Ior signori

Valerio Gigante
MicroMega” n. 2 del marzo 2014

Al di là di ogni giudizio di merito che si può dare sul pontificato di papa Bergoglio, è indubitabile che il suo
arrivo sul soglio di Pietro abbia portato in pochi mesi risultati straordinari in termini di riconquistata
credibilità da parte della Chiesa cattolica e fiducia dei fedeli nell’istituzione ecclesiastica, precipitata negli
ultimi anni in un abisso senza precedenti nella storia recente, a causa dei ripetuti scandali finanziari, delle
vicende legate alla pedofilia tra il clero, dei controversi rapporti con la politica, l’economia, la finanza.
Secondo i risultati di un sondaggio che ha coinvolto 12 mila cattolici in 12 diversi paesi, realizzato da
Bendixen & Amandi per Univision News, la principale tv in spagnolo d’America, e pubblicato in
Italia dalla Repubblica (9 febbraio 2014), il gradimento su scala internazionale di Jorge Mario Bergoglio, a
quasi un anno dalla sua elezione nel conclave (13 marzo 2013), è altissimo: ben superiore all’80 per cento,
con un dissenso contenuto al di sotto del 5 per cento. In Italia, addirittura per circa il 99 per cento degli
intervistati l’operato di Francesco viene giudicato «eccellente» o «buono». Dati che si aggiungono a
quelli diffusi a gennaio dalla prefettura della Casa pontificia, secondo i quali sono quasi 7 milioni i
fedeli che hanno partecipato agli incontri con papa Francesco a partire dalla sua elezione: udienze generali
(oltre 1 milione e mezzo) e particolari (quasi centomila); celebrazioni liturgiche nella Basilica vaticana e in
piazza San Pietro (oltre 2 milioni), Angelus e Regina Coeli (quasi tre milioni). Numeri, ha chiarito il
Vaticano, che non includono le grandi kermesse, come il viaggio apostolico in Brasile nel mese di luglio
2013 per la celebrazione della Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro e le partecipatissime
celebrazioni tenute dal papa in alcune località italiane, come Lampedusa, Cagliari e Assisi; e nemmeno le
visite pastorali nelle parrocchie della diocesi di Roma. Rispetto a quelle pubblicate dalla prefettura della
Casa pontificia a fine 2005 (Joseph Ratzinger era stato eletto papa il 19 aprile), si tratta di cifre tre volte
superiori. A tutto ciò andrebbe aggiunto l’interesse enorme che questo papa sta suscitando presso i media
laici e cattolici. E il numero crescente di fedeli che è tornato a frequentare le chiese e i sacramenti
(comunioni, battesimi e confessioni sono dati in considerevole aumento un po’ in tutto il mondo, a sentire
le dichiarazioni rilasciate dai vescovi in questi mesi).

