Busan sembra dare ancora una chance al governo mondiale, alle leggi e agli organismi di ordine. In una prospettiva molto legata alla teologia riformata, le leggi qui sono viste come lo strumento che Dio offre ai credenti per metter ordine nel mondo. E ordine è giustizia, nella visione di Calvino o di John Knox. Ordine è contrasto al caos della violenza, il caos che rovescia la creazione di Dio, che in qualche modo la nega. La giustizia, nella teologia riformata, non è solo il sogno messianico legato al regno di Dio; essa è radicata nella creazione, nell’attenzione amorevole con cui Dio si prende cura del mondo.

Cosa devono fare dunque i credenti e le credenti? Mi rifaccio a un testo interessante della Bibbia ebraica che è anche una delle radici della comprensione di Gesù sulla propria azione: il libro di Daniele. Il racconto inizia con un gesto di separazione di Daniele e dei suoi tre compagni dalla società babilonese in cui sono inseriti. Figli della deportazione e dell’esilio, i quattro giovani sono scelti per diventare parte dell’élite della società interculturale di Babilonia. Assieme a molti altri figli di stranieri frequentano infatti una scuola che li deve formare come dirigenti della nuova società che va prendendo sostanza dalla convivenza di tante culture diverse. Ci sorprende l’audacia della corte babilonese che non riserva ai giovani stranieri qualche spazio marginale e ghettizzato, ma li mette proprio al centro della spinta per il futuro, per una società nuova e diversa, che accoglie tutte le proposte che vengono da culture altre, e offre loro il massimo della formazione possibile in quella società.

Daniele e i suoi compagni ebrei fanno dunque parte di un gruppo privilegiato, tutti e quattro diventeranno funzionari importanti dell’impero, un po’ come Giuseppe alla corte del Faraone. Daniele sembra condividere questo cammino per una società in cui le culture si intrecciano, ma scopriamo ben presto che lo fa con una speciale presa di posizione. Rifiuta di mangiare i cibi e il vino che, segno di privilegio, vengono dalla mensa del re. I giovani erano infatti non solo formati nelle diverse scienze e arti necessarie a un lavoro importante, ma erano già coinvolti nei lussi della vita di corte.

I quattro giovani ebrei guidati da Daniele rifiutano i cibi non per una questione rituale – la codificazione sulla purezza del cibo che esiste tuttora nel mondo ebraico non era ancora formalizzata all’epoca di Daniele. Essi lo rifiutano per non farsi corrompere dal potere e dalla vita di corte. La loro separazione è separazione dalla corruzione che porta con sé ingiustizia e squilibrio opprimente: una società in cui i potenti mangiano meglio dei loro popoli e si concedono privilegi e lussi che gli altri non vedranno mai. Viene in mente la sobrietà vissuta dal presidente dell’Uruguay, Josè Murillo, che con semplicità condivide la vita di tutti per trasformare la società in un luogo abitabile con agio da tutti.
La scelta di Daniele e dei suoi compagni viene sostenuta da Dio: in un racconto un po’ leggendario vediamo che i quattro giovani, dopo giorni di una dieta “vegana” (cioè del tutto priva di elementi animali – del tutto priva di ogni violenza verso gli animali), sono più belli e sani di tutti gli altri che mangiano i manicaretti e bevono il vino della mensa del re. Separarsi dalla corruzione di corte è per Daniele una strategia essenziale per poter essere una forza che trasforma la società nel senso della giustizia.

Certo questa separazione ha anche un effetto collaterale importante: crea la loro identità come identità distinta, proprio in un momento in cui la corte babilonese cercava di trarre il meglio dal mescolamento delle identità, dal melting pot. Si tratta di un rifiuto della società interculturale? Non credo. Mi pare piuttosto di vedere in questo percorso un modo di appropriarsi della società interculturale senza perdere quanto di valore c’è nella propria cultura d’origine.

Oggi, la violenza che percorre la nostra società pesca nel razzismo, nella separazione violenta dagli altri e si nutre di pregiudizi. Daniele invece affida il suo equilibrio a un Dio che lo spinge fuori da un potere corrotto che crede nei propri privilegi. Daniele cammina sul filo della giustizia e della fede, e il suo equilibrio lo fa quel Dio che ha accompagnato il suo popolo anche in esilio, un Dio che non si fa sconfiggere dalla violenza della storia, ma la scava e la rivolta da dentro.

Un libro recente della storica Anna Bravo dà conto delle pratiche nonviolente che hanno spinto la violenza fuori dalla storia e hanno cercato una trasformazione senza versamenti di sangue [2]. Studiare la storia dal punto di vista delle pratiche coraggiose e silenziose che trasformano senza opprimere ci può dare quelle energie nuove di cui abbiamo bisogno per affrontare la violenza. Ci fa mettere tutto il peso sulla ricerca di un ordine del mondo che permette la crescita e la vita, comprendendo in questo ordine il disordine felice delle differenze e della pluralità cangiante dell’esistenza, ma opponendosi al caos tenebroso della violenza e dell’oppressione.

Note
[1] Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001.
[2] Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013.