«Accogliere un’altra vita nel mezzo di questa»: come dire Dio in un mondo secolarizzato

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 19 del 24/05/2014

Se la parola “Dio”, così come la intende il monoteismo, veicola una visione totalizzante della realtà, esprimendo un’organizzazione della società in senso gerarchico e verticale, neppure l’ateismo ha saputo aprire «un’era di maggiore libertà», come ha dimostrato eloquentemente il sorgere dei totalitarismi. Finché, oggi, «il regno dell’Uno ha raggiunto dimensioni senza precedenti», considerando che «una sola cultura tende a diffondersi da un capo all’altro del pianeta. Le stesse canzoni salgono alla bocca di tutti, in un’unica lingua, gli stessi film sono proiettati in ogni città, gli stessi prodotti di consumo compaiono in ogni negozio del mondo. Un solo modello di scambio regola i rapporti tra le persone e i popoli: quello del denaro».

Da qui prende le mosse Michel Jondot, prete della diocesi di Nanterre e animatore del gruppo francese di riflessione “Dieu maintenant”, per chiedersi se, di fronte ai danni tanto del monoteismo come dell’ateismo, abbia «ancora senso, ai nostri tempi, dire “Credo in un solo Dio”?». Se sia possibile, cioè, per un cristiano, «pronunciare la parola “Dio” in una società secolarizzata tenendo conto della storia in corso». Un interrogativo a cui Jondot risponde affermativamente, ma «nella misura in cui terremo fermi i termini con cui, nel 451, il Concilio di Calcedonia definiva l’Incarnazione». In Gesù, spiega il prete francese, «c’è una distinzione tra umanità e divinità, ma è chiaro che l’Uno non c’è senza l’altro».

Che «l’esterno del mondo è nel mondo senza essere del mondo». Cosicché «la parola “Dio” pronunciata in verità apre non su un altro mondo, ma su un mondo altro che bisogna inventare senza sosta». Di seguito, in una nostra traduzione dal francese, alcuni stralci dell’intervento di Jondot, tenuto a un seminario promosso nel quadro del Collège international de philosophie (un’associazione riconosciuta come organismo di ricerca dai Ministeri della Ricerca e della Finanza francesi) sul tema “Le théologico-politique: Orient et Occident”) e pubblicato sul sito di Dieu maintenant (www.dieumaintenant.com/democratieettheologie.html).

Democrazia e teologia

Michel Jondot

1. AL DI LÀ DI MONOTEISMO E ATEISMO

Il desiderio di democrazia innescato dalla “Primavera araba” deve tradursi in società rette dalla sharia? Sbarazzarsi del potere di un dittatore per sottomettersi alla volontà immutabile di un Dio unico non equivale ad affondare tra Scilla e Cariddi? L’ingresso nella democrazia è compatibile con il fatto di invocare “Dio”?

I cattolici hanno dovuto anch’essi affrontare la questione. Ci sono voluti quasi due secoli perché la Chiesa, nel 1965, in una Dichiarazione conciliare, esprimesse chiaramente il suo accordo con la democrazia. L’affermazione irritò qualcuno. Un famoso teologo, Louis Bouyer, parlò di «decomposizione del cristianesimo» e dichiarò: «Dio, evidentemente, è diventato il vocabolo più svuotato di senso che ci sia».

C’era modo di connettersi con la società moderna inventando una nuova maniera di affermare la relazione di Dio con il mondo? (…). La primavera araba, mezzo secolo dopo l’apertura del Vaticano II, fornisce forse l’occasione per interrogarsi sull’importanza della parola Dio – e del monoteismo – nel cuore di una società secolarizzata.