La ‘centralità’ dello Ior

Insomma, nel senso comune laico e cattolico — papa Francesco è il papa che sta cambiando il volto della
Chiesa. Anzi, per usare un termine che ormai è abusato da stampa e televisioni, sta attuando una
«rivoluzione» (o, al limite, quando anche ai cronisti più entusiasti di papa Francesco il termine pare
decisamente eccessivo, oltre che un po’ inflazionato, si preferisce — più modestamente — parlare di
«strappo» o «svolta»). Tra tutti gli enormi meriti che gli vengono quasi unanimemente e universalmente
riconosciuti, c’è soprattutto quello di essere il malleus maleficarum di ogni lobby di potere annidata
in Vaticano, lo strenuo difensore della povertà della Chiesa, il grande profeta della trasparenza
finanziaria.
In questo contesto, una particolare importanza sta rivestendo per l’immagine stessa di questo
pontificato la questione dello Ior, l’Istituto delle opere religiose che da decenni rappresenta ormai
per molti la quintessenza della corruzione mondana della Chiesa, il segno concreto del pericoloso
intreccio tra Dio e Mammona, della presenza nella Chiesa di interessi inconfessabili e torbide lotte
di potere. Oggi invece, sui tram e sui luoghi di lavoro, al bar come in parrocchia, quando si parla di Ior
lo si fa per affermare che finalmente il papa sta facendo «pulizia». Per poi concludere con la
sconfortata constatazione, non priva del sottile compiacimento di chi vuol mostrare di saperla lunga, che
se continua così, questo papa «non lo faranno durare tanto».
E quindi evidente che sullo Ior e sulle finanze vaticane si giochi una buona fetta della strategia di
recupero di immagine e di credibilità che questo papa sta giocando presso l’opinione pubblica. Ma al di là
della retorica che accompagna puntualmente ed enfaticamente ogni singolo atto di questo pontificato,
un’analisi attenta proprio della questione dello Ior fa emergere con ancora più nettezza di quanto non
avvenga in altri contesti che l’azione politica e pastorale di Bergoglio si pone in realtà in continuità, seppure
«dialettica», con il pontificato precedente. E non certo in quella contrapposizione forte e radicale con lo
status quo con cui di solito viene descritta. Piuttosto, le scelte di Bergoglio non fanno che registrare
ed accompagnare il travagliato cambio dei rapporti di forza all’interno degli organismi dove si concentra
il potere e la ricchezza del Vaticano. E che negli anni scorsi hanno determinato un conflitto di tale intensità
tra le cordate che rappresentano e che incarnano i diversi interessi in campo, da produrre una fuoriuscita
senza precedenti di documenti, lettere riservate, voci e dossier (il cosiddetto VatiLeaks). E da precipitare la
Chiesa in una delle crisi più profonde dell’ultimo secolo.

Alle origini della ‘riforma’

