Evangelizzare non significa portare l’altro a me stesso

Andrea Tornielli
http://vaticaninsider.lastampa.it

La Chiesa asiatica è chiamata a essere «versatile e creativa», consapevole della propria identità cristiana. A questa identità sono connaturali il dialogo, l’accoglienza dell’altro, l’«empatia» con chi si incontra. E rende capaci di apertura e ascolto. Papa Francesco parla a settanta vescovi asiatici riuniti nel santuario nazionale e pronuncia il discorso più importante del suo viaggio in Corea, soprattutto grazie alle aggiunte fatte a braccio.

Bergoglio non ha voluto prendere posto nel trono rialzato che era stato preparato per lui, ma si è avvicinato a un microfono e a un leggio che si trovavano allo stesso livello dei vescovi. Ad un certo punto, il leggio è sceso, e scherzando il Papa ha detto: «è caduto il discorso».

Francesco ha detto che «il dialogo» e «l’apertura verso tutti» sono essenziali nella missione della Chiesa in Asia. Il punto di partenza «è la nostra identità propria», perché «non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità». E allo stesso tempo non può esserci un dialogo autentico «se non siamo capaci di aprire la mente e il cuore, con empatia e sincera accoglienza verso coloro i quali parliamo». «Empatia» è la parola del testo scritto che corrisponde all’espressione tipica di Bergoglio, «Iglesia de la cercanía», cioè Chiesa della vicinanza o della prossimità. «Se la nostra comunicazione non vuole essere un monologo, dev’esserci apertura di mente e di cuore per accettare individui e culture».

Il Papa ha quindi presentato alcuni rischi. Quello del «relativismo pratico quotidiano» che «in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità» e colpisce anche le comunità cristiane. Quello della superficialità, cioè «la tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano». Un problema anche per gli uomini di Chiesa, per i quali questa superficialità «può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie, a scapito dell’incontro diretto e fruttuoso con i nostri fedeli e anche con quelli che non sono fedeli». Senza «un radicamento in Cristo» anche il dialogo «viene ridotto a una forma di negoziato, o sull’accordo sul disaccordo».

Il Papa ha quindi parlato di una «terza tentazione», quella dell’«apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti». È quel cristianesimo tutto “law & order”, che trova molte espressioni nell’attuale temperie ecclesiale. Francesco ha aggiunto a braccio: «Con questa gente che si comporta con superficialità, Gesù ha tanto lottato, sono ipocriti». La fede «per sua natura», ha detto ancora, «non è centrata su se stessa, la fede tende ad “andare fuori”. Cerca di farsi comprendere, fa nascere la testimonianza, genera la missione».

Per riassumere, «è la fede viva in Cristo che costituisce la nostra identità più profonda. Essere radicati nel Signore, tutto il resto è secondario… Poiché Cristo è la nostra vita, parliamo di Lui e a partire da Lui, senza esitazione o paura. La paura è il nemico di questa apertura. La semplicità della sua parola diventa evidente nella semplicità della nostra vita, nella semplicità del nostro modo di comunicare, nella semplicità delle nostre opere di servizio e carità verso i nostri fratelli e sorelle».

Il cuore del discorso è dedicato al «dialogo autentico» e all’«empatia». Non limitandoci «ad ascoltare le parole che gli altri pronunciano», ma cogliendo «la comunicazione non detta delle loro esperienze, speranze e aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore». Un’empatia frutto «del nostro sguardo spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad “ascoltare”, attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori desiderano comunicare».

«Non posso dialogare se non sono aperto all’altro – ha aggiunto il Papa a braccio – Bisogna dire: vieni a casa mia, bisogna aprire il cuore». Questa empatia «ci rende capaci di un vero dialogo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’esperienza di fraternità e di umanità condivisa. Essa conduce ad un genuino incontro, in cui il cuore parla al cuore. Siamo arricchiti dalla sapienza dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà».

«Ma fratello Papa, se faccio così non si converte nessuno!», ha detto ancora Francesco, dando voce a una possibile obiezione. «Tu fai questo, ascolta l’altro, cammina insieme a lui. Questo è il riferimento alla dottrina del nostro padre Abramo… Non devo portare l’altro a me stesso. Papa Benedetto XVI ci ha detto chiaramente che la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione». E «se vogliamo andare al fondamento teologico di questo: andiamo al Padre, siamo tutti figli del Padre».

Il dialogo è fondato sull’«incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato con la nostra lingua». Qui il Papa ha pronunciato la frase preparata nel discorso e una significativa aggiunta, riferibili alla Cina. «In tale spirito di apertura agli altri spero fermamente che i Paesi del vostro Continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti. Non mi riferisco solo al dialogo politico ma anche al dialogo fraterno». Quindi ha aggiunto improvvisando: «Questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità. Ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi», poi «il Signore farà la grazia, qualcuno chiederà il battesimo, qualcun altro no, ma sempre camminiamo insieme».

Insomma, i cristiani non vogliono imporre modelli culturali, né sono mossi da strategie. Hanno innanzitutto a cuore l’annuncio del Vangelo, non il cambiamento dei regimi politici.