Monoteismo e totalitarismo

Il monoteismo è nato dalla congiunzione di due universi (…): quello ebraico e quello greco. Il primo derivava dalla predicazione dei profeti biblici che lottavano contro il culto degli idoli e aprivano i cuori a una realtà inaccessibile alla ragione, il cui nome era impronunciabile ma che la fede tentava di afferrare. All’incirca nello stesso periodo, la filosofia greca perveniva a considerare come divino il principio trascendente a partire dal quale l’insieme della vita del cosmo e del mondo umano trovava la sua spiegazione. La storia dimostra che il ricorso a questa “causa prima” e sacra si è accompagnato a una visione gerarchica e totalitaria. In effetti, l’imperatore romano Costantino, convertendosi al cristianesimo, dava a questa visione filosofica una dimensione politica. (…).

Il Dio Uno, regnando sull’insieme del mondo, si rifletteva nell’organizzazione della società cristiana, erede dell’organizzazione romana. Il rapporto di dominio del Pantocrator con il cosmo si ritrovava nella relazione tra gli esseri umani: monoteismo e monarchia hanno la stessa radice. L’imperatore o il re rappresentavano Dio sulla terra. Così come l’imperatore romano si sforzava di estendere il suo regno sul mondo, i fedeli del Dio cristiano dovevano diffondere, fino alla fine del mondo e della storia, la regalità di Cristo: la missione della Chiesa consisteva nel fare in modo che l’umanità fosse una e che la ragione dei greci si alleasse alla verità trasmessa dalla Rivelazione. (…).

Il secolo detto “dei lumi” ha spezzato questa visione. Kant ha separato i poteri della ragione da quelli della rivelazione. (…). La critica della ragion pura apriva all’intelligenza un campo separato da quello della verità inaccessibile. (…).

L’ateismo che covava in Europa come fuoco sotto la cenere levava alta e forte la sua voce. Il 21 gennaio 1793, mentre cadeva la testa di Luigi XVI, il re cristianissimo, tanti erano coloro che pensavano che l’umanità, sbarazzatasi dell’influenza di Dio su cui si fondava il potere del monarca, fosse libera.

Alle relazioni di subordinazione tra i soggetti sarebbero seguiti, con l’avvento della democrazia, rapporti nuovi: uomini e donne non sarebbero più stati sudditi ma cittadini, essendo così che la natura li aveva creati, “liberi e uguali in diritti”: «Liberté, égalité, fraternité!».

Ateismo e totalitarismo

In realtà, ateismo e monoteismo sembrano funzionare allo stesso modo. L’eliminazione di Dio dalla dimensione del potere non ha aperto un’era di maggiore libertà. La tendenza a porre la società umana sotto il segno dell’Uno ha cambiato soltanto regime. L’epopea napoleonica, per esempio, cercava di imporre all’Europa tutta il sistema politico della “volontà generale” cui si erano appellati i rivoluzionari (…). All’assolutismo implicito nel riferimento a un Dio unico segue ben presto quello che è stato battezzato «il sorgere dei totalitarismi», analizzato da Hannah Arendt. La società industriale ha fatto nascere, anziché cittadini, «una massa umana, la plebaglia». (…).

Oggi, malgrado le belle dichiarazioni dei diritti umani scaturite dalla seconda guerra mondiale, il regno dell’Uno ha raggiunto dimensioni senza precedenti. Una sola cultura tende a diffondersi da un capo all’altro del pianeta. Le stesse canzoni salgono alla bocca di tutti, in una lingua unica, gli stessi film sono proiettati in ogni città, gli stessi prodotti di consumo compaiono in ogni negozio del mondo. Un solo modello di scambio regola i rapporti tra le persone e i popoli: quello del denaro. Riducendo tutto al valore di mercato, siamo ugualmente bloccati in un universo chiuso: tutti chiusi in un sistema monetario unico.

Ma la questione che ci interessa prende una nuova piega. Di fronte ai danni del monoteismo come dell’ateismo, ha ancora senso, ai nostri tempi, dire “Credo in un solo Dio”?

