Questo papa in Terra Santa

Massimo Faggioli
www.rivistailmulino.it

Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un
test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica
contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).

Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna
di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla
“revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora
riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che
papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni).

Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002).

Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche
scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali
notoriamente antisemita, e contribuiva ad condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le
aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto
cattolico tedesco) andarono deluse.

In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un
passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e
condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium
per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a
interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto
Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno
di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica.

Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali.

Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore
italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa
colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di
questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea.

Dall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal
punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo
rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano,
sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine
storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria
presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche
un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle
scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco
e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.

Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di
Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva
dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano
in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a
rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con
di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”,
rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante
ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di
fronte alla questione israelo-palestinese.

Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi
“politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a
un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013;
la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il
pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica
del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in
termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti
rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi
despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo
di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di
seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.

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Gli ostacoli rimossi

Enzo Bianchi
La Stampa, 27 maggio 2014

L’incontro tra il successore di Pietro e quello di Andrea avviene all’esterno della basilica del Santo
Sepolcro: papa Francesco appare visibilmente commosso.

Lo sguardo assorto e intenso che sempre contraddistingue il suo stare in preghiera silenziosa lascia
trasparire qualcosa tra lo stupore e la convinzione di aver desiderato e di accingersi a compiere ciò
che il Vangelo gli chiedeva di compiere. Prima dell’abbraccio liberatore al patriarca Bartholomeos
di fronte al mondo intero c’era stata la firma della dichiarazione comune e un incontro più riservato,
c’era stato l’assaporare la gioia di ritrovarsi con un fratello nella fede e nel ministero primaziale con
il quale si condividono attese e speranze.

Ora si tratta di entrare insieme là dove tutto ha avuto inizio, attorno a un sepolcro vuoto; ora è il momento di esprimere a voce alta e di fronte a tutti quello che finora era rimasto sulla carta di un’enciclica – la Ut unum sint di Giovanni Paolo II – decisiva ma poco recepita: la ferma volontà di «mantenere un dialogo con tutti i fratelli in Cristo per trovare una forma di esercizio del ministero proprio del vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra a una situazione nuova e possa essere, nel contesto attuale, un servizio di amore e di comunione riconosciuto da tutti».

Ed è là, in quei pochi metri quadri in cui è racchiusa la memoria dell’intera storia di salvezza confessata dai cristiani che papa Francesco manifesta la convinzione rocciosa di chi compie gesti e pronuncia parole in obbedienza al vangelo e a nient’altro.

È la stessa radicalità evangelica che ritroviamo sui luoghi più tragicamente significativi del dialogo
con il mondo ebraico: il Muro occidentale, dove papa Francesco rinnova il gesto di infilare tra le
pietre il biglietto con una preghiera che solo l’orante e il suo Signore conoscono, e a Yad Vashem, il
memoriale delle vittime della shoah. Lì il papa pronuncia una meditazione-preghiera di
straordinaria intelligenza spirituale, ribaltando la domanda angosciante di quanti di fronte al
genocidio degli ebrei sono stati e sono tentati di chiedersi «Dio, dove sei?». Il grido ripetuto del
vescovo di Roma è invece quello stesso di Dio nella Genesi: «Adamo, dove sei? Uomo, dove sei?».

Questo è l’interrogativo decisivo che dobbiamo porci nella memoria di un tale abisso di male!
Perché nei molti genocidi che abbiamo conosciuto nel XX secolo – in Armenia, ma anche in
Ruanda e Burundi, in Cambogia, nella ex Jugoslavia… – e soprattutto nello sterminio del popolo di
Israele è la nostra umanità che si è resa mostruosa, bestiale, incapace di riconoscersi, stravolta in
una violenza inimmaginabile, in un delirio di malvagità di inaudito orrore.

Da questa consapevolezza sgorgano le parole della preghiera di papa Francesco in quel luogo «della memoria e del nome», ispirate dalla supplica del profeta Baruc: «A te, Signore, la giustizia, a noi il disonore e la vergogna!», parole che poi riprendono la confessione dei peccati celebrata in San Pietro durante il Giubileo: «Mai più, Signore, mai più!». È il rinnovarsi di un impegno che i cristiani assumono di fronte a Israele e all’umanità intera: «mai più!» una tale eclissi dell’immagine e somiglianza di Dio impressa nell’essere umano.

Questo rifiuto di imputare a Dio l’orrore compiuto dall’uomo riecheggia anche sulla spianata del
Tempio, luogo santo per i musulmani e santissimo per gli ebrei, che vi vedevano la presenza di Dio
sulla terra, la shekinah. Per la prima volta un papa vi è salito, non certo per violarne la sacralità, ma
per rivolgersi ai «fedeli musulmani, fratelli cari»; non per pregare ma per fare memoria di Abramo
padre dei credenti – ebrei, cristiani e musulmani – per confessare che di fronte al mistero di Dio
siamo tutti poveri, tutti mendicanti e quindi tutti chiamati ad amarci come fratelli e sorelle, a
discernere negli altri la sofferenza che li abita, a difendere il nome di Dio dalle strumentalizzazioni
idolatriche di quanti ne danno un’immagine violenta e perversa. Allora, lavorare per la pace e la
giustizia e farlo insieme è un dovere che discende dall’essere figli di Abramo.

Un’invocazione silenziosa alla pace e alla giustizia si era levata anche a Betlemme, di fronte al
muro di separazione costruito per dividere due mondi: papa Francesco vi ha sostato, appoggiando la
testa su quell’emblema dei tanti muri che gli uomini nel corso della storia sono stati capaci di
elevare tra se stessi e i propri simili. Nessuna protesta, nessuna accusa, ma un silenzio orante e un
semplice segno di croce, a ricordare che Cristo è venuto ad abbattere ogni muro di divisione e a
ristabilire la comunione, con Dio e tra di noi. E a ribadire che compito di un pastore cristiano è
quello di edificare ponti e non muri.

Se bilancio vi è da trarre da questi tre giorni di grande intensità spirituale, non possiamo calcolarlo
secondo parametri di efficienza mondana: ci sono gesti, parole e persone che toccano e cambiano
innanzitutto i cuori. Così a Gerusalemme non si sono prodotti «fatti» nuovi, ma lo stile diretto,
franco, evangelico di papa Francesco ha immesso un soffio rinnovato nel cammino intrapreso
cinquant’anni or sono nel dialogo della carità tra cattolici e ortodossi, ha riaffermato l’anelito alla
pace e alla giustizia, ha ribadito l’impatto della preghiera dei credenti come componente della
storia. Davvero uomini e donne di fede e di preghiera sono capaci di rimuovere ostacoli grandi
come montagne e di indicare e preparare le vie del Signore.