Un esercito per fare pace. La geopolitica di Francesco

Sandro Magister
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Al primo posto mette la preghiera. Ma non disdegna le arti della diplomazia. E adesso neppure esita a invocare gli eserciti. La geopolitica di papa Francesco opera su questi tre registri, di cui il terzo è il più sorprendente. Tutto l’opposto di quel pacifismo assoluto che sembrava caratterizzare l’avvio di questo pontificato.

In effetti, un anno fa, la giornata di preghiera e digiuno contro un intervento militare dell’Occidente in Siria, con il rosario recitato in piazza San Pietro, fu l’atto con cui Francesco parve annunciare al mondo come lui, il papa, intendeva muoversi da lì in avanti sui teatri di guerra. A mani nude, disarmate, elevate al cielo.

E il mondo per un attimo parve ubbidirgli, con la quasi totalità dei governi contrari all’attacco, comprese le opinioni pubbliche di Stati Uniti e Francia, gli unici due Stati tentati dall’intervenire, e compresi gli stessi belligeranti di Siria, dove la guerra però non cessò ma si fece ancor più crudele.

Mesi dopo, Francesco ricorse ancora alla preghiera per la pace tra Israele e gli arabi. Ottenne che invocassero Dio accanto a lui, in Vaticano, i due presidenti nemici Peres e Abu Mazen. Questa volta con effetti meno illusori e il rapido precipitare di una nuova guerra.

Con crescente scetticismo, le cancellerie imputano a Francesco di preferire la via di fuga della preghiera al duro confronto con la realtà.

Ma non è così, perché Francesco ha fin da principio affiancato alla preghiera anche la pazienza e le astuzie della Realpolitik.

Licenziato l’inetto cardinale Tarcisio Bertone, ha messo alla testa della segreteria di Stato un diplomatico d’alta scuola, il cardinale Pietro Parolin, dei cui consigli fa diligentemente tesoro.

S’è sempre guardato, papa Francesco, dallo schierarsi pubblicamente contro l’uno o l’altro degli avversari sul campo, specie se musulmani, anche a costo di tacere la sua solidarietà con vittime cristiane perseguitate per la loro fede, dalla pakistana Asia Bibi alla sudanese Meriam alle studentesse nigeriane sequestrate da Boko