La scelta di raccogliere un’eredità ingombrante

Alessandro Santagata
Il manifesto, 27 aprile 2014

Nel cattolicesimo la successione apostolica è il centro dell’ordinamento della Chiesa. Si capisce quindi come l’azione e l’insegnamento di un papa rappresentino qualcosa di più di un semplice modello da imitare.

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono per Bergoglio due “fonti” di elaborazione dottrinale con le quali è imprescindibile fare i conti. La scelta di accoppiare le canonizzazioni, derivante da motivazioni che hanno a che fare con la volontà di conciliare la memoria storica della Chiesa, ha un forte valore simbolico e ci dice alcune cose di questo papa, del suo stile pastorale e della sua idea di rinnovamento.

L’accostamento di papa Francesco alla figura di Roncalli è stato più volte proposto dai media e da alcuni protagonisti della stagione ecclesiale degli anni ‘60. Un elemento in comune ai due è la capacità di aver dato una scossa alla Chiesa in un momento di intorpidimento (alla fine degli anni ‘50) e di aperta crisi nel caso più recente delle dimissioni di Ratzinger, ottenendo attenzione e consenso anche tra le fila dei non credenti.

Entrando nello specifico, Bergoglio ha dichiarato in più occasioni la sua riconoscenza nei confronti del papa della povertà e dell’apertura ai «segni dei tempi». Nel giugno 2013, parlando ai pellegrini della diocesi di Bergamo, ha elogiato la consapevolezza Giovanni XXIII della necessità un aggiornamento costante della Chiesa. Come ha spiegato nell’intervista alla Civiltà Cattolica, dal Vaticano II non si torna indietro: alla Chiesa spetta il compito di metterlo in pratica. Si può affermare dunque che con Bergoglio è finita la stagione del ridimensionamento del Concilio e delle polemiche circa la sua corretta ermeneutica.

La “conciliarità” del papa è riscontrabile poi nel suo primo documento programmatico, l’esortazione Evangelii Gaudium, da cui emerge un’impostazione pastorale molto distante dagli assi portanti del discorso ratzingeriano. La battaglia contro il relativismo e la «deriva antropologica» non viene accantonata, ma assume i caratteri di una sfida alla religione perché si faccia interprete dei dannati della Terra. Il piano bio-politico, quello dei «principi non negoziabili», non è oggetto di riforma, ma lascia il posto al bisogno di ritrovare l’essenzialità del Vangelo. La stessa Chiesa, infine, è chiamata da Bergoglio a riformarsi, recuperando una maggiore collegialità e credibilità (vanno lette in queste chiave l’avvio della riforma della Curia e l’intervento sullo Ior) e valorizzando il ruolo del popolo di Dio.

Un anno dopo l’elezione, il cantiere di papa Francesco è aperto. Per comprenderne meglio la direzione, è utile mettere in campo un ulteriore concetto caro all’ex vescovo di Buenos Aires, quello di “pietà popolare”, a suo tempo centrale nella pastorale di Giovanni Paolo II. La categoria della missionarietà/pietà popolare viene presentata da papa Francesco facendo riferimento al documento Aparecida, il testo della V Conferenza dell’episcopato latinoamericano nel 2007.

Richiamandosi a Wojtyla, Bergoglio pone nella forza della fede popolare, quella che si esprime nelle devozioni ai santi, nel rosario, nelle processioni mariane, nell’attaccamento alla Chiesa, un fondamento dell’inculturazione della fede nella società del presente. Si trova qui un punto di contatto forte con il modello carismatico, polacco, che ha segnato gli anni ‘80 e ‘90 e che ha trovato nell’America latina del post-commissariamento della teologia della liberazione un terreno particolarmente fertile.

L’accoppiamento delle due canonizzazioni sembra quindi confermare l’eredità che viene da due papi “ingombranti” nella storia recente del cattolicesimo: il bisogno di riprendere il filo interrotto del Vaticano II e di rendere la fede più attuale e comprensibile agli occhi di una società razionalista, assumendo però anche i caratteri della stagione precedente di resistenza devozionale al processo di secolarizzazione.

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Il bivio di Francesco

Marco Marzano
Il manifesto, 27 aprile 2014

La doppia canonizzazione rappresenta benissimo, con tutte le sue ambiguità, la peculiare contingenza storica nella quale il papato di Francesco si trova. Roncalli e Woytjla sono stati entrambi grandi papi, ma per motivi completamente diversi: l’importanza del papa polacco è derivata in larghissima parte dall’eccezionale durata del suo pontificato, dall’inevitabile accumulazione, in quasi un trentennio, di gesti e di azioni memorabili. La sua grandezza è coincisa con quella di un’intera epoca storica.

