Meic a convegno: “Chiesa povera, Chiesa per i poveri”

Antonello Ronca e Simona Borello
Adista Segni nuovi n. 20/2014

Superiore alle aspettative la partecipazione al convegno interregionale organizzato dalle delegazioni regionali di Lombardia, Piemonte e Liguria del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (Meic) dal titolo «Chiesa povera. Chiesa per i poveri» presso l’abbazia cistercense di Santa Maria di Rivalta Scrivia (Tortona), sabato 10 maggio. Il convegno si inserisce nel Progetto “Concilio” promosso dal Meic per indagare quanto la storia dell’umanità e della comunità cristiana di questi ultimi decenni sia debitrice agli insegnamenti conciliari, per cercare insieme quali vie si aprono all’annuncio del Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo, per avviare una “lettura sapienziale” della situazione del nostro Paese, senza indulgere a sterili catastrofismi, ma cercando segni di speranza come il Concilio Vaticano II ha insegnato.

Il convegno è stata un’occasione per commemorare don Pino Scabini, profetico assistente spirituale del Meic, nel quinto anniversario della sua morte, proprio con uno dei temi a lui più cari.

La giornata ha avuto due importanti momenti tematici: le relazioni teologiche di Enzo Bianchi e Cettina Militello su “I fondamenti nella Parola e nella teologia” e un’animata tavola rotonda che ha visto la partecipazione di Armido Rizzi, Giuseppe Gario, Roberto Bernasconi dal titolo “Cambiare la Chiesa, cambiare la società”, nella quale sono emersi molti spunti anche pratici per instaurare prassi ecclesiali più povere e consapevoli.

Proprio le relazioni teologiche sono state il cuore portante del convegno, offrendo un impianto biblico e teologico molto accurato, indispensabile per pensare azioni pastorali significative.

Bianchi ha parlato di “Vangelo e povertà”, un tema molto sentito nel Concilio e nel primo post-concilio, poi dimenticato e oggi nuovamente centrale nel magistero di papa Francesco (è stata una delle sue prime affermazioni: «Vorrei una Chiesa povera e per i poveri»). Bianchi ha distinto tre tipi di povertà: antropologica, materiale, interiore. La povertà antropologica è la caratteristica della condizione umana: nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. Siamo bisognosi degli altri e dell’Altro, costantemente tentati di sfuggire e di rimuovere questa povertà elaborando strategie per sottrarci a essa. La povertà materiale è un astratto: si deve invece parlare dei poveri, delle persone che sono nell’indigenza e che mancano dei beni essenziali (non solo cose, ma anche libertà, riconoscimento, giustizia). Si riconoscono i poveri solo quando li si incontra nell’ascolto dei loro bisogni, nella capacità di sentirsi responsabili nei loro confronti, nella possibilità di dare loro riconoscimento. La povertà interiore (e forse spirituale) è il distacco dai beni, dalle ricchezze, dal successo, dal potere. È una povertà che sente una mancanza e si affida al Signore per essere colmata dalla sua presenza. È quella che intravedere Matteo nelle sue beatitudini – beati i poveri nello spirito, coloro che hanno il respiro del povero – ed è la condizione di quelli che sono fedeli al Signore e attendono tutto da lui.

Bianchi ritiene che non si tratta di parlare della povertà in termini “romantici”, quando piuttosto in termini teologici. La povertà è, infatti, un tema cristologico: non si può dare identità a Gesù Cristo senza povertà. Non è un caso se Paolo sintetizza il mistero dell’incarnazione come una discesa dalla ricchezza alla povertà (2Cor). Quello che sappiamo della vita di Gesù ci porta a dire che lui non è mai stato indigente, ma che ha condotto una vita itinerante, semplice e sobria, sostenuta dai discepoli che continuarono a lavorare e dall’accoglienza di amici e simpatizzanti. La povertà di Gesù è quella di un essere umano come noi, di un povero tra i poveri, di un Messia al contrario (nella forma dello schiavo e non del signore, cfr. Is 53). Questo è il profondo significato della sua kenosis: il rifiuto delle tentazioni (messianiche), anche di ciò che avrebbe aiutato la stessa missione.

