Giovanni XXIII. Santo militare?

Luca Kocci
Mosaico di pace n. 6, giugno 2014

La tesi è la seguente: siccome Angelo Roncalli, nella sua vita, ha avuto direttamente a che fare con l’esercito – prima svolgendo il servizio militare, poi come cappellano durante la prima guerra mondiale – può essere arruolato fra i “santi militari”.

Monsignor Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l’Italia fino all’agosto 2013, lo voleva addirittura santo patrono dell’esercito: il 24 ottobre 2011, nella basilica romana di Santa Maria in Aracoeli, al Campidoglio, celebrò una messa, alla presenza delle massime autorità militari per «promuovere la devozione del beato Giovanni XXIII (allora non era ancora stato canonizzato, ndr) quale santo patrono dell’esercito». Monsignor Santo Marcianò, attuale ordinario militare, non si spinge a tanto – almeno fino ad ora –, ma mostra anche lui una devozione tinta di grigioverde per Roncalli: «Quando papa Francesco, sei mesi fa, mi ha affidato la missione di ordinario militare, ho subito pensato che ci trovavamo nel 50mo della Pacem in terris, un’enciclica scritta da Giovanni XXIII del quale proprio nel giorno della mia nomina ricorreva la vigilia della festa», ha raccontato in un’ampia intervista ad Avvenire lo scorso 15 aprile. «Ho sempre avuto una devozione particolare per lui, che tra pochi giorni verrà proclamato santo, e mi aiuta pensare che il suo grande insegnamento sulla pace sia nato dall’avere vissuto egli stesso il servizio militare e dall’aver servito la Chiesa come cappellano militare. Sì, la missione della Chiesa nel mondo militare non esclude, anzi implica profondamente, l’impegno evangelico per la pace».

Ma il fatto che Roncalli per qualche anno abbia frequentato caserme ed ospedali militari legittima l’affermazione di un suo rapporto privilegiato con le Forze armate tanto da accreditarlo come “protettore” degli eserciti? Decisamente no. L’operazione si configura come una vera e propria rilettura revisionista della storia: isolare alcuni momenti della vita e del ministero pastorale di Roncalli per attribuire loro un valore esemplare e totalizzante, azzerando ogni complessità. Perché il rapporto di Roncalli con il mondo militare, in un contesto storico-culturale caratterizzato dal nazionalismo come fu quello di fine ‘800-inizio ‘900, non può essere semplificato in maniera superficiale.

Nell’ottobre 1901, il giovane Roncalli, abbandonò temporaneamente gli studi teologici presso il seminario romano per prestare servizio nel Regio esercito italiano al posto di suo fratello Zaverio, la cui presenza era necessaria in famiglia, a Sotto il Monte, per il lavoro nei campi. Dopo un anno di ferma presso la caserma Umberto I di Bergamo – dove venne promosso sergente ed evidenziò doti di ottimo tiratore – scrisse nei suoi Diari nel dicembre del 1902: «Oh, il mondo come è brutto, quanta schifezza, che lordura! Nel mio anno di vita militare l’ho ben toccato con mano. Oh, come l’esercito è una fontana donde scorre il putridume, ad allagare la città. Chi si salva da questo diluvio di fango, se Dio non lo aiuta?». Un giudizio che negli anni successivi verrà parzialmente sfumato, ma mai al punto da assumere connotazioni interamente positive.

Il 23 maggio 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale, Roncalli venne richiamato in servizio e destinato all’ospedale di Bergamo, prima con il grado di «sergente di sanità», poi – dal 28 marzo 1916 al 10 dicembre 1918 – come cappellano. Il clima interventista lo condizionò profondamente, come del resto capitò anche a don Mazzolari. «L’amore di patria non è altro che l’amore del prossimo, e questo si confonde con l’amore di Dio», scrisse Roncalli ai fratelli, auspicando però una rapida fine del conflitto. Eppure alla fine della guerra, riemerse la profonda avversione alla vita militare che già aveva espresso in passato. «Deo Gratias», scrisse nelle sue Memorie. «Mi sono recato all’Infermeria presidiaria per la mia visita di congedo alla Direzione dell’ospedale militare; e tornato a casa ho voluto staccare da me stesso, dai miei abiti tutti i segni del servizio militare, signa servitutis meae (i segni della mia schiavitù, ndr). Con quanta gioia l’ho fatto!». Parole che dovrebbero suggerire cautela prima di fare di Giovanni XXIII un santo con l’elmetto.