Se si guardano i processi a partire dal loro inizio, si scopre facilmente che la «riforma» dello Ior è in
realtà cominciata già alla fine del 2010.
È in quel periodo che, a seguito dell’avvio delle indagini della procura di Roma su alcuni movimenti
su un conto corrente Ior acceso presso il Credito artigiano, in Vaticano molti avvertirono l’esigenza di
un cambio di strategia. Anche perché a livello internazionale vi era più di un segnale di preoccupazione:
il Vaticano, paese extracomunitario, non era infatti ancora incluso nella white list dei paesi «certificati» in
materia di trasparenza e antiriciclaggio da parte di Moneyval, la commissione di esperti sulla
valutazione delle misure di antiriciclaggio monetario e di terrorismo finanziario del Consiglio d’Europa
che da anni tiene lo Ior sotto osservazione e che dovrebbe dare il via libera definitivo all’ingresso del
Vaticano nella white list nel 2015, quando tutti i punti critici indicati dall’organismo europeo saranno
stati risolti. Senza una certificazione internazionale lo Ior corre il rischio di compromettere seriamente la
propria reale capacità di operare con gli istituti di credito nazionali e comunitari. E ci sono state in
questi anni importanti avvisaglie di questo scenario.
Una prima, importante, fu l’uscita dal consiglio di sovrintendenza dello Ior (il board dell’Istituto,
nominato da una commissione di cardinali e responsabile dell’amministrazione e della gestione, della
vigilanza e supervisione delle sue attività sul piano finanziario, economico e operativo) del
consigliere Giovanni De Censi, avvenuta alla fine del 2010 e senza apparenti ragioni. De Censi,
presidente del Credito valtellinese (che ha incorporato il Credito artigiano) guidava una banca che
Oltretevere era considerata tradizionalmente amica. Presso questo istituto lo Ior possedeva anche
diversi conti correnti, su cui operava in maniera consistente. Ma proprio da una segnalazione del
Credito artigiano sulle operazioni fatte su uno di questi conti, il n. 49557, partì l’informativa della
Banca d’Italia da cui aveva preso avvio l’indagine giudiziaria della procura di Roma. Già però dall’aprile
2009 la Banca d’Italia aveva segnalato alle autorità la criticità di un conto corrente aperto dallo Ior presso
la filiale 204 dell’ex Banca di Roma, in via della Conciliazione, a meno di 200 metri da piazza San
Pietro, dove in due anni erano transitati quasi 200 milioni di euro. Il 28 gennaio 2010 la Banca d’Italia
comunicava al Credito valtellinese che, poiché lo Stato della Città del Vaticano era incluso nella lista dei
paesi extracomunitari, nei rapporti con lo Ior si dovevano applicare gli obblighi rafforzati – e non
semplificati – di adeguata verifica della clientela previsti dal decreto 231, il dispositivo che dal 2007 ha
recepito nell’ordinamento italiano la direttiva europea 60 del 2005 introducendo nelle aziende i
controlli interni come strumento di prevenzione dei reati e che prevede sanzioni severe (anche la chiusura
dell’attività o il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione) per le aziende responsabili di non
avere impedito ai propri dipendenti di commettere reati nell’interesse della società. In sostanza, il Credito
artigiano avrebbe dovuto acquisire l’impegno formale dello Ior a identificare i clienti, ad assolvere gli
obblighi di adeguata verifica, a fornire un flusso informativo periodico che consentisse di associare a
precisi clienti la movimentazione di assegni, l’esecuzione di bonifici, le operazioni in contanti. In una nota
del 4 marzo 2010, la Banca d’Italia segnalava che erano «emerse difficoltà» nell’applicazione di quegli
obblighi e aggiungeva che, in caso di mancato rispetto della normativa antiricilaggio, le banche italiane
dovevano astenersi dall’esecuzione di operazioni e segnalarle come «sospette». Il Credito artigiano si
attivò per far rispettare il decreto allo Ior, ma senza risultati. Perciò, il 15 aprile 2010 comunicò a Banca
d’Italia e Ior di aver bloccato l’operatività del conto n. 49557. Ciononostante, il 6 settembre 2010 la «banca»
vaticana chiese di poter eseguire due bonifici di 3 e 23 milioni di euro a favore di conti su Banca del
Fucino e JpMorgan di Francoforte dal proprio conto presso il Credito artigiano, senza specificare le
informazioni richieste. Lo Ior si aspettava probabilmente che il Credito artigiano di fronte a questa
forzatura cedesse. Invece la banca scrisse all’Uif (l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia
incaricata di ricevere e approfondire segnalazioni di operazioni sospette e altre informazioni inerenti il
riciclaggio) di non essere in grado di adempiere agli obblighi previsti dal decreto 231 e che per questo
sospendeva le operazioni richieste dallo Ior. Il 15 settembre l’Uif congelò i bonifici e il 21 il giudice ne
ordinò il sequestro preventivo per violazione della normativa antiriclaggio.
Il denaro sarebbe transitato – secondo l’ipotesi della procura – dallo Ior alla JpMorgan Frankfurt (20
milioni) e alla Banca del Fucino (3 milioni). L’allora presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e l’allora
direttore generale Paolo Cipriani furono così iscritti nel registro degli indagati cori l’ipotesi di alcune
omissioni in relazione alla normativa antiriciclaggio.
Nel frattempo, probabilmente in seguito alla pressante attenzione sullo Ior da parte di Bankitalia e
della procura di Roma, il 15 febbraio 2012 JpMorgan aveva deciso di chiudere il proprio conto presso
lo Ior. Un fatto piuttosto raro, visti gli enormi vantaggi che un conto del genere garantisce.
I legami tra Ior e JpMorgan erano molto forti. Secondo la procura di Roma, attraverso una serie di
bonifici per decine e decine di milioni di euro i soldi del Vaticano avevano progressivamente lasciato le
banche italiane, come l’Unicredit (evidentemente considerate ormai poco «sicure» perché sottoposte alla
continua vigilanza della Banca d’Italia), per dirigersi proprio verso la filiale di Francoforte della
JpMorgan. Ha raccontato Marco Lillo sul Fatto Quotidiano (21 marzo 2012) che lo Ior, per effettuare
i suoi bonifici milionari, si serviva di un conto aperto presso l’unico sportello della banca americana
JpMorgan in Italia, a Milano: il conto 1365. «In forza di una clausola contrattuale», scrive Lillo, «il saldo
di fine giornata deve essere sempre riportato a zero e il suo contenuto refluisce sul conto Ior a Francoforte.
Di fatto una sorta di “cavallo di Troia” attraverso il quale lo Ior operava in Italia, con movimenti che
nell’arco di un anno e mezzo avevano superato il miliardo e mezzo. Nell’ottobre 2011, la procura di
Roma chiede all’Uif di approfondire. Gli ispettori di Bankitalia chiesero quindi a JpMorgan
informazioni sui reali intestatari dei soldi movimentati dallo Ior. JpMorgan girò le richieste allo Ior
senza risultato. E allora, il 15 febbraio, per evitare guai, JpMorgan comunicò allo Ior la chiusura definitiva
del conto a partire dal 30 marzo 2012.