2. L’ANTROPOLOGIA DEL VATICANO II

(…). È bene riconoscere i limiti del Vaticano II. Nei suoi testi più importanti si è rivelato incapace di pensare la relazione all’interno della Chiesa in termini diversi dal dominio.

Questo è particolarmente chiaro nella Costituzione sulla Chiesa (Lumen Gentium), la quale è presentata come un polo attorno al quale si estendono cerchi concentrici di esseri umani, tanto più degni di considerazione quanto più la verità che esprimono si ritrova all’interno della Chiesa. I più vicini sono gli ortodossi: condividono i nostri principali dogmi, in particolare quelli che riguardano la gerarchia e i sacramenti. Seguono i protestanti, che riconoscono, come noi, le Scritture. Gli ebrei, che si fondano sull’Antico Testamento, vengono prima dei musulmani, i quali venerano anch’essi il Dio unico. Tutte le religioni del mondo sono evocate prima che sia reso omaggio al resto dell’umanità.La Dichiarazione sulle religioni non cristiane (Nostra Aetate) esprime la stessa visione. Le differenti religioni non sono considerate seriamente che in funzione della loro somiglianza con il cattolicesimo e per il grado di verità delle loro affermazioni misurato alla luce della Rivelazione cristiana. (…).

Di fronte al Concilio: «Una democrazia a venire»

Gli avvenimenti del nostro secolo illustrano purtroppo alla perfezione il pericolo di questa visione “unaria” che la Chiesa conciliare, malgrado la sua buona volontà, continua a veicolare. Società e nazioni, che siano monoteiste o meno, funzionano in base a questo modello: per esempio, la potenza statunitense estende la sua cultura su scala planetaria. (…).

Di fronte a questa impresa globalizzatrice che non solo oppone i sistemi religiosi ai sistemi atei ma separa Oriente e Occidente, un intellettuale algerino, Mustapha Chérif, interrogava ad Algeri, poco prima della sua morte, il filosofo Jacques Derrida. L’accademico musulmano rimproverava all’Occidente la sua chiusura in un sistema mercantile e razionalista che, ai suoi occhi, screditava l’idea di democrazia. (…). Perché l’Occidente, attraverso le sue prodezze razionaliste, non è riuscito a far altro che a disumanizzare il pianeta? Rivendicando il diritto dei popoli musulmani alla parola, l’accademico poneva una domanda: «Dove sono dunque la democrazia universale e il dialogo, di cui tanto ci si riempie la bocca?».

Derrida prese la palla al balzo di fronte all’espressione “democrazia universale”. (…). La democrazia, secondo Derrida, non può essere rinchiusa in una definizione. «È modello senza modello». Lungi dalla perfezione, la democrazia è in fieri e lo sarà costantemente. (…). «(…) La democrazia è sempre a venire, è una promessa in nome della quale si può sempre mettere in discussione ciò che si presenta come “la democrazia”, il cui avvento resta davanti a noi».

Questo faccia a faccia di due uomini appartenenti a insiemi umani definiti e distinti (…) evoca il testo della Lettera ai Galati (3,23). (…). Tra il tempo della Legge e il tempo della fede si apre un tempo nuovo: al di là della mancata circoncisione che caratterizza il pagano e della circoncisione che definisce l’ebreo, nel passaggio dall’uno all’altro in cui Paolo colloca l’ingresso nella fede cristiana, l’apostolo canta la novità dei tempi a venire, i quali si annunciano – per riprendere l’espressione di Derrida – come «un modello senza modello». «Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura» (Gal 6,15).

