Una fede da mangiare

Lidia Maggi
www.riforma.it

L’inizio dell’avventura umana con Dio è segnata dal cibo. Il primo comando che la coppia primordiale riceve è un invito a nutrirsi, a mangiare di ogni frutto, a gustare quanto è buono vivere e abitare la terra: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento»  (Genesi 1, 29).

Ci ricorderemo più facilmente del divieto che segue, dimenticando che questo è parte integrante dell’offerta di cibo ricevuta. In entrambe le storie di creazione Dio invita la creatura umana a nutrirsi.

Un comando particolare che da una parte permetterà alla nuova creatura di crescere, dall’altra la aprirà al gusto, al piacere, agli aromi del mondo. Etica e felicità qui si abbracciano. Piacere e necessità possono coincidere nell’atto del mangiare.

Non basta aver dato la vita all’uomo e alla donna. È necessario dare all’umanità neonata istruzioni alimentari per suscitare consapevolezza e non subire passivamente il mondo aprendosi al desiderio. Il mangiare dice la volontà di vivere, il sì alla vita donata. Dio non si trova a dover spiegare ai suoi come camminare, come respirare; ma sul mangiare entra nel merito. L’umanità, per crescere e moltiplicarsi, ha bisogno di essere svezzata alla vita e di «imparare» a mangiare. Israele sembra avere intuito, con più lucidità di noi, che l’atto del mangiare, apparentemente così spontaneo e istintivo, richiede una scelta e dunque discernimento. È necessaria un’educazione alimentare poiché molte cose sono buone, ma alcune potrebbero far male. È importante saper riconoscere quali alimenti suscitano il piacere del vivere e quali il disgusto.

Nelle prime pagine della Scrittura, dunque, con la creazione dell’umanità e del creato, entra immediatamente in scena il tema del cibo e con esso l’eterna tensione tra etica e felicità. Può ciò che è buono, ciò che piace coincidere con ciò che fa bene?

Il cibo come verifica della fedeltà umana a Dio. Il mangiare nella Bibbia non ha solo a che vedere con la crescita e il sostentamento. È proprio sul cibo che, fin dai racconti primordiali, si verifica la fedeltà a Dio. L’ubbidienza poteva essere giocata su altre categorie come a esempio il camminare: andare e non andare, possibili colonne d’Ercole da non violare. La scelta di legare la fedeltà al cibo è tutt’altro che casuale. Essa ci testimonia che Dio accompagna l’umanità nella sua crescita, la svezza come una madre nutre il proprio bambino. Il cibo rappresenta, nel concreto, la costante attenzione divina verso l’umanità e il creato. È un modo efficace per esprimere che Egli continua a essere partecipe delle vicende umane, dopo aver creato il mondo. Non si ritira dalle sue responsabilità: offre il nutrimento, a tratti come giardino rigoglioso che produce frutti spontanei; più spesso come conseguenza del lavoro umano. Dio è presente, nutre e ha cura delle creature che ha generato. Questa confessione di fede nasce dall’esperienza. Nella fame e nella precarietà del deserto Israele imparerà a fidarsi di Dio, ad ascoltare i suoi divieti e ad affidarsi a Lui per essere nutrito e svezzato alla relazione.

Nella creazione si traduce in linguaggio universale ciò che il popolo biblico sperimenta sul piano particolare.

Israele riconosce di avere ricevuto una vocazione specifica, tuttavia sarà poi in grado di estendere questa visione benevola del divino sul destino e la vocazione di tutta l’umanità.

Israele ha imparato che per camminare nella libertà bisogna strappare dal cuore quelle catene che spesso legano proprio attraverso il ricatto della fame. Meglio rinunciare al cibo che imprigiona. Ed ecco il divieto che accompagna l’invito al nutrimento nella creazione.

Nella precarietà della libertà, Israele rimpiangerà più volte la sicurezza delle cipolle d’Egitto. E sarà tentato di «tradire» il progetto di Dio, proprio come Adamo ed Eva tradiscono nel giardino di Eden.

Nel deserto Dio donerà al popolo la sua costituzione insieme alla manna: limite e cura, il cibo necessario per crescere nella libertà.

Israele, nel suo cammino, conoscerà gli stenti e la fame; ma imparerà che il poco che ha può bastare all’intero popolo, se lo si condivide, come nel deserto venne condivisa la manna. Il comando sul cibo nella Genesi ha dietro echi di queste esperienze.

Il cibo è lo strumento necessario per camminare nella vita. L’invito a mangiare, tuttavia, senza l’accostamento al divieto e al limite, taglierebbe fuori Dio dalla vicenda umana; negherebbe la necessità della reciprocità nella relazione con Lui; e trasformerebbe la terra in un self-service. Ma, soprattutto, renderebbe soggetto l’uomo alla continua seduzione di chi lo vuole schiavo e lo imprigiona con le cipolle d’Egitto.

Il mangiare come memoria costante della scelta di Israele di appartenere a Dio. Ecco perché il mangiare per Israele non è solo necessità o piacere. Esso è memoria costante sia della sua dipendenza da Dio sia della scelta consapevole di servirlo. È proprio questa visione del cibo che permette di superare ogni possibile dicotomia tra sacro e profano e porta la fede nella sfera più ordinaria della vita quotidiana. Con il cibo ogni persona – uomo o donna, schiavo o libero, in privato e in pubblico – può esprimere la propria fedeltà a Dio e abitare una fede vissuta, celebrata nelle case, nelle famiglie, nel clan. Il rapporto tra cibo e fede rende evidente la convinzione biblica che tutta la persona è sacra.

I precetti alimentari. Sul mangiare e non mangiare Israele orienterà buona parte delle sue pratiche religiose. Ecco, dunque, perché troviamo nella Torà tutta una serie di normative legate a precetti alimentari.

È riduttivo pensare che dietro queste norme ci sia soltanto una questione alimentare, sanitaria o di superstizione religiosa. In gioco c’è molto di più. Il nostro modo laico di nutrirci può sorridere di questa modalità arcaica di manifestare la propria fedeltà ma non può evitare di interrogarsi su come noi oggi, attraverso ambiti così quotidiani, fisiologici, riusciamo a fare entrare Dio nella nostra vita.