‘Strisciate’ a vuoto

Un altro caso clamoroso è quello avvenuto a gennaio 2013, quando la Banca d’Italia ordinò lo stop ai
pagamenti tramite bancomat e carte di credito all’interno delle mura vaticane a Deutsche Bank Italia, che
aveva la gestione dei terminali Pos, cioè le macchinette dove «strisciare» le carte, poiché la Banca tedesca
era priva dell’autorizzazione necessaria per operare in Stati che agiscono fuori dalle normative
dell’Unione europea, come appunto era il Vaticano. La vigilanza della Banca d’Italia aveva già respinto
la richiesta di «sanatoria» che era stata avanzata da Deutsche Bank Italia per i Pos che essa aveva installati
presso il Vaticano. Il caso andò su tutti i giornali e fece grande clamore, arrecando danno ai tanti turisti
e visitatori dall’Italia e dall’estero e provocando un enorme danno economico e di immagine al Vaticano.
La vicenda fu formalmente risolta in febbraio, con l’avvicendamento tra Deutsche Bank e la svizzera
Aduno. Ma solo in parte perché se i Pos furono riattivati, servì diverso tempo ancora prima che lo
fossero i pagamenti online. Con gravi danni per l’acquisto di francobolli e monete (su cui il business
vaticano è da sempre assai florido), ma anche dei biglietti di musei, visite guidate, libri d’arte eccetera.
E ancora la recente richiesta di custodia cautelare in carcere per monsignor Nunzio Scarano, l’ex
contabile dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), già agli arresti
domiciliari, dal 28 giugno 2013, per un’inchiesta che ruota attorno al tentativo di Scarano di far rientrare
dalla Svizzera, a bordo di un jet privato, 20 milioni di euro in contanti di proprietà di alcuni amici del
prelato. L’attuale inchiesta avrebbe invece accertato false donazioni per 6 milioni di euro provenienti
da società offshore, transitate su conti aperti all’agenzia Unicredit di via della Conciliazione e allo Ior,
intestati al religioso. Con il denaro, Scarano avrebbe anche proceduto a investimenti societari e
all’acquisto di quadri d’autore, restituendo parte delle ingenti somme ai titolari, una volta che il denaro
fosse stato «ripulito».

