La secolarizzazione c’è ma non si vede (in tv)

Claudia Lopedote
www.confronti.net

Anche quest’anno sono arrivati i dati del Rapporto, il IX, sulla secolarizzazione in Italia, a cura della Fondazione Critica liberale e di Cgil nazionale Nuovi diritti. Un Osservatorio che, in nove anni di attività, è giunto a coprire ventuno anni di analisi (1991-2011). Contestualmente, la Fondazione Critica liberale ha pubblicato, grazie al contributo della Tavola valdese, la terza edizione della rilevazione sui palinsesti della televisione italiana dedicati alle confessioni religiose e la quarta incentrata sui telegiornali. I dati elaborati sono ricavati da indicatori costruiti e resi disponibili da produttori di statistiche ufficiali: Istat, Cei, Annuario statistico della Chiesa cattolica, Ministero della Salute etc. Con il grande vantaggio di disporre di dati riferiti all’intera popolazione oggetto di rilevazione per ciascuna dimensione di analisi.

Il Rapporto organizza gli indicatori e i relativi valori – osservabili e misurabili – su due piani distinti ma interrelati: i comportamenti e le scelte individuali degli italiani rispetto ad ambiti di vita privata (riti di passaggio, partecipazione a liturgie, scuole religiose etc.) che rivelano opinioni, atteggiamenti, credenze riferite alla dimensione religiosa; governance e ruolo dell’istituzione Chiesa nella società (scuole cattoliche, servizi sul territorio per target di popolazione etc.), quindi vitalità e capacità di esito dimostrate. Non sono indagati gli aspetti non direttamente rilevabili che richiederebbero un’analisi di tipo qualitativo attraverso somministrazione di questionari e interviste in profondità.

Veniamo adesso alle evidenze generali del Rapporto e a specifici elementi che ne emergono. L’indice sintetico di secolarizzazione restituisce un’immagine immediata del cambiamento in corso, a partire dall’andamento storico dei 4 macroindicatori di gruppo (istruzione; organizzazione ecclesiastica; pratica religiosa; adesione alle indicazioni della Chiesa cattolica), con una tendenza omogenea e differenti tempi e ampiezze di variazione.

Tra tutti, sono i riti di passaggio – liturgie che tradizionalmente costituiscono momenti importanti anche per i non credenti, sul piano simbolico ed identitario – a registrare una tendenza in netto calo, con un’accelerazione a fine anni Novanta.

Leggiamo -19% tra i battezzati sotto l’anno di età dal 1991 al 2009, e contestualmente un aumento di casi di posticipazione del battesimo anche oltre il settimo anno di vita, esattamente il doppio nel corso di appena diciannove anni. Tendenza decrescente evidente anche per i matrimoni concordatari sul totale (che diminuisce in termini assoluti, mentre raddoppiano le libere unioni), a vantaggio dei matrimoni civili, che nel 2011 superano il 40% sul totale dei nuovi matrimoni.

Il Vaticano corre ai ripari

La performance dell’insieme degli indicatori relativi a matrimoni, divorzi, figli naturali e legittimi tratteggia un modello di famiglia italiana distante dalle indicazioni e dai precetti della Chiesa cattolica. Con una contestuale massiccia azione di intervento della Chiesa stessa negli ambiti più direttamente collegati a quei dati, attraverso il presidio territoriale e la presenza istituzionale in luoghi quali le scuole religiose (è in calo il numero di studenti che si avvalgono dell’ora di religione, ma non quello di chi sceglie le scuole cattoliche), i consultori familiari (da 467 nel 1991 a 529 nel 2011), i centri di difesa della vita e della famiglia dove si registra +600% circa dal 1991 al 2011, anno in cui si contano 2.949 centri. Segno che la Chiesa si è accorta della tendenza in atto (il cardinale Kasper al Concistoro straordinario sulla famiglia dello scorso febbraio: «Tra la dottrina della Chiesa e le convinzioni vissute da molti cristiani si è aperto un abisso»).

