Le donne, esaltate ma emarginate

Enzo Bianchi
Jesus, aprile 2014

Vi sono realtà che non stanno nella bisaccia del mendicante, eppure egli non può abbandonarle da qualche parte: sono le sofferenze che abitano il suo cuore. Una di queste, sempre viva e mai assopita, riguarda il mio quotidiano: vivo da monaco con fratelli e sorelle, uomini e donne nella stessa comunità. Ora, proprio le donne conoscono nella chiesa una condizione paradossale. Presenti ovunque, accanto agli uomini in tutte le forme della vita cristiana, impegnate nella trasmissione del Vangelo e testimoni di Cristo quanto gli uomini, in realtà si trovano escluse dagli ambiti decisionali e possono essere solo semplici fedeli, “christifideles”, appartenenti al laicato oppure alla vita religiosa, comunque senza autorità deliberativa perché donne.

Da decenni la chiesa cattolica si interroga sul ruolo delle donne nella chiesa, ma senza che nascano risposte adeguate e convincenti. Si esalta la femminilità con espressioni curiose (“il genio femminile”…), si sottolinea la loro eminente dignità di spose, madri e sorelle, ma poi non viene loro riconosciuta alcuna possibilità di esercitare responsabilità e funzioni direttive nella chiesa. Così tutto il corpo ecclesiale ne risulta menomato: un corpo in cui la metà delle membra deve ascoltare solo gli uomini intervenire nella liturgia, in cui le decisioni che riguardano tutti sono prese solo dagli uomini, in cui ciò che le donne sono e devono essere è stabilito da uomini, senza neppure ascoltarle…

Leggendo i Vangeli e il Nuovo Testamento, troviamo le donne presenti quanto gli uomi­ni, e Gesù stesso le annovera alla sua sequela insieme agli uomini in una comunità itinerante; Maria di Magdala è destinataria, insieme ad altre donne, del primo annuncio pasquale da parte di Cristo risorto; nella fondazione delle prime comunità cristiane le donne svolgono compiti apostolici. Non a caso san Paolo osa proclamare che ormai nella comunità cristiana non ci sono più appartenenze discriminate, “non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina”, anche se poi, paradossalmente, resta incapace di trarne tutte le conseguenze nella vita della comunità cristiana.

Inizialmente, infatti, autorizza le donne a prendere la parola nella chiesa di Corinto (1Cor 11,5), pensa e predica che i doni dello Spirito santo sono dati a tutti i battezzati, senza preferenze tra uomini e donne. E non si dimentichi che nella società del tempo la donna era priva del diritto del diritto di prendere la parola nell’agorà. In seguito tuttavia, verso la fine dell’epoca apostolica, quando si imporrà il vescovo presbitero come successore degli apostoli, si toglierà alle donne il diritto di parlare nell’assemblea cristiana (1Cor 14,34). Così una prassi patriarcale prevarrà nuovamente nella chiesa e quel soffio di libertà portato dal Vangelo sarà istituzionalmente contraddetto fino a oggi.

Da allora alla donna è affidata la diaconia, il servizio alla chiesa, mentre agli uomini è riservata l’autorità e, di conseguenza, il potere. Solo nel monachesimo, fenomeno originariamente non clericale, la donna ha gli stessi diritti e doveri dell’uomo: può diventare abadessa, guida spirituale e autorità per una comunità, con il potere di insegnare, di prendere la parola in assemblea, di deliberare sulla vita della comunità. In questo il monachesimo ha un’autentica valenza profetica, anche se sovente non ne è consapevole e non sa vivere tutte le potenzialità di questa forma di sequela cristiana.

Ecco allora le domande che assillano il mendicante senza che nella sua bisaccia vi siano risposte: cosa significa ripetere formule vuote come “Maria è più importante di Pietro” senza accompagnarle con un impegno adeguato per una ricerca biblica e teologica sulla presenza della donna nella chiesa? Perché non c’è ascolto delle donne che elaborano teologia o sono impegnate nella vita pastorale, nella missione, nell’evangelizzazione, nella catechesi? Trovare risposte significa aprire nuovi cammini alla corsa del Vangelo.