Trasparenza pelosa

Insomma, è in questo contesto (e non certo per ragioni etiche, invocabili oggi come potevano
esserlo 20-30 o 40 anni fa) che in Vaticano ci si è orientati per una decisa sterzata a favore della
trasparenza finanziaria. Una prima normativa antiriciclaggio fu emanata nel dicembre 2010 e doveva entrare
in vigore nell’aprile 2011. Si istituiva – sul modello dell’Uif della Banca d’Italia – l’Aif, un’agenzia per la
vigilanza e l’informazione finanziaria per la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento
del terrorismo. Lo Ior, sottoposto al controllo dell’Aif; avrebbe dovuto collaborare con questo nuovo
organismo al fine di fornire tutte le informazioni richieste dalla giustizia italiana, anche sui fatti precedenti
l’aprile del 2011. In questo modo però, le autorità giudiziarie e bancarie italiane sarebbero state in grado di
mettere il naso (tramite l’Aif) nei segreti dello Ior. Segreti forse troppo imbarazzanti. E infatti c’era chi in
Vaticano sosteneva che l’Aif non dovesse avere poteri di ispezione sui movimenti bancari. O almeno non su
quelli precedenti l’aprile del 2011. La ragione di fondo di questa opposizione risiedeva nel pericolo di
una perdita di autonomia della Città del Vaticano come Stato sovrano, con l’avvento di organismi di
garanzia e norme tali da farlo passare di fatto sotto il controllo dei poteri bancari e giudiziari italiani ed
europei. Inoltre, la segretezza sui titolari dei conti correnti accesi allo Ior e sui movimenti bancari,
garantiti dall’extraterritorialità vaticana e dalle norme concordatarie che hanno sempre messo al riparo le
finanze vaticane da controlli o ingerenze esterne, hanno fatto molto comodo a molti. Oltreoceano e
non, lo Ior è stato utilizzato come canale di transito per capitali con destinazioni che dovevano restare
segrete, o per operazioni illecite di ripulitura e riciclaggio. Per la «banca» vaticana (in realtà la funzione
di banca è svolta formalmente da un altro ente vaticano, l’Apsa, Amministrazione del patrimonio della
Sede apostolica) sono transitati i fondi destinati a sostenere la guerriglia controrivoluzionaria in America
Latina o i regimi dittatoriali in Centro e Sudamerica; o i soldi destinati a finanziare Solidarnosc e altri
movimenti di opposizione al socialismo reale nell’Europa dell’Est; o quelli (lo ha raccontato
puntualmente il libro di Gianluigi Nuzzi Vaticano spa) serviti a pagare la maxitangente Enimont.
Così, il 25 gennaio 2012 un decreto del presidente del Governatorato vaticano (l’organismo che
esercita il potere esecutivo nello Stato della Città del Vaticano), l’arcivescovo Bertello (vicino
all’allora segretario di Stato Bertone), privava l’Aif dei poteri di ispezione, rimessi a successivi
regolamenti da emanare. Con la conseguenza che le indagini bancarie e giudiziarie dello Stato italiano
si arenarono. Scoppiò all’epoca tra i prelati di curia e le lobby economico-finanziarie vaticane una crisi
senza precedenti, un conflitto insanabile e violentissimo, che indusse alla fine Benedetto XVI al
clamoroso gesto delle dimissioni. Sotto Ratzinger, il segretario di Stato Bertone aveva scelto di schierarsi
con i «conservatori», che avevano trovato il loro punto di forza nella lobby dei Cavalieri di Colombo,
una potente organizzazione cattolica statunitense vicina ai repubblicani (ne hanno fatto parte il fratello di
Georg W. Bush e Rick Santorum). I Cavalieri gestiscono un immenso patrimonio assicurativo e negli
ultimi anni hanno foraggiato i bilanci dimagriti del Vaticano. Dall’altra parte gli «innovatori», cioè quei
laici ed ecclesiastici che ritengono inevitabile l’adeguamento alla cornice internazionale. Tra questi i
cardinali Tauran e Nicora (che dell’Aif era divenuto il presidente), entrambi membri della commissione
cardinalizia che vigila sul board di laici che governa lo Ior (Nicora ha lasciato il suo posto all’inizio del
2013, Tauran vi è stato recentemente riconfermato da papa Francesco), ma anche potenti lobby come
l’Opus Dei e i Cavalieri di Malta, che nel febbraio 2013 sono riusciti a far eleggere alla guida dello Ior il
leader della loro organizzazione in Germania, l’armatore tedesco Ernst von Fryberg, nove mesi dopo che
l’opusdeista Ettore Gotti Tedeschi era stato defenestrato nelle fasi più intense dello scontro (tra l’altro
temporaneamente sostituito dal capo supremo dei Cavalieri di Colombo, il banchiere Carl Anderson, quasi a
segnare i passaggi delle alterne fortune delle due correnti che si contendono l’egemonia delle finanze
vaticane).
L’elezione di Francesco ha segnato una decisa vittoria dell’ala anticuriale della gerarchia ecclesiastica,
saldatasi a quelle lobby più favorevoli alla trasparenza, funzionale a garantire allo Ior operatività sulle piazze
italiane ed europee, ma anche ad arginare il discredito in cui negli ultimi anni la Chiesa cattolica è
precipitata, con conseguenze pesantissime in termini di consenso, ma soprattutto in termini economici,
come dimostra il calo delle offerte e dei gettiti che provengono da quei paesi dove i credenti finanziano
direttamente le loro Chiese.
Il motu proprio di papa Francesco dell’8 agosto 2013, recepito in decreto del governatorato e
successivamente convertito in legge, la ormai nota «n. XVIII», ha così non solo reintegrato l’Aif nelle sue
prerogative originarie, ma le ha estese alla funzione strategica di vigilanza «prudenziale» sugli enti che
svolgono attività finanziaria, facendone il guardiano della galassia economica d’Oltretevere. con tanto
di potestà regolamentare. Poi, a novembre 2013, il papa ha anche emanato uno statuto dell’Aif.
Che oggi le tensioni siano tutt’altro che sedate lo di mostra la rivelazione fatta dal Messaggero il 18
febbraio scorso: la pubblicazione. cioè, di una lettera all’attuale segretario di Stato vaticano Parolin, datata
16 gennaio 2014, firmata dall’intero consiglio direttivo dell’Aif, in cui si critica duramente l’operato del
direttore, René Brülhart e si denuncia «il perdurare della situazione di opacità informativa». C’è da dire
che Brülhart fu scelto da Bertone. E che fu lui proprio lui, all’inizio del 2012, quando ancora non era
diventato direttore dell’Aif (lo divenne in settembre), ma «solo» consulente della segreteria di Stato
vaticana, a emendare le norme emanate da Ratzinger alla fine del 2010, per depotenziare struttura e funzioni
dell’Aif. Mettendosi così in rotta di collisione con i «riformatori»; in particolare con il cardinale
Nicora, Gotti Tedeschi ed il thinkthank della Banca d’Italia che aveva aiutato il Vaticano a mettere su la
struttura dell’Aif sul modello dell’Uif di via Nazionale. Dalla Banca d’Italia, peraltro, provengono due
degli attuali membri del direttivo dell’Aif che hanno firmato la missiva contro Brülhart, Marcello
Condemi e Francesco De Pasquale.

