La scomunica come arma contro l’eresia criminale

Vito Mancuso
Repubblica, 23 giugno 2014

Papa Francesco ha dichiarato in Calabria nella piana di Sibari che «i mafiosi sono scomunicati ». Finalmente, viene da dire, sia per la lotta della Chiesa contro la criminalità organizzata che diviene sempre più ferma, sia per l’uso ora decisamente più appropriato della più grave delle sanzioni del diritto penale ecclesiastico. Ma che cosa succede, di fatto e di diritto, a un cattolico che viene scomunicato?

Prima di rispondere ritengo sia opportuno ricordare i secoli di utilizzo del tutto improprio dello strumento della scomunica da parte dei predecessori di papa Francesco. I papi infatti ne fecero spesso un uso politico, per nulla religioso, funzionale al loro potere e non alle ragioni della spiritualità e della giustizia: si pensi alle scomuniche che colpirono regnanti come gli imperatori Enrico IV (poi costretto ad andare a Canossa) e Federico II, la regina Elisabetta I, Napoleone, il re Vittorio Emanuele II, oppure l’intera Repubblica di Venezia con tutti i suoi abitanti.

Oppure ancora nel 1949 tutti gli appartenenti al Partito comunista (scomunica che, a quanto mi risulta, non è stata mai formalmente ritirata). La durissima arma del bando dalla comunità ecclesiale fu usata anche contro la libertà di coscienza in materia di teologia con le scomuniche che colpirono teologi e predicatori come Ian Hus e Girolamo Savonarola (entrambi finiti sul rogo), oppure il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e qualche secolo dopo Martin Lutero e a seguire tutti i protestanti.

A questo proposito penso sia doveroso ricordare quanto avvenne nel 1561 proprio in Calabria, sempre in provincia di Cosenza, a solo un’ora di macchina dal luogo in cui papa Francesco ha celebrato la Messa, cioè il massacro di circa 3000 valdesi da parte delle truppe inviate dal grande inquisitore fra Michele Ghislieri, divenuto in seguito papa Pio V (anzi san Pio V!). Ed è impossibile non menzionare le scomuniche che colpirono due sacerdoti come Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti.

Ma non è solo storia di ieri, è anche cronaca di oggi. La chiesa di papa Francesco ha scomunicato di recente, il 18 settembre 2013, un sacerdote australiano, Greg Reynolds, per aver promosso l’ordinazione sacerdotale delle donne e il riconoscimento sacramentale delle coppie gay, e sempre sotto Francesco si è avuta un mese fa la scomunica di Martha Heizer, teologa cattolica austriaca, presidente del movimento internazionale “Noi Siamo Chiesa”, sostanzialmente per gli stessi motivi.

Due giorni fa in Calabria il papa ha detto che «la ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune», aggiungendo che «questo male va combattuto, va allontanato, bisogna dirgli di no». E ha comminato la scomunica. Ora io chiedo però se sia giusto accostare nella stessa pena criminali che adorano il male e sinceri credenti che cercano (magari anche forzando i tempi) di rendere la Chiesa davvero una casa accogliente per tutti. Me lo chiedo e sento che sia giusto rispondere che non lo è.

All’inizio di questo articolo ho posto il problema di che cosa succede a un essere umano che viene scomunicato. La risposta è molto semplice: dipende dall’uomo e dalla donna colpiti dalla condanna. Un tempo non era così, un tempo quando un papa lanciava l’anatema della scomunica succedeva per tutti qualcosa di concretamente serio, all’interessato venivano a mancare tutti i rapporti sociali necessari all’esercizio del suo ruolo, oppure, nel caso fosse già nelle mani del potere ecclesiastico, veniva consegnato al braccio secolare che comminava la pena, non di rado capitale.

Ancora nella prima metà del ‘900 Ernesto Buonaiuti dovette soffrire la fame per essere stato scomunicato a causa delle sue ricerche storiche e delle sue tesi teologiche, anche alla luce del fatto che, essendo stato uno dei pochissimi docenti universitari a non giurare fedeltà al regime fascista, aveva perso anche la cattedra presso l’università statale.

Oggi la scomunica è ben lontana dal produrre effetti come questi. Oggi essa semplicemente prevede che lo scomunicato non possa prendere parte alle celebrazioni liturgiche e assumere incarichi ecclesiali. Fine della trasmissione. Ovvero il massimo della pena per sinceri credenti come il presidente di “Noi siamo Chiesa”.

Ovviamente l’effetto delle parole di Francesco su criminali incalliti come gli affiliati alle cosche è diverso: è improbabile che ne soffriranno le loro coscienze. Però il peso simbolico della scomunica colpirà la narrazione pseudoreligiosa che la mafia fa di se stessa, aiuterà a recidere i rapporti che i boss hanno avuto con le chiese locali, metterà parroci e curie davanti alle loro responsabilità, renderà sempre più difficile il consenso sociale che la criminalità organizzata cerca di creare intorno a sé.

Sono parole coraggiose perché trasformano la scomunica in un’arma importante. Per questo Papa Francesco fa benissimo a pronunciare l’anatema contro i mafiosi, ma sarebbe bello anche che impedisse ai suoi collaboratori di utilizzare quell’arma con lo stesso stile di un passato non proprio radioso.