Poker di papi

Fulvio Ferrario
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Tra le «imprecisioni», chiamiamole così, circolate in questi giorni, spiccano quelle di un prestigioso autore di bestseller religiosi, il quale spiega su un quotidiano che la «santità» sarebbe espressione della «comunione ontologica» tra il divino e l’umano, in quanto i «discepoli migliori da semplici uomini giungono alla possibilità di partecipare alla condizione divina»: insomma, sono immagine di Dio più degli altri. Ciò esprimerebbe un’alta considerazione dell’umano, caratteristica dell’ortodossia e del cattolicesimo, mentre il protestantesimo, con la sua antropologia pessimista, nega la possibilità per l’essere umano di conseguire una «natura pienamente riconciliata».

Anziché lanciarsi in rettifiche elementari, ma forse un poco pedanti in questa sede, può essere utile ribadire che la fede cristiana, e dunque anche quella evangelica, ha un decisivo bisogno di testimoni. È vero, infatti, che lui solo è il Santo (lo ripete anche la liturgia cattolica), lui solo è buono, uno solo è il Maestro e, se è per questo, anche il Buon Pastore; ma è anche vero che tutti e tutte abbiamo bisogno di esempi che mostrino, anche (e proprio: benché all’editorialista non piaccia il «simultaneamente giusto e peccatore» di Lutero) nella contraddittorietà e nel peccato che caratterizzano la condizione umana, come cambia la vita quando il messaggio evangelico è vissuto come se fosse vero. Nelle epistole del Nuovo Testamento, la categoria di «imitazione» di Gesù (e anche dell’apostolo: I Cor. 4, 16; 11, 1 e altrove) corrisponde a quanto nei primi tre evangeli è espresso dal vocabolario del «seguire Gesù». Esistono un seguire e un imitare che possono essere fonte di ispirazione per molti.

Nella Bibbia, naturalmente, «santi» sono i credenti in quanto tali: tra essi, tuttavia, alcuni e alcune vivono la santificazione, appunto, in termini particolarmente significativi. Un esempio, assai noto: il film Uomini e dei (titolo storpiato, nella lettera e nello spirito, dall’italiano Uomini di Dio), che racconta la vicenda dei monaci di Tibhirine, uccisi (non è chiaro da chi) nel 1996, è, nella sua laica sobrietà, uno splendido esempio di agiografia, cioè, alla lettera, di discorso sulla santità, che mi fa venire una gran voglia di provare a essere cristiano, senza necessariamente farmi monaco né andare sulle montagne dell’Atlante. È superfluo precisare che tutto ciò non richiede una certificazione ecclesiastica; e che non ha nulla a che vedere con qualcosa come un «culto dei santi»: anzi, il testimone è tale precisamente in quanto rinvia ad altro, in questo caso a un Altro.

Sussiste un legame tra questo tema e quanto avvenuto in piazza S. Pietro, domenica 27 aprile? Secondo il papa in carica sì, in quanto i due nuovi «santi»: «hanno guardato le ferite di Gesù»; erano «pieni di parresia [franchezza nella testimonianza] dello Spirito santo»; «hanno dato alla chiesa e al mondo testimonianza di Dio e della sua misericordia»; «hanno collaborato con lo Spirito santo per ripristinare e aggiornare la chiesa secondo la sua fisionomia originaria». Non ho alcun titolo per commentare la valutazione delle persone, né l’associazione delle due figure. Quanto ai criteri elencati (compreso, sia detto come prevenzione di orticarie pseudoprotestanti, quello della «collaborazione»: Paolo lo riferisce agli apostoli, I Cor. 3, 9; II Cor. 6, 1), non è possibile dissentire: si applicherebbero assai bene ai Riformatori.

La comunicazione di massa, tuttavia, ha le sue regole e Roma le utilizza con disinvoltura. Le parole cedono il posto alla nitidissima immagine: la chiesa cattolica cala un poker di papi, due in carne e ossa e due elevati, come dicono, «alla gloria degli altari». Il tripudio del «popolo di Dio» e l’ossequio dei potenti sono indirizzati, nei fatti, a un papato che celebra se stesso. Impossibile, almeno a me, reprimere un borbottio protestante un poco spazientito ma, detto questo, non mi scandalizzo. Il papato è un centro di potere ed è tale anche perché sa accendere i riflettori su di sé: una rivista di «geopolitica» (più o meno la disciplina che una volta si chiamava «strategia») dedica un numero al mite Francesco, inteso come Bergoglio; e domenica 27, nella chiesa valdese di piazza Cavour, meno popolata del solito (non era facile circolare a Roma), mi tornava in mente l’«Andreotti-pensiero»: il potere logora chi non ce l’ha. Resta il fatto che i quattro criteri menzionati da Bergoglio hanno tutti direttamente a che fare con uno che è stato non solo logorato, ma torturato e ucciso dal potere che non aveva: al quale anzi, secondo Fil. 2, 6-11, aveva consapevolmente rinunciato. Pia ma magra consolazione, dirà qualcuno, a fronte del potere reale ed esibito. Un pensiero, ripeto, che non mi è estraneo, ma assai poco «santo». Meglio, allora, spegnere il telegiornale e rivedere Uomini e dei.