Il dato che pur essendo in calo è in verità drammatico – oggetto di dibattito in questi giorni, a seguito della provvida condanna espressa il 9 marzo dal Consiglio d’Europa nei confronti dell’Italia, per violazione del diritto alla salute delle donne e del principio di non discriminazione – riguarda l’obiezione di coscienza del personale medico e paramedico. Dire che nel 2011 si è registrato un lieve calo costituisce una falsa consolazione, poiché tra il personale medico, i ginecologi in particolare, si è passati dal 60,4% di obiettori nel 1992 al 71,5% nel 2008, e al 69,3% nel 2011. Con casi estremi – di inesigibilità di fatto di un diritto – localizzati in aree geografiche specifiche del paese, con soglie superiori all’80%. Questo indicatore, come anche altri, è assai complesso da analizzare, in quanto l’input della Chiesa cattolica – innegabile – va ad agire su un insieme di motivazioni soggettive legate ai percorsi di carriera, a mero opportunismo di riserve e tutele create dalla legge in contraddizione con il suo stesso sistema di principi, discriminazioni di genere, e via dicendo. Va pertanto usata cautela nel valutare la consistenza di tale dato con la pratica religiosa. Appare invece poco utile e valida – euristicamente e funzionalmente – la scelta di quest’ultima edizione del Rapporto di individuare una Regione per macroarea territoriale (Nord, Centro e Sud) quale orizzonte di comparazione di tendenza geografica. Non soltanto per la scelta delle tre Regioni (Piemonte, Toscana e Sicilia) che già presenta evidenti problemi, bensì per l’impossibilità tout court di far valere tale metodologia rispetto alla rappresentatività territoriale ampia considerata, senza avere quantomeno provato a motivare la manipolazione ricorrendo a parametri e performance macro e micro di sistema locale e nazionale (popolazione, anagrafe, tendenza storica, redditi e trend demografici).

Il processo di secolarizzazione è quindi in atto, e ad esso concorrono sia i mutamenti della demografia italiana, sia i cambiamenti negli stili di vita dei credenti. Cambia la pratica religiosa, non le credenze, sulle quali non è possibile fare più che qualche inferenza, mancando un approfondimento etnografico di analisi. Tale specificazione è necessaria perché il processo di secolarizzazione sociologicamente inteso e misurabile in termini quantitativi non è sovrapponibile all’ipotesi di progressivo dissolvimento della religiosità nella vita degli individui. Questo nesso, con la previsione della scomparsa delle religioni dal saeculum, è parte dell’ipotesi forte della secolarizzazione, che legge in questi dati un trend progressivo ed irreversibile di modernizzazione delle società in marcia verso l’ateismo, con diverse spiegazioni (si veda Niegel Barber sul benessere economico delle nazioni e la sicurezza esistenziale in sostituzione alla consolazione religiosa).

Quella tv quasi al 100% cattolica

Tuttavia – e veniamo al secondo ambito di ricerca della Fondazione Critica liberale, i dossier sulla programmazione delle sette reti televisive generaliste nazionali e dei telegiornali in particolare – la secolarizzazione della società nel suo complesso e la secolarizzazione di alcune sue istituzioni paiono essere due oggetti distinti.

Le due ricerche sulla televisione considerano tempi, temi e soggetti – confessionali e non – all’interno della programmazione a carattere religioso e altri generi (intrattenimento, informazione, fiction, etc.). Per calcolare la presenza delle varie confessioni religiose all’interno dei palinsesti televisivi, si è considerato – come da metodologia standard usata, ad esempio, dalle autorità garanti per svolgere l’attività di monitoraggio e controllo in materia di pluralismo – il tempo d’antenna, ovvero la somma del tempo di notizia (dedicato dalla rete ad un soggetto) e del tempo di parola (in cui il soggetto prende direttamente la parola). I due rapporti sono stimolanti da leggere nel dettaglio, con polarizzazioni conosciute al senso comune: Porta a porta ed Unomattina da una parte, quasi trasmissioni distaccate della Santa Sede in Rai (con rispettivamente 203 e 43 presenze di esponenti cattolici, e ben due spazi fissi ad Unomattina. In termini percentuali, il 97,5% e il 100% di presenza cattolica sul totale dei soggetti confessionali); Ballarò e Report (per restare alla tv pubblica) dall’altra, dove il tempo di parola di figure confessionali è zero (settembre 2012-agosto 2014). Altri esempi, meno ovvi: L’Infedele su La7 ha ospitato 5 esponenti cattolici a fronte di 0 altri, quindi sempre il 100%. E così anche Zeta, Telecamere e Omnibus. Servizio pubblico riporta il 95,7% di presenza cattolica, grazie a un rappresentante della comunità ebraica vs 22 cattolici. E gli islamici? Soltanto 2, ad Unomattina (vs 198 cattolici).