Nomine da manuale. Cencelli

Qualcuno potrebbe però eccepire che questo papa ha comunque nominato una commissione per
mettere mano alla riforma dello Ior. Che vuole fare sul serio. In realtà, oltre al fatto che si tratta di
una commissione referente, essa non fa altro che rispecchiare proprio quei conflitti intestini all’interno
delle lobby economico-finanziarie interne alla Chiesa che dovrebbero essere l’oggetto della «riforma»:
vede infatti al suo interno la componente più vicina al capitale statunitense, rappresentata da figure
come monsignor Peter Brian Wells e dalla professoressa Mary Ann Glendon, che sostengono i
Cavalieri di Colombo, contrapposta a quella del cardinale Jean-Louis Tauran, che è invece vicino ai
Cavalieri di Malta, e del coordinatore della commissione (colui che fisicamente ha il compito di recarsi
allo Ior per l’acquisizione di documenti), il vescovo spagnolo Juan Ignacio Arrieta Ochoa de
Chinchetru, membro dell’Opus Dei. A presiederla il cardinal Raffaele Farina, salesiano, già vicino a
Bertone, dato oggi vicino ai «riformatori».
Stesso dicasi per i nuovi componenti della commissione cardinalizia dello Ior, che ha tra i suoi
compiti quello di nominare i membri del consiglio di sovrintendenza dell’Istituto, l’equivalente del
consiglio di amministrazione. Nomine attese già da tempo, nonostante l’intera commissione fosse stata
rinnovata solo il 18 febbraio del 2013. Si trattava però di una designazione avvenuta dopo l’annuncio
delle dimissioni di Benedetto XVI, in cui in molli videro il tentativo del gruppo di potere legato a
Bertone di mantenere serrate le file. Difficile quindi che il nuovo papa accettasse di mantenere
inalterata la composizione dell’organismo, specie dopo avere a più riprese prefigurato una riforma
complessiva dello Ior. L’unico cardinale confermato in commissione è Jean-Luis Tauran (che peraltro
fa parte anche della commissione referente sulla cosiddetta banca vaticana). Ad uscire sono invece il
cardinal Tarcisio Bertone (che all’Opus aveva voltato le spalle dopo il clamoroso caso della
defenestrazione del presidente opusdeista dello Ior, Gotti Tedeschi), il cardinal Domenico Calcagno
(presidente dell’Apsa, già vicino a Bertone quando egli era segretario di Stato vaticano e comunque
indirettamente toccato dall’afferire Scarano, perché proprio all’Apsa il prelato lavorava come contabile),
i cardinali Odilo Pedro Scherer, brasiliano, arcivescovo di San Paolo, Telesphore Placidus Toppo,
indiano, arcivescovo di Ranchi, entrambi vicini al «partito americano». Dal 15 gennaio 2014 la
commissione ha cambiato i rapporti di forza interni e oggi, oltre che da Tauran, risulta composta dai
cardinali Christoph Schönborn, austriaco, arcivescovo di Vienna, tradizionalmente considerato amico
dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer, da Thomas Christopher Collins, canadese, arcivescovo di Toronto,
cavaliere di Colombo, e infine da due prelati ex diplomatici, entrambi assai vicini al nuovo papa: Santos
Abril y Castellò, spagnolo, arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore e il neosegretario di Stato,
monsignor Pietro Parolin. Stessa musica nel consiglio di sovrintendenza dello Ior, composto da Ernst
von Freyberg (presidente, Cavaliere di Malta), Carl A. Anderson (leader dei Cavalieri di Colombo),
Manuel Solo Serrano (Opus Dei, Ronaldo Hermann Schmitz (ex ad di Deutsche Bank, banca in relazioni
di affari molto intense col Vaticano) e Antonio Maria Marocco (Cassa di Risparmio di Torino, vicino alla
corrente dei «conservatori» e arrivato allo Ior grazie alla vicinanza al partito «bertoniano»).