Si deve inoltre ricordare come tutti i Vangeli ci testimonino l’attenzione di Gesù nei confronti dei poveri, visti come i primi destinatari dell’annuncio perché si trovano in una situazione più propizia per accogliere il Regno di Dio: attendono di essere liberati dalla loro condizione di bisogno e sono più disposti ad accogliere la predicazione di Gesù. Gesù non promette ai poveri di diventare ricchi, ma garantisce che la loro sofferenza ha un termine e svela che per loro è più facile accogliere il Signore che non i ricchi. Se il Signore preferisce i poveri è perché hanno desiderio di cambiare, mentre chi è ricco non vuole cambiare e non ha desiderio di condivisione. È necessaria la conversione perché vi sia una certa equità e perché possiamo essere accolti nel Regno, il cui giudizio arriva ogni giorno nella capacità dei discepoli e della comunità cristiana di conformare il proprio stile a quello di Gesù. È sulla povertà, in sintesi, che la Chiesa gioca la sua fedeltà al Signore.

Anche la relazione di Cettina Militello, “La lezione del Concilio”, è iniziata con un cenno a papa Francesco, in riferimento alla sua provenienza da quella parte del mondo che è caratterizzata da rapporti economici sbilanciati e povertà generalizzata. Questo non ha potuto non ispirargli la necessità di operatività creativa e concreta da punto di vista della prassi. Il tema della povertà, che già aveva interpellato il Concilio 50 anni fa, ritorna insomma di grande attualità, non solo perché è persistente nei cristiani la nostalgia della condivisione raccontata nel capitolo 2 di Atti ma soprattutto perché è uno scandalo che cresce a dismisura e che per molto tempo non ha avuto l’attenzione della Chiesa.

Militello ha ripercorso la presenza del tema della povertà nei discorsi dei Padri conciliari, soffermandosi soprattutto sul discorso di Lercaro del 6 dicembre 1962, a conclusione della prima sessione conciliare. Non possiamo coglierlo se non nel travaglio Chiesa-modernità dell’ultimo periodo che precede al Concilio: è posto il problema della situazione ingiusta in cui si trova il mondo del lavoro, con i suoi drammi, e la Chiesa. In questo contesto il problema di fondo è il modo di leggere la sfida della povertà, se farne un tema tra tanti o quello su cui riaggregare l’intera esperienza ecclesiale. Per Lercaro non vi erano dubbi, il tema della Chiesa dei poveri è principio chiarificatore e di sintesi: il mistero di Cristo nei poveri e l’annuncio del Vangelo dei poveri è da mettere al centro della riflessione del Concilio. Militello ha ricordato come quest’attenzione alla povertà continuasse anche nei gruppi informali, come dimostrano l’esperienza del “gruppo del collegio belga” e il “Patto delle catacombe”. E come fosse stata sottolineata da un importante gesto di Paolo VI di cui non si colse appieno la portata: la deposizione della tiara e la decisione di dare il ricavato della vendita ai poveri fu il simbolo della fine della Chiesa costantiniana e del riconoscersi nella kenosis di Cristo.

L’attenzione al tema della povertà si è tradotta anche nei documenti conciliari, come si vede, per fare un solo esempio, in Lumen Gentium n. 8,3. Se anche l’istanza della povertà non viene accolta con radicalità, vi è un’eco potente del legame tra la povertà di Cristo e la povertà della Chiesa. Non si tratta di una condizione sociologica, quanto di un orizzonte all’interno del quale leggere il proprio limite esistenziale e stabilire rapporti con il deficit creaturale che contraddistingue la condizione umana. Ecco il discorso della radice cristologica come modello kenotico, è modello che evolve nel servizio altrimenti è salvezza del singolo e non della Chiesa nella sua globalità. Non a caso Congar parlò di «Chiesa serva e povera». Bisogna anche mettere in evidenza che qui c’è una concessione («quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani») che fa emergere le due linee dialettiche presenti al Concilio. Il testo è prudente e porta a omettere la memoria del giudizio e, dunque, della beatitudine.

Militello non ha mancato di sottolineare come queste tematiche siano state ai margini della riflessione ecclesiale nel post-concilio, con la sola eccezione della Teologia della Liberazione e della relativa opzione per i poveri.

Il convegno ha permesso di delineare con lucidità la situazione della Chiesa contemporanea, sulla soglia di un cambiamento complesso e inevitabile. È l’istanza della continua necessità di riforma della Chiesa, assumendo le parole di papa Giovanni, che, se è stata sospesa negli ultimi trent’anni, ci richiama oggi a riprendere i cammini interrotti e a rimettere al centro l’annuncio ai poveri e, allo stesso tempo, ad atti concreti di solidarietà per poter accogliere il Regno di Dio.

Questa è l’ispirazione che il Meic porterà avanti nel suo cammino di riflessione verso la celebrazione della sua XII assemblea nazionale che si terrà a Roma dal 24 al 26 ottobre.