Dalla parte della casta: le linee guida anti-pedofilia della CEI

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 14 del 12/04/2014

Se su finanze, riforma della Curia e apertura al mondo, sotto papa Francesco, la Chiesa cattolica ha guadagnato molti consensi anche nel mondo laico, sul fronte del contrasto alla pedofilia del clero, e sulle misure da attuare nei confronti dei preti pedofili, il giudizio sulla Chiesa di Francesco (specie per quanto riguarda l’Italia) resta – da parte dei media e dell’opinione pubblica sia laica che cattolica – più o meno quello dei tempi di Ratzinger.

Dopo la bocciatura, nel febbraio scorso, da parte della Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo (Crc, v. Adista Notizie nn. 3 e 6/14), ecco ora altre polemiche sui contenuti delle “Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici” della Conferenza episcopale italiana, approvate dal Consiglio permanente del gennaio scorso ma rese pubbliche solo alla fine di marzo.

Qualcuno ha parlato di sgambetto della Cei al papa, di rapporti tra il pontefice e la presidenza dei vescovi italiani sempre più tesi; di scelta che stride con quella appena fatta da Francesco di nominare una vittima degli abusi nella neonata Commissione per la tutela dei minori (v. Adista n. 13/14). Ma mentre un precedente testo, preparato dalla Cei nel 2012, non aveva avuto il placet della Congregazione per la Dottrina della Fede – che lo aveva rinviato ai vescovi per ulteriori approfondimenti – questo invece lo ha ottenuto, il che dimostra che se il Vaticano non ha condiviso in toto il testo, stavolta però non si è nemmeno messo di traverso.

La questione centrale riguarda l’obbligo per il vescovo di denunciare al giudice competente un prete pedofilo quando sia venuto a conoscenza di un reato. C’era chi si attendeva che la Cei lo esplicitasse. Il testo invece si limita ad affermare: «Nell’ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico – salvo il dovere morale di contribuire al bene comune – di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida». Insomma, nessun obbligo ma solo «dovere morale». E non alla denunzia, e nemmeno alla tutela delle vittime, ma solo ad un non meglio precisato «bene comune».

Su questo aspetto, però, va chiarito che nemmeno la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva detto una parola molto più chiara, affermando – nella circolare inviata a tutte le diocesi del mondo per l’elaborazione delle Linee Guida che la Cei ha pubblicato solo ora – che «va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale». Il concetto ovvio, e che non c’era forse nemmeno il bisogno di ribadire, è che se le leggi lo impongono, il vescovo deve denunciare. Altrimenti, obbligo non c’è. E il documento vaticano, da parte sua, non aggiungeva nemmeno un vincolo ecclesiastico esplicito che inducesse il vescovo omertoso a parlare. E poiché le leggi italiane non prevedono obbligo di denuncia, è comprensibile (secondo la logica ecclesiastica di ridurre al minimo i danni) che il documento della Cei non vincoli in alcun modo i vescovi a riferire all’autorità giudiziaria.

Le reazioni

Noi Siamo Chiesa, in un comunicato del 2 aprile scorso, rileva che inoltre la Cei invoca anche ulteriori tutele, che però non derivano solo dalle leggi, ma anche dai privilegi concordatari. Ad esempio, l’esonero per i vescovi «di deporre o di esibire documenti».

Marcello Vigli, delle Comunità Cristiane di Base, in un editoriale su Italia laica (www.italialaica.it) aggiunge che il testo della Cei non «garantisce alle vittime il diritto di essere parte nel procedimento canonico e assolutamente nulla si dice su possibili risarcimenti nei loro confronti». Vigli, prendendo ad esempio la reprimenda del papa ai parlamentari italiani in materia di corruzione, rileva che «le parole di papa Francesco, pur esaltate, non sono tradotte nella prassi della sua Chiesa».

Stessa fiducia nel papa anche nel comunicato di Noi Siamo Chiesa, che prima esprime una nota di amarezza nei confronti di un mondo cattolico che dovrebbe avere «meno timidezze nel mettere a nudo in ogni occasione l’ipocrisia e la mancanza di credibilità di questa normativa e nel denunciare ogni situazione concreta che sia stata insabbiata»; e poi conclude: «Ci rimane la speranza che il nuovo corso, avviato da papa Francesco, provochi al più presto ripensamenti radicali sull’intero modo di gestire questo peccato contro Dio e contro i fanciulli».