Un nome, un programma

Ma che la vocazione dell’attuale papa non sia quella del rivoluzionario, lo rivela – paradossalmente –
lo stesso nome che ha scelto. Gli studi compiuti negli ultimi trent’anni dallo storico della Chiesa Giovanni
Miccoli hanno dimostrato come il movimento inaugurato da Francesco venne rapidamente integrato
dalla Chiesa, che aveva capito come per contrastare il fiorire di movimenti di riforma religiosa che si
stavano diffondendo ormai da tempo – valdesi, arnaldisti, catari, gioachimiti, patarini (che chiedevano
l’azzeramento della gerarchia, la sua sostituzione con un nuovo modello di Chiesa, in alcuni casi addirittura
invocavano la nullità dei sacramenti impartiti da ecclesiastici corrotti) – fosse necessario incoraggiare la
predicazione popolare di quei gruppi religiosi che pur manifestando idee anche radicali di riforma e
povertà evangelica, intendevano rimanere fedeli al papa e alla tradizione della Chiesa. Contro gli altri (come i
catari, contro cui fu indetta addirittura una crociata, durata dal 1209 al 1229), che minavano le
fondamenta stesse del potere della Chiesa, era invece inevitabile la condanna per eresia e la conseguente
sanguinosa repressione per chi rifiutava obbedienza e sottomissione. L’intuizione di papa Onorio III (e
del suo predecessore, Innocenzo III, che già aveva incoraggiato Francesco a proseguire nella sua
opera) fu ripresa dal successivo Concilio lateranense IV che legittimò gli Ordini mendicanti e diede
impulso alla predicazione popolare sotto il controllo della gerarchia. Così, domenicani e francescani,
al di là delle stesse intenzioni di Francesco e di tanti suoi seguaci che pure si batterono dentro il loro ordine
affinché prevalesse una lettura rigorosa e «integrale» della Regola, furono l’utile strumento che la Chiesa
esibì di fronte alle classi sociali più umili e di fronte a quelli che si scandalizzavano per il potere, la
mondanità, la corruzione della gerarchia; il nome e la tradizione di Francesco e del francescanesimo ha
spesso rappresentato l’utile «foglia di fico» con cui coprire e abbellire un sistema che si è perpetuato sempre
uguale a se stesso. Ma che è capace di integrare strumentalmente al suo interno le istanze più accettabili che
provengono dalla base, specie quando è in pericoloso fermento. A condizione, ovviamente, che esse siano
compatibili con le esigenze del sistema. Tra queste, oggi, c’è anche lo Ior.