Altro dato di interesse è poi la varietà di trasmissioni, per genere e target, dedicate al cattolicesimo, con una pervasività totale rispetto ad ogni altra confessione, trattata invece, quando presente, nell’ambito ristretto di vere e proprie riserve di programmazione (documentari e cronaca). Prendendo un genere con maggiore capacità di contatto, ampio pubblico potenziale di riferimento, 13 film su 15 sono a tema cattolico e cristiano-giudaico, un buddhista e un protestante.

Nell’ambito dell’informazione televisiva giornalistica, le percentuali dei tempi di notizia dei soggetti confessionali sono piuttosto stabili nei cinque anni considerati (2009-2013), con Vaticano e Chiesa cattolica saldi al di sopra del 99%. Stessa percentuale, ma in aumento rispetto agli anni precedenti anche di 5 punti tra il 2012 e il 2013, si ha per i tempi di parola dei soggetti confessionali cattolici nei tg: con il 100% totalizzato in sette dei dieci considerati nel 2013. Sole «eccezioni»: Tg1 con il 99,7%, Rainews24 con il 99,3%, SkyTg24 con il 98,8%.

Un mezzo di propaganda sempre meno efficace

Incrociare le tendenze risultanti dai due rapporti è un’operazione utile e problematica. Poiché dal combinato disposto emerge un dato che andrebbe ulteriormente approfondito per leggere i cambiamenti della società italiana. La televisione generalista, medium egemone in Italia per numero di utenti e ore di consumo (la cosiddetta dieta mediale), nonché fonte principale di informazione ed intrattenimento (secondo il Censis, 8 italiani su 10 si informano esclusivamente dai tg), assume i contorni di un mezzo di propaganda cattolica.

Posto che la popolazione cattolica costituisce la maggioranza nazionale, e che quindi siamo di fronte a mutamenti significativi in termini di scelte e pratiche religiose di credenti, viene da chiedersi se davvero la tv non abbia ormai esaurito la sua funzione egemone. Facendo quasi propendere per una riscoperta della teoria degli effetti minimi, secondo cui la tv non è in grado di determinare credenze e comportamenti degli spettatori se non in minima parte, in concorrenza con altre fonti ed agenzie sociali. Nei fatti, possiamo dire che è cambiato il suo ruolo sociale. All’interno del più ampio fenomeno di caduta dei livelli di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni sociali, politiche ed economiche. Tra tutte, la VII indagine Demos-Coop dice che solo due persone su 10 considerano la tv affidabile. Un cambiamento colto da Alberto Bal­dazzi in Almanacco dei Tg 2012-2013, che racconta di una tv sempre più importante (ricerca Mediametrie: esposizione media alla tv nel primo seme­stre 2013 pari a 4h e 34 minuti) e sempre meno influente, all’interno di un contesto cross-mediale che muta e sfida i significati.

Il privato si secolarizza, lo spazio pubblico no

Sul piano dei contenuti della cittadinanza, le analisi sulla tv aprono un capitolo gigantesco in materia di agenda sociale liberale. Siamo di fronte ad uno spazio pubblico ben poco secolarizzato nella sua voce più sentita. Forse, dicono queste ricerche, non così ascoltata. La religione nelle società moderne liberali resta fonte di significato per gli individui, e segue un processo di progressiva privatizzazione, rinvenibile nelle scelte personali senza avanzare pretese di determinare la vita pubblica oltre certi limiti. In Italia, le vite private si secolarizzano e le istituzioni sociali no. Lo stato della televisione italiana mostra una resistenza delle istituzioni che sembrerebbe contraddire radicalmente il fenomeno della secolarizzazione e lo svolgimento della storia, con una riproposizione quasi atemporale di una sopravvivenza affaticata della Chiesa cattolica nella società. Una sorta di propaganda teologica senza (più tanta) religione.

È vero anche che, guardando a paesi con differenti tradizioni e culture secolari, non è univoco l’ambito di influenza delle religioni sul dibattito pubblico. Si pensi alle differenze sostanziali con cui gli spazi di dibattito culturale trattano il tema religioso: gli americani sono senza dubbio i più estranei e ritrosi ad affrontare persino la letteratura da un punto di vista esplicitamente religioso e dottrinario. Non così in Gran Bretagna e in Germania, che pure hanno società ben più secolarizzate.

Nel dibattito su hard e soft secularism, l’Italia può aggiungere una terza categoria, hidden secularism. La secolarizzazione non sembra modificare il discorso pubblico veicolato dal principale dei mass media italiani. Se il quesito sul nesso tra secolarizzazione e religiosità può attendere, quello sulla democrazia liberale no.