Il volto femminile di Dio

Paola Springhetti
www.vinonuovo.it

Troppo spesso nella narrazione della storia della Salvezza e nell’immaginario della fede che proponiamo ai ragazzi il “genio femminile” non ha ancora né ruolo né peso

Maggio, mese di prime comunioni. In molte parrocchie vuol dire ancora bambine irrigidite in vestiti quasi da sposa e capelli freschi di parrucchiere, pensati per i flash. Mentre i loro amici maschi corrono allegri con abbigliamenti assai più sobri e sneaker ai piedi. Mi chiedo quanto anche nelle aule del catechismo riproponiamo modelli di genere stereotipati e perfettamente rispondenti a quelli che imperversano sui media e nella società del consumo. E quanto lo facciamo anche durante l’ora di religione a scuola, nei gruppi di adolescenti che frequentano le parrocchie e le associazioni e in tutte le occasioni in cui ci troviamo a parlare di Dio.

«Dio è papà; più ancora è madre», ha detto Giovanni Paolo I nel 1978. «Il padre misericordioso della parabola contiene in sé, trascendendoli, tutti i tratti della paternità e della maternità», ha detto Giovanni Paolo II nel 1999. Sul tema sarebbe possibile raccogliere un lungo elenco di citazioni bibliche e teologiche, ma non è questo quello che qui mi interessa. Mi interessa invece la domanda, che si pone dopo aver considerato il fatto che Dio ovviamente non ha sesso, ma che noi per parlarne abbiamo bisogno di immaginarcelo, di dargli una forma e un volto raccontabili e rappresentabili, e che in questo dargli forma inevitabilmente gli diamo anche delle connotazioni di genere. E la domanda è: quando raccontiamo Dio, ci facciamo influenzare dagli stereotipi? Sarebbe bello se, cercando di pensarlo, riuscissimo a liberarci dai nostri schemi mentali, ma così non è – o non abbastanza.

Sarà per questo che, quando parliamo di Dio, ne parliamo in termini maschili. Nella vita quotidiana, al catechismo, nell’insegnamento della religione a scuola, Dio è maschio. E da un punto di vista maschile viene raccontata ai più giovani la storia della Salvezza, con i suoi eventi e i suoi personaggi.

Il problema peraltro non riguarda solo la religione: nonostante la maggior parte degli insegnanti nelle nostre scuole sia donna (la quasi totalità in quelle di grado inferiore), il modello che in genere si ripropone alle nuove generazioni è conforme agli stereotipi: giochi di avventura e scoperta per i maschi, giochi tranquilli e di ruolo per le femmine; materie scientifiche per i maschi, materie letterarie per le femmine; accettazione del fatto che i maschi sono conflittuali, rifiuto della conflittualità delle femmine, che ci si aspetta siano “portate” per le relazioni… insomma mondo azzurro per gli uni e mondo rosa per le altre. È così anche nelle aule del catechismo?

Guardando quelle bambine nel giorno della prima comunione ho ripensato ad un libro dal titolo fulminante: “Mamma, perché Dio è maschio?” (ed. Effatà 2013). L’ha scritto Rita Torti ed è nato in occasione di un convegno organizzato dall’Ufficio Scuola della diocesi di Parma, intitolato “Ma tu la pipì come la fai? Femmine&maschi: i bambini ne parlano, noi ne parliamo ai bambini”. Quello dell’educazione e della differenza di genere è uno di quei temi su cui ormai si possono trovare contributi anche interessanti – come questo libro – ma che non sono stati ancora “rimasticati”, non abbastanza da rimettere in discussione modi di pensare e prassi consolidate nelle nostre comunità.

Per esempio dalle ricerche fatte da Rita Torti emerge chiaramente come gli stereotipi di genere entrino nelle aule del catechismo tanto quanto in quelle della scuola, e forse di più. Ma soprattutto come venga proposta una narrazione della storia della Salvezza e della vita di Gesù da un punto di vista maschile, in cui il “genio femminile” non ha ruolo né peso. Tra l’altro appiattendo una complessità che invece nella Bibbia è ben presente.

L’autrice, inoltre, ha analizzato i libri di testo per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, scoprendo che nelle immagini sono molto più presenti i bambini che le bambine, che il mondo del lavoro è maschile e non rappresenta le donne impegnate nelle professioni (solo mamme e maestre), e così via, secondo i noti stereotipi. Ma ancora più grave è il fatto che, laddove venga citato qualche personaggio che ha dato risposte alle domande di fondo sul senso della storia e della vita, siano citati solo filosofi, scienziati, medici, poeti, pittori, preti. Maschi.

E quando ad essere narrata è la Bibbia, si scopre che Eva è sempre “seconda” ad Adamo, e così si perde il messaggio che i nostri progentori erano “due” a immagine di Dio. Si scopre che personaggi biblici femminili come Sara, Rebecca, Rachele e Lia sono dimenticati completamente e così si perde il messaggio che, «secondo la Scrittura, nel progetto di Dio la promessa non si realizza in Abramo, ma in Abramo e Sara insieme, sebbene il futuro padre della discendenza numerosa come le stelle del cielo ne rida mentre è prostrato di fronte al Signore, e provi a suggerire alternative più realistiche (Gen 17,15-21)». Si scopre che le donne profeta non sono mai citate e nemmeno è ricordato che nella Bibbia esiste anche la profezia femminile. Che si parla degli “amici” di Gesù e non si racconta che attorno a lui c’erano anche figure femminili. E così via.

Insomma, la storia di Gesù e del suo popolo è la storia di un solo genere, quello maschile, e questo sembra non creare problema. Ma, scrive Rita Torti, se raccontiamo una storia che ha dimenticato l’altra metà del cielo, «non è perché la Bibbia è un insieme di scritti segnati dal contesto patriarcale in cui sono nati – indubbiamente lo è, e nessuno può ragionevolmente negarlo: ci si divide semmai subito dopo -. Ma è dovuto, a questo livello, al modo in cui quegli scritti vengono riferiti, omettendo sistematicamente nomi e volti femminili probabilmente nella convinzione che non siano essenziali».

E se invece fossero importanti non solo per il ruolo che hanno nella Bibbia, ma per il significato che possono assumere per le bambine, ma anche per le donne, che hanno bisogno di esempi e modelli? Se nascesse anche da qui quella “fuga delle quarantenni” che ha visto allontanarsi dalla Chiesa le donne nate dagli anni settanta in poi? Donne che cercano la propria identità, lavorano, combattono per le cose in cui credono, senza sentirsi mai rappresentate da una Chiesa che non si è ancora posta il problema di quale spazio dare al proprio interno ai loro pensieri e ai loro sentimenti, ma soprattutto non si è posta il problema di come farle sentire parte attiva della storia di Gesù.