Francesco, il primo papa osannato dall’opinione laica

Sandro Magister
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Papa Francesco ha doppiato la boa del suo primo anno sospinto da una immensa popolarità. Ma in questo non c’è niente di nuovo. Anche Benedetto XVI nel 2008 aveva raggiunto identici livelli di consenso. E Giovanni Paolo II era stato ancor più popolare, e per molti anni di seguito.

La novità è un’altra. Con Francesco, per la prima volta da tempo immemorabile, un papa è osannato non solo dai suoi, ma quasi più ancora da quelli di fuori, dall’opinione pubblica laica, dai media secolari, dai governi e dalle organizzazioni internazionali.

Persino quel rapporto di una commissione dell’ONU che ai primi di febbraio ha attaccato ferocemente la Chiesa lo ha risparmiato, inchinandosi a quel “chi sono io per giudicare?” ormai assunto universalmente come il motto emblematico delle “aperture” di questo pontificato.

I suoi due ultimi predecessori no. All’apogeo della popolarità avevano a loro favore il popolo cristiano. Ma gli altri li avevano contro.

Anzi. Tanto più il “secolo” avversava il papa, tanto più il papa giganteggiava. La rivista “Time” dedicò a Giovanni Paolo II la copertina di uomo dell’anno proprio nel 1994, l’anno della battaglia campale da lui combattuta, quasi da solo contro il resto del mondo, amministrazione americana in testa, prima, durante e dopo la conferenza indetta dall’ONU al Cairo per il controllo delle nascite e quindi, a detta del papa, per “la morte sistematica dei non nati”.

Karol Wojtyla aveva fatto del 1994 l’anno della famiglia perché la vedeva minacciata e aggredita, quando invece nell’imminente nuovo millennio, nella visione del papa, sarebbe dovuta tornare a risplendere come all’inizio della creazione, maschio e femmina, crescete e moltiplicatevi, e “non sciolga l’uomo ciò che Dio ha unito”.

Ancora in quel 1994 Giovanni Paolo II scrisse ai vescovi una lettera per ribadire il no alla comunione dei divorziati risposati. E un altro no senza appello disse alle donne sacerdote. E l’anno prima dedicò un’enciclica, la “Veritatis splendor”, ai fondamenti naturali e soprannaturali delle scelte morali, contro l’arbitrio della coscienza individuale. E l’anno dopo pubblicò un’altra enciclica, la “Evangelium vitae”, terribile contro l’aborto e l’eutanasia.

Non solo. Anche sullo scacchiere della politica internazionale papa Wojtyla aveva contro gran parte del mondo. Tra il 1990 e il 1991 avversò con tutte le sue forze la prima guerra del Golfo, patrocinata dall’ONU, mentre tra il 1992 e il 1993 invocò senza posa un intervento militare “umanitario” nei Balcani, solo tardivamente ascoltato. Eppure quelli furono proprio gli anni della massima popolarità di Giovanni Paolo II, il decennio che va dal 1987 al 1996.

Ne sono prova le periodiche indagini del Pew Research Center di Washington tra i cattolici degli Stati Uniti, che sono un ottimo test anche per la consistente presenza tra loro di una corrente “liberal”.

Più Giovanni Paolo II era squalificato dall’opinione laica come oscurantista e arretrato, più la sua popolarità tra i cattolici era alta. In quel decennio si attestò stabilmente sul 93 per cento di voti a favore, una decina di punti più su di papa Francesco oggi e di Benedetto XVI nel 2008.

Anche la parabola di papa Joseph Ratzinger è esemplare. Appena eletto, nel 2005, la sua popolarità tra i cattolici era bassa, sul 67 per cento, con solo il 17 per cento che si dichiarava molto favorevole. Ma passo passo egli si conquistò un crescente consenso, nonostante il rigore con cui criticava le sfide della modernità.

L’opinione laica gli era tutta contro, persino nel cortile di casa, fino al punto da sbarrargli l’accesso all’università statale di Roma per un discorso. Era l’inizio del 2008 e poco dopo era in programma un suo viaggio negli Stati Uniti, dove più implacabili erano le critiche laiche alla Chiesa e al papa sul terreno esplosivo della pedofilia. Eppure proprio durante e dopo quel viaggio Benedetto XVI raggiunse il massimo della sua popolarità tra i cattolici.

La lezione che se ne ricava è che il successo di un papa tra i fedeli non è automaticamente legato alla sua arrendevolezza sulle questioni cruciali. Due papi intransigenti come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno registrato indici di popolarità altissimi.

Le “aperture” di un papa alla modernità possono invece spiegare il consenso che gli proviene da fuori, dall’opinione laica. Sembra essere questa la novità di Francesco.

Una novità di cui egli sotto sotto diffida. Ha detto nella sua recente intervista al “Corriere della Sera”: “Non mi piace una certa mitologia di papa Francesco. Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione”.

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Il papa e il filosofo

Sandro Magister
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Nell’incontro che ha avuto pochi giorni fa con Barack Obama, papa Francesco non ha taciuto su ciò che divide l’amministrazione americana dalla Chiesa di quel paese, su questioni pesanti quali “i diritti alla libertà religiosa, alla vita e all’obiezione di coscienza”. E l’ha fatto rimarcare nel comunicato emesso al termine del colloquio.