3. LA PAROLA DELL’INIZIO

(…). Cercare il senso fermandosi alla realtà accessibile all’intelligenza (…): questo è stato il sogno degli intellettuali del secolo dei Lumi. La storia ha mostrato che si illudevano. Prima della definitiva secolarizzazione delle società, Pascal aveva capito che «l’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un infinità di cose che la superano». Più o meno nella stessa epoca, in modo meno metafisico, La Fontaine sosteneva che la migliore delle ragioni è sempre quella del più forte. La storia, in effetti, eliminando Dio, ha moltiplicato i totalitarismi e aumentato in modo demoniaco «il lugubre gregge dei morti». Il Concilio ha tentato di aprire una breccia all’interno di un’umanità incapace, malgrado le sue rivoluzioni, di sfuggire alla volontà di creare un mondo «globalizzato», sul modello dell’Uno. Ci è sembrato però che la Chiesa del Vaticano II non abbia trovato questo «modello senza modello» che avrebbe permesso, per riprendere la parola di Paolo, l’avvento di «una nuova creatura».

Questa parola «creatura» offre spunti al credente che, in un mondo siffatto, vuole restare tale. I filosofi e i teologi hanno a lungo riflettuto sul concetto di creazione e vi hanno aggiunto l’espressione «ex nihilo». L’espressione era misteriosa (…): come immaginare un nulla a partire dal quale le cose possono nascere senza che queste siano opera di un essere esistente? (…). Oggi il pensiero non è più (…) chiuso nell’alternativa “Essere” o “Non essere” (…). Non si è necessariamente atei dicendo che Dio “non esiste”. Al di là di essere o non essere, il vocabolario religioso propone la parola “creare”.

(…). Come dire «Dio» al di là dell’essere? Giovanni, sin alle prime parole del suo Vangelo, ci offre un aiuto. «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».

È difficile parlare del Creatore. Al di là dell’esistenza, e comunque in contraddizione con il nulla, come trovare un luogo per designarlo? Dov’è questa parola creatrice? Nello stesso tempo in cui è Dio, se leggiamo bene, è altro da Lui, accanto a Lui. (…). L’Uno non può essere raggiunto senza l’Altro, quale che sia il suo nome o il suo volto (…). Non si può, in verità, dire «Dio è Uno». Dire «Dio» è riconoscere il passaggio incessante dall’Uno all’Altro.

Queste parole di Giovanni permettono di leggere il testo della creazione, nelle prime pagine della Bibbia. In realtà, il passo della Genesi, parlando della creazione, non fa che mettere in scena la parola. La parola sgorga, introducendo la distinzione nel tempo e nello spazio.

Chi è che parla? Il libro della Genesi ha difficoltà a designare la fonte: quattro lettere impronunciabili (IHWH) rinviano a una fonte che nessuna parola può designare e che nessuna bocca può pronunciare. Si ha quasi voglia di dire «non ha importanza chi parla!»: l’importante è riconoscere che «parla». Le parole si succedono e, mentre si allineano, il lettore scopre che distinguono e che l’universo acquista senso. Il giorno non è la notte, l’alto non è il basso, gli uccelli del cielo non sono i pesci del mare e le piante che crescono suppongono una terra ferma che non può essere confusa con l’oceano. Le parole distinguono anche i tempi. I giorni si susseguono ma le parole che li designano impediscono di confonderli; e l’ultimo della settimana ha un posto talmente particolare, lo shabbat, da indurre l’ebreo a viverlo nella pietà.

(…). Colui per il quale pronunciare la parola «Dio» significa riconoscere la creazione all’opera – detta anche apertura al futuro – si unisce a tutti coloro che sperano in un mondo altro, chiamando coloro che lo circondano a una fraternità che fa del presente la frontiera da superare affinché la vita sorga sempre nuova. Se c’è un senso a invocare «Dio» in questo contesto, non è per designare un Essere Supremo, ma per salutare il legame che ci unisce e ci spinge «verso il silenzio eterno degli spazi infiniti» che abitano il futuro affinché la parola degli inizi lo raggiunga.

4. NON C’È L’UNO SENZA L’ALTRO

(…) Quando si pronuncia la parola «Dio» si oppongono abitualmente due universi: quello qui in basso e quello lì in alto, quello dell’ora e quello dell’eternità che verrà dopo il tempo della storia. Lo scarto tra ciò che noi viviamo qui e ora e il mondo dei cieli eterni è incommensurabile.

