Bergoglio parla alla sinistra. Come ai tempi della sintonia tra Togliatti e papa Giovanni XXIII

Enrico Rossi. Presidente della Regione Toscana
www.huffingtonpost.it/ 18 aprile 2014

Nella omelia pronunciata il 27 marzo papa Francesco ha riservato a politici e parlamentari un duro atto di accusa. Ispirato dalla lettura del profeta Geremia, il papa ha additato una classe dirigente senza pensiero e senza tensioni ideali, lontana dal popolo, concentrata negli interessi di potere, di partito, nelle lotte intestine. Un “gruppetto” di persone di buone maniere ma di cattive abitudini, a volte corrotte, una casta che impone doveri sulle spalle degli altri per preservare i propri privilegi.

Le medicine spesso sono amare, ma il malato che le sa efficaci non esita ad assumerle. Proprio perché il monito è stato esplicito e giustamente impietoso mi sembra necessario coglierlo nella sua essenza e, facendo un passo avanti, chiedersi come possiamo costruire un luogo di confronto e di dialogo forte tra uomini di fede che da sponde diverse e anche opposte si muovono per riavvicinarsi al popolo e si impegnano per salvare una comune umanità.

In una recente pubblicazione (Palmiro Togliatti e papa Giovanni, Roma, 2014) monsignor Loris Francesco Capovilla (che fu segretario particolare di papa Giovanni) ha richiamato un importante precedente in questo senso, forse il più importante mai tentato, avvenuto nei difficili tempi della guerra fredda.

Era il marzo del 1963. Togliatti lesse a Bergamo un breve testo dal titolo ‘Il destino dell’uomo”, indirizzandolo ai cattolici fuori dalla contingenza elettorale e anticipando i temi di fondo dell’enciclica “Pacem in terris”. Due testi che spingono le loro antenne molto oltre il loro tempo e ci rimproverano severamente.

Togliatti segnalava l’urgenza del bisogno di salvezza dalla guerra totale, dal rischio atomico e dalla mutazione antropologica imposta dal consumismo. Alla crescita incontrollata delle diseguaglianze si accompagnava per lui il grave problema della solitudine e dell’isolamento relazionale, dell’esistenza che diviene carcere, in cui l’egoismo e il materialismo finiscono per occupare tutto lo spazio dei desideri.

L’assenza di fede – ne sono persuaso anch’io – minaccia la prospettiva delle nostre azioni. Se guardo alla mia parte non posso non notare l’artificiosità e l’astrattezza di tante idee riformatrici, la ricerca del potere e la tattica miope tradotte in rituali senza missione. Mentre il tema di una ‘fede’ che si fa politica diventa sempre più attuale e i grandi rivolgimenti non possono fare a meno del progresso tecnico quanto della speranza e della mobilitazione che si sprigiona dalla fede.

Il socialismo europeo nelle sue molte articolazioni confessionali non ha mai rinunciato all’esercizio della fede. Ma oggi in Europa, nei paesi in cui è forza di governo, sembra aver smarrito la ‘vocazione’, irrigidito dai vincoli delle “larghe intese” e dalla minaccia dei disastri sociali e politici prodotti dal capitalismo finanziario e dalle politiche di rigore.

Da laico, mi sono chiesto cosa può nel mondo d’oggi indurre al dialogo tra fede e politica. Più lucidamente dei politici Papa Francesco ha gettato il suo sguardo su alcuni rischi incombenti. Anzitutto le conseguenze della crisi finanziaria: l’impoverimento di milioni di uomini e donne, la disoccupazione giovanile giunta ormai a livelli inaccettabili, il collasso dello stato sociale nel cuore dell’Occidente. Rischi analoghi minacciano l’ambiente e la natura. Penso che il governo del mondo ‘secondo natura’, nel rispetto dei bisogni vitali degli uomini, di cui parlavano Giovanni XXIII e Togliatti e di cui parla oggi papa Bergoglio, costituisca il primo nucleo di una comune agenda politica e di un nuovo umanesimo.

Dalla chiesa di Bergoglio deriva anche una lezione di metodo su come intendere la conoscenza e la militanza: imparare la lingua di chi soffre, porsi dal punto di vista del proprio interlocutore non è solo un esercizio caro alla tradizione dei gesuiti ma è uno sforzo di altruismo analogo alla gramsciana ‘connessione sentimentale’. Che è un sapere che si arricchisce di comprensione e di passione, senza il quale, secondo Gramsci, “non si fa politica-storia”.

La buona politica, diceva Vittorio Foa, ha bisogno di buoni esempi. Papa Bergoglio si è messo in cammino verso la ‘periferia’ alla ricerca degli umili, dei semplici, per il cui riscatto la fede diventa militanza e “sacrificio senza speranza di premio”. Allo stesso modo penso che la politica cesserebbe di essere sterile e improduttiva se si riscoprisse come esperienza di fede e come missione.