Il parroco che, per amore del suo popolo, non tacque

Luca Kocci intervista Sergio Tanzarella
Adista n. 12 del 29/03/2014

Don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe, venne ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, a 36 anni, per il suo impegno contro la criminalità organizzata, per la legalità e la giustizia (v. Adista n. 28/94). La sua testimonianza è stata ricordata dalla diocesi di Aversa e dalla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, che lo scorso 26 febbraio gli ha riconosciuto la licenza in Teologia biblica alla memoria – interruppe gli studi perché venne ammazzato – come chiesto a gran voce da alcuni docenti della Facoltà (v. Adista Notizie n. 35/11), fra cui Sergio Tanzarella, professore di Storia della Chiesa e prossimo a dare alle stampe un libro proprio sul parroco di Casal di Principe.

«C’è stato un grande ritardo della ricerca storica su don Diana», spiega Tanzarella ad Adista. «Abbiamo assistito a tentativi di rimozione e addirittura ad una strategia della calunnia che ha gettato sospetti (v. Adista Notizie n. 7/13, ndr). Si trattò di un omicidio di camorra, il dato è ormai acquisito anche a livello processuale (esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, sono stati condannati dai giudici, ndr). Tuttavia molti anni di silenzio su quei fatti hanno lasciato spazio a invenzioni oppure ad un’agiografia celebrativa e ai rituali dell’anticamorra che hanno promosso un eroismo di plastica».

Chi era don Diana?

Era un uomo e un prete normale che attraverso un maturazione progressiva comprese che come cittadino e come prete non poteva limitarsi a celebrare funerali di morti ammazzati. E che non poteva accettare il clima di terrore e di rassegnazione che in modo sistemico si stava diffondendo nel popolo. Forse per questo è un testimone che fa ancora problema nella società e in parte nelle comunità ecclesiali. La rassegnazione è funzionale al dominio del potere, non solo quello della camorra.

Per capire a fondo don Diana bisogna comprendere anche il contesto in cui ha operato ed esercitato il suo ministero…

Certamente. Bisogna considerare cosa era diventata la Campania sottoposta all’economia del terremoto del 1980. Fu quell’economia, con l’arrivo di ingentissimi finanziamenti per opere pubbliche e ricostruzione, a fornire immense risorsa per la camorra. L’allargamento alla totalità dei Comuni della Campania per supposti danni del terremoto – ne rimasero esclusi solo 7 – restituisce l’idea di una bolla speculativa senza precedenti. Di una quantità di denaro che favorì una cementificazione massiccia dove la camorra controllava tutto, dagli appalti al calcestruzzo. E tuttavia nemmeno si deve cedere all’idea dell’onnipotenza della camorra, perché il suo potere era proporzionato alla complicità partitica, della politica locale e nazionale. I risultati raggiunti dalla camorra sarebbero stati impossibili senza queste complicità.

Un discorso che vale anche per la Chiesa campana?

Sicuramente la contestualizzazione va compresa anche per la Chiesa dell’epoca. Un testo ispiratore per don Peppino fu il documento dei vescovi della Campania “Per amore del mio popolo non tacerò”, del 26 giugno 1982. Nel documento si denunciavano chiaramente le “risorse” della camorra: droga, estorsioni, tangenti sugli appalti; «una scuola di devianza per i giovani» attratti «dal mito della forza e del rapido, seppur rischioso, guadagno»; «la diffidenza e la sfiducia dell’uomo del Sud nei confronti delle istituzioni»; la consapevolezza della collusione tra politica e camorra; il diffuso senso di insicurezza personale che «determina, non di rado, il ricorso alla difesa organizzata per clan o l’accettazione della protezione camorristica»; l’opacità del lavoro, considerato più una concessione camorristica che un diritto; infine, «la carenza o l’insufficienza, anche nell’azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l’uomo e il cittadino maturo».

Si trattò di un documento tanto straordinario quanto presto dimenticato. Un’analisi acuta su quanto stava accadendo e una capacità di previsione su ciò che sarebbe avvenuto. Don Peppino si limitò a prendere sul serio il documento dei vescovi.

Il vescovo di Caserta, mons. Raffaele Nogaro, fu una figura molto importante per don Diana. Qual è stato il loro rapporto?

L’impegno di don Peppino ebbe come conseguenza un isolamento e un’esposizione che non sfuggì al vescovo di Aversa del tempo, mons. Gazza. Fu lui a presentare don Peppino al vescovo di Caserta Nogaro, quasi affidandogli quel giovane prete trentenne. Alla scuola di Nogaro don Peppino si impegnò sia sull’emergenza legalità che sull’emergenza dell’accoglienza ai migranti. Insieme si recavano nelle scuole ad incontrare giovani e insegnanti. Grazie anche a Nogaro maturò la scelta di scrivere, nel Natale del 1991, il documento “Per amore del mio popolo”, ispirato proprio dal documento della Conferenza episcopale campana del 1982 e dal contatto con i gruppi cattolici casertani più avanzati che aveva conosciuto grazie alla frequentazione con Nogaro. Il documento è una testimonianza di capacità di giudizio su fenomeni complessi e di impegno responsabile che chiama in causa tutta la Chiesa. È sorprendente che sia stato concepito da un giovane prete di un paesino abbastanza isolato. Ma era un uomo culturalmente attrezzato, che aveva preferito rimanere con gli occhi aperti di fronte al male senza voltare lo sguardo altrove.

Un documento che fece discutere…

Scritto da don Diana, fu sottoscritto dai parroci della Foranìa. E proprio gli stessi parroci hanno osservato, lo scorso anno, che il documento venne accolto come segno di liberazione da molti, ma con insofferenza da altri: «Alcuni intellettuali, professionisti e qualche politico, esortarono noi sacerdoti a ritrattarlo, perché negli ambienti della camorra la cosa non era piaciuta». Questo ricordo è la conferma del grado di penetrazione e consenso che la camorra aveva ottenuto, e ancora mantiene, all’interno dei gruppi cosiddetti dirigenti della società campana.