(…). In realtà, da qui in basso a lì in alto, la distanza abissale è quella che separa ognuno dall’altro, soprattutto da colui che soffre: «Ogni volta che avete dato da mangiare a colui che aveva fame, è a me che l’avete fatto». (…).

È possibile, per un cristiano, pronunciare la parola «Dio» in una società secolarizzata tenendo conto della storia in corso? È questa la nostra domanda. Siamo capaci di rispondere?

È possibile farlo nella misura in cui terremo fermi i termini con cui, nel 451, il Concilio di Calcedonia definiva l’Incarnazione. In Gesù c’è una distinzione tra umanità e divinità, ma è chiaro che «l’Uno non c’è senza l’altro». (…). Così, per riprendere i termini di J.L. Nancy, «l’esterno del mondo è nel mondo senza essere del mondo». Così la parola «Dio» pronunciata in verità apre non su un altro mondo, ma su un mondo altro che bisogna inventare senza sosta. (…).

5. FEDE CRISTIANA E MONOTEISMO MUSULMANO

(…). L’altro dal cristiano, in Occidente, per un po’ più di mezzo secolo, era ateo. Oggi l’altro dal cristiano, il musulmano, in Francia come nel mondo, è un essere umano più religioso di lui. L’incontro del monoteismo musulmano e della fede cristiana (…) obbliga a riprendere in termini nuovi la domanda di partenza. Per quanto secolarizzata sia, la società pone gli uni di fronte agli altri credenti musulmani e credenti cristiani. Tra loro, come può funzionare la parola «Dio» legata all’atto di credere? (…).

Di certo, il Vaticano II non basta. Le verità alle quali aderisce il nostro amico musulmano non sono degne di stima che nella misura in cui sono le stesse nostre? Il testo della Nostra Aetate che abbiamo evocato non può aiutarci a vivere nel rispetto dei nostri vicini musulmani. In compenso, in seguito al malinteso di Ratisbona, 138 intellettuali musulmani hanno prodotto un testo profetico in cui affermavano di voler trovare «una parola comune». Questa comunicazione tra due insiemi umani distinti non sarebbe proprio la «verità» che cerchiamo e che permette di costruire la città nuova pluralista che siamo chiamati a creare? (…).

«Un’altra vita nel mezzo di questa»

A mo’ di conclusione, vorrei riprendessimo (…) le riflessioni del filosofo Jean-Luc Nancy a cui abbiamo fatto riferimento. Si tratta di «andare oltre l’invenzione di questa civiltà mondializzata, forse perduta, forse a fine corsa, ma forse capace di un’altra avventura. E questa invenzione è quella di un mondo senza Dio – senza garanzia di senso – ma senza desiderio di morte. Senza dubbio ciò significa anche: senza Cristo e senza Socrate. Ma con ciò che sta alla base di Socrate e di Cristo, più potente di loro: (…) la forza e la tenerezza di cui c’è bisogno per accogliere un’altra vita nel mezzo di questa».

Da un certo lato, sottoscriviamo queste parole. Il Dio Uno dei monoteisti ha generato l’universo mondializzato. Se deve esserci un futuro per questo mondo, se è «capace di un’altra avventura», sarà un mondo senza Dio. È bene precisare che l’espressione «senza Dio» non può, ai nostri occhi, designare l’ateismo che ha generato il secolo dei Lumi! Ci sembra, credenti come siamo, che, spogliando Dio dell’essere immaginario con cui lo abbiamo rivestito, non ci poniamo comunque nel campo degli atei. In realtà sperimentiamo la forza legata a questa parola nel passaggio da questo mondo a un altro (…). . Quanto alla forza «che sta alla base di Socrate e di Cristo», non è forse questo vuoto sbucato sul cammino che l’uno e l’altro hanno aperto, il non luogo della creazione senza il quale niente sarebbe?