Il papa in Israele

Piero Stefani
Il pensiero della settimana, n. 473 – http://pierostefani.myblog.it

Annunciando il breve viaggio di Terra Santa che si terrà il 24-25 maggio prossimi, papa Francesco ha insistito sul suo carattere ecumenico intracristiano: «al Santo Sepolcro celebreremo un incontro con tutti i rappresentanti delle Chiese cristiane di Gerusalemme insieme al patriarca Bartolomeo di Costantinopoli». L’accento posto su questa tema è giustificato dal fatto che l’evento è legato al cinquantenario del pellegrinaggio compiuto da Paolo VI nel gennaio del 1964. Si trattò del primo viaggio compiuto in età moderna da un papa fuori dall’Italia. In quell’occasione lo storico incontro con il patriarca Atenagora rappresentò, secondo le parole dello stesso Montini, una specie di colpo di aratro destinato a smuovere una terra indurita. Quell’avvenimento fu l’innesco immediato di un processo che portò rapidamente alla revoca della millenaria scomunica tra Roma e Costantinopoli (7 dicembre 1965).

Il viaggio di Paolo VI si collocò in un contesto in cui il papa era ancora nelle condizioni di ignorare ufficialmente l’esistenza dello Stato d’Israele, in tutto il viaggio infatti non lo nominò mai. Sul volo di ritorno inviò un telegramma di saluto al «Presidente Shazar, Tel Aviv», sottacendo di quale Stato egli fosse presidente. Del resto si era prima del 1967 e nessuno dei Luoghi santi visitati era sotto giurisdizione israeliana: Gerusalemme vecchia sarebbe passata sotto il controllo israeliano solo con la Guerra dei Sei giorni. Inoltre si era molto prima del riconoscimento della Stato d’Israele da parte della Santa Sede (l’Accordo Fondamentale risale al 1993). Va da sé che nel 1965 non era neppure immaginabile l’esistenza di un’Autonomia nazionale palestinese nel cui territorio si trova ora Betlemme, una delle mete qualificanti del prossimo viaggio. In sintesi la rievocazione del pellegrinaggio del 1964 avviene in un contesto storico, politico e diplomatico radicalmente diverso da quello di allora. Vista sotto questo aspetto la rievocazione indicherà più una distanza che una prossimità rispetto all’evento ricordato.

All’inizio del 1964 si era anche prima, sia pure di poco, della promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate (28 ottobre 1965), documento che segna una svolta irreversibile nei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Sul piano sia della riflessione teologica sia della prassi pastorale tutto quanto viene dopo è infatti segnato dall’esistenza di quel testo. Anche quando si sono affermate posizioni non ancora esplicitate dal documento conciliare lo si è fatto in virtù della sua eredità. Su questa scia si sono chiaramente collocati pure i successori di Paolo VI: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco.

Sono noti gli ottimi rapporti personali di Bergoglio con alcuni esponenti ebraici, a iniziare dal rabbino argentino (appartenente alla corrente «conservative») Skorka che lo accompagnerà nel viaggio.

Per quanto riguarda il piano della riflessione la presa di posizione finora più impegnativa è contenuta nei nn. 247-248 dell’Evangelii gaudium. In essi si ribadisce l’esistenza di legami speciali con il popolo ebraico la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata (cf. Rm 11,29). Il popolo dell’Alleanza e la sua fede sono inoltre considerati una «radice sacra» dell’identità cristiana; l’ebraismo, perciò, non può essere ritenuto una religione estranea, né gli ebrei vanno annoverati tra coloro che sono chiamati ad abbandonare gli idoli per convertirsi a Dio (cfr. 1Ts 1,9). Si afferma, inoltre, che il dialogo e l’amicizia con i figli d’Israele fanno parte della vita dei discepoli di Gesù e ci si duole per le persecuzioni inferte agli ebrei, specie per quelle che hanno coinvolto dei cristiani. Dio continua a operare «nel popolo dell’Antica Alleanza» e a far nasce in esso tesori di saggezza derivati dall’incontro con la Parola. Questo arricchimento non è scalfito né dal fatto che alcune convinzioni cristiane risultino inaccettabili per l’ebraismo, né dalla necessità da parte della Chiesa di annunciare «Gesù come Signore e Messia».

Dalle considerazioni fin qui esposte emerge che il prossimo viaggio dovrebbe essere l’occasione per interrogarsi sul nesso che esiste tra l’ecumenismo intracristiano e le relazioni cristiane con il popolo ebraico. Allo stato attuale il mondo ortodosso, strutturalmente legato a tradizioni patristiche, non ha ancora affrontato in modo largo e ufficiale i nodi sciolti dalla dichiarazione Nostra aetate e dai successivi sviluppi. L’affermazione che l’alleanza con il popolo ebraico non è stata revocata è un punto fermo a Roma e nel mondo della Riforma; lo stesso vale anche a Costantinopoli o a Mosca?[1] Cinquant’anni fa una simile questione teologica ed ecclesiologica non si poneva; oggi essa invece appare, in linea di principio, ineludibile. Connesso a ciò vi è il problema evocato con l’espressione (per la verità non molto felice) di proto-scisma. Più convenientemente lo si può formulare con le parole pronunciate da Karl Barth agli inizi degli anni Sessanta in una visita da lui compiuta all’allora Segretariato per l’Unità dei cristiani: «Esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico». Muovendosi sul piano dei principi il tema dovrebbe collocarsi al centro del prossimo viaggio.

In un discorso tenuto a Vallombrosa nel 1984, durante una riunione dell’International Council of Christians ad Jews, il card. Martini affermò che ogni scisma nella storia della cristianità priva la Chiesa di contributi preziosi. Se questo è vero per tutte le grandi divisioni, lo è in modo particolare per il primo scisma che ha spogliato la Chiesa del contributo che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica.

Martini pose in rilievo tre conseguenze pratiche tuttora attuali legate a questo mancato apporto: «a) La prassi cristiana ha una permanente difficoltà a focalizzare esattamente il giusto atteggiamento dei singoli e della comunità nei confronti del potere tecnico, economico e politico del mondo. b) La prassi cristiana fa fatica nel trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia. c) la prassi cristiana non riesce a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via». Sono temi tuttora non solo attuali ma anche tutti qualificanti per l’attuale pontificato. Suona perciò ancora del tutto pertinente la conclusiva affermazione di Martini: «È assai importante, per i cristiani, promuovere la comprensione della tradizione ebraica per riuscire a capire più autenticamente se stessi»[2] Il che – aggiungiamo – lungi dal comportare una qualche forma di «giudaizzazione imitativa» del cristianesimo conduce, al contrario, ad una più matura comprensione della novità evangelica.

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[1] Se si tenesse conto dell’adesione delle Chiese ortodosse alla KEK e CCEE, Chart Oecumenica. Linee guida per la crescita della collaborazione per la crescita della collaborazione tra chiese in Europa» (2001) la risposta dovrebbe essere affermativa. Il discorso però appare più teorico che pratico.
[2]C.M. Martini, «Per lo sviluppo delle relazioni ebraico-cristiane» in Israele, radice santa, Centro Ambrosiano – Vita e Pensiero, Milano 1993., pp. 46-47