Jorge Mario Bergoglio non ama lo scontro diretto, pubblico, con i potenti del mondo. Lascia agire gli episcopati locali. Ma non fa velo al proprio dissenso e tiene a segnare il proprio distacco. Nelle foto degli incontri ufficiali si mette in posa con la faccia severa, a dispetto degli esagerati sorrisi del partner di turno, in questo caso il capo della massima potenza mondiale.

Né potrebbe fare diversamente, posto il giudizio radicalmente critico che papa Francesco nutre dentro di sé, riguardo agli odierni poteri mondani.

È un giudizio che egli non ha mai esplicitato in forma compiuta. L’ha fatto però balenare più volte. Ad esempio col suo frequente riferimento al diavolo come grande avversario della presenza cristiana nel mondo, che vede all’opera dietro lo schermo dei poteri politici ed economici. Oppure quando si scaglia – come nell’omelia del 18 novembre 2013 – contro il “pensiero unico” che vuole asservire a sé l’umanità intera, anche al prezzo di “sacrifici umani”, con tanto di “leggi che li proteggono”.

Bergoglio non è un pensatore originale. Un suo parametro letterario di riferimento, al quale non poche volte rimanda, è il romanzo apocalittico “Il padrone del mondo” di Robert Hugh Benson, un convertito d’inizio Novecento, figlio di un arcivescovo anglicano di Canterbury. Ma all’origine del giudizio di Bergoglio sul mondo d’oggi c’è soprattutto un filosofo.

Il suo nome è Alberto Methol Ferré. Uruguaiano di Montevideo, attraversava spesso il Rio de la Plata per andare a trovare a Buenos Aires l’amico arcivescovo. È morto ottantenne nel 2009. Ma è stato ristampato in Argentina e ora anche in Italia un suo libro-intervista del 2007 che è d’importanza capitale per comprendere non solo la sua visione del mondo, ma anche quella del suo amico poi diventato papa:

Nel presentare la prima edizione di questo libro a Buenos Aires, Bergoglio lo elogiò come un testo di “profondità metafisica”. E nel 2011, nella prefazione a un altro libro di un grande amico di entrambi – Guzmán Carriquiry Lecour, uruguaiano, segretario della pontificia commissione per l’America latina, il laico di più alto grado in Vaticano – ancora Bergoglio tributò la sua riconoscenza al “geniale pensatore del Rio de la Plata” per aver messo a nudo la nuova ideologia dominante, dopo la caduta degli ateismi messianici d’ispirazione marxista.

È l’ideologia che Methol Ferrè chiamava “ateismo libertino”. E che Bergoglio così descriveva:

“L’ateismo edonista e i suoi supplementi d’anima neo gnostici sono diventati cultura dominante, con proiezione e diffusione globali. Costituiscono l’atmosfera del tempo in cui viviamo, il nuovo oppio del popolo. Il ‘pensiero unico’, oltre a essere socialmente e politicamente totalitario, ha strutture gnostiche: non è umano, ripropone le diverse forme di razionalismo assolutista con le quali si esprime l’edonismo nichilista descritto da Methol Ferré. Domina il ‘teismo nebulizzato’, un teismo diffuso, senza incarnazione storica; nel migliore dei casi, creatore dell’ecumenismo massonico”.

Nel libro-intervista che oggi è stato ristampato, Methol Ferré sostiene che il nuovo ateismo “ha cambiato radicalmente di figura. Non è messianico, ma libertino. Non è rivoluzionario in senso sociale, ma complice dello status quo. Non ha interesse per la giustizia, ma per tutto ciò che permette di coltivare un edonismo radicale. Non è aristocratico ma si è trasformato in un fenomeno di massa”.

Ma forse l’elemento più interessante dell’analisi di Methol Ferré è nella risposta che egli dà alla sfida posta dal nuovo pensiero egemone: “È stato così con la riforma protestante, è stato così con l’illuminismo secolare, e poi con il marxismo messianico. Un nemico lo si vince assumendo il meglio delle sue stesse intuizioni e spingendosi oltre”.

E qual è a suo giudizio la verità dell’ateismo libertino? “La verità dell’ateismo libertino è la percezione che l’esistere ha una destinazione intima di godimento, che la vita stessa è fatta per una soddisfazione. Detto in altre parole: il nucleo profondo dell’ateismo libertino è una necessità recondita di bellezza”.

Certo, l’ateismo libertino “perverte” la bellezza, perché “la separa dalla verità e dal bene, e quindi dalla giustizia”. Ma – ammonisce Methol Ferré – “non si può riscattare il nucleo di verità dell’ateismo libertino con un procedimento argomentativo, o dialettico; meno ancora ponendo proibizioni, lanciando allarmi, dettando regole astratte. L’ateismo libertino non è una ideologia, è una pratica. Ad una pratica occorre opporre un’altra pratica; una pratica autocosciente, beninteso, quindi intellettualmente dotata. Storicamente la Chiesa è l’unico soggetto presente sulla scena del mondo contemporaneo che può affrontare l’ateismo libertino. Per me solo la Chiesa è veramente post-moderna”.

È impressionante la sintonia tra questa visione di Methol Ferré e il programma di pontificato del suo discepolo Bergoglio, col suo rifiuto “della trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza” e col suo insistere su una Chiesa capace di “far ardere il cuore”, di curare ogni tipo di malattia e di ferita, di ridare felicità.