Perché non si può dire di certo che Giovanni Paolo abbia lasciato alla Chiesa un lascito imponente. Al contrario: è stato un “sovrano immobile”. Ha stoppato, in modo deciso, i progressi della mentalità e della cultura del Concilio, ma senza avere la forza o la volontà per un vero ritorno all’indietro, o anche per imboccare un’altra direzione. Quel che di lui rimarrà è soprattutto lo stile comunicativo, la straordinaria capacità di incantare, con le parole e con i gesti, immense masse di cattolici in tutto il mondo.

Diversissima la grandezza di papa Roncalli, che certo verrà anche ricordato per essere stato il “papa buono”, per lo stile semplice e diretto da parroco di provincia. E per essere stato un pontefice romano di eccezionale umanità. Ma la sua eredità non è tutta qui e sta soprattutto nella decisione, rivoluzionaria per il destino della Chiesa cattolica, di aver indetto il Concilio Vaticano II, di aver innescato un processo di mutamento organizzativo, politico, culturale e simbolico di straordinaria portata storica.
Seguire la via di Woytjla o quella di Roncalli? Questo il dilemma drammatico, lo snodo cruciale, di fronte al quale si trova il papato di Bergoglio. Quale sarà la cifra di questo papato? La sensazionale abilità comunicativa o la riforma della Chiesa?

La prima è una qualità squisitamente personale, idiosincratica, non ripetibile. Non va banalizzata perché è ricca di sostanza, perché, in un senso profondo, sta a significare la capacità di prendere sul serio il prossimo, di comprenderlo e di accettarlo fino in fondo e in modo autentico. E tuttavia rimane un attributo personale, soggettivo, che svanisce quando scompare chi lo possedeva. In qualche caso particolare, può restare forte il suo ricordo, che si traduce poi in affetto, memoria, riconoscenza. Ma non in cambiamenti significativi per l’organizzazione che sopravvive al singolo, a maggior ragione quando questa è una chiesa millenaria.

Per cambiare quest’ultima ci vogliono scosse molto potenti, cambiamenti strutturali davvero significativi che alterino i rapporti di forza, che rimettano in discussione l’equilibrio dei poteri, che innovino nelle pratiche e nella cultura dell’organizzazione. Da questo punto di vista, a me pare che papa Francesco sia stato sinora molto prudente, forse perché cauto e preoccupato delle conseguenze che cambiamenti troppo bruschi potrebbero avere sulla tenuta del tessuto ecclesiale, o forse perché non intenzionato a riformare davvero in profondità l’istituzione che guida. Non lo sappiamo.

E non lo sanno nemmeno coloro, la stragrande maggioranza dei cronisti e dei commentatori di cose vaticane e cattoliche, che hanno già trasformato questo papa in un “santino”, in un’icona da adorare e di fronte alla quale quotidianamente genuflettersi, attribuendo una portata pressoché rivoluzionaria ad ogni minimo gesto, anche al più insignificante, del papa “venuto quasi dalla fine del mondo”, dando per scontato che il grande cambiamento sia già avvenuto, che le riforme si siano già materializzate.

Questi apologeti, spesso non cattolici molto affascinati dalla notevolissima personalità del papa ma poco interessati, proprio perché non cattolici, alla riforma della Chiesa, non rendono un buon servizio né a Francesco né, soprattutto, alla Chiesa, che di riforme ha un bisogno urgente. Io preferisco la vigilanza critica: del resto, gli amici più sinceri non sono forse coloro che prediligono l’incalzare con sollecitudine alla facile adulazione?

Insomma, restiamo in vigile attesa. Osservando al tempo stesso con preoccupazione il crescere, soprattutto sotterraneo, e quindi più infido, dell’opposizione interna (curiale ed episcopale, ma anche popolare) a qualunque progetto riformatore (quel che emerge quotidianamente su giornali di destra come il Foglio è una parte minima dei mal di pancia che l’eventualità delle riforme sta scatenando). Proprio per questo, per l’ampiezza delle resistenze, per la vastità del fronte conservatore, i riformatori hanno bisogno non solo di un nuovo stile papale, ma di decisioni straordinarie ed epocali. All’altezza dei tempi e prese con ragionevole rapidità.

Perché il passare dei mesi gioca a favore dei conservatori, che sono in numero larghissimo dentro la Chiesa e tanti tra i vescovi nominati da Wojtyla e da Ratzinger. Costoro sono in attesa che la ventata di aria nuova che il papato di Francesco rappresenta si esaurisca, che si riveli infine effimera e transitoria. Per questo ci vogliono decisione grandiose, come fu quella giovannea di indire, appena eletto papa, un Concilio per la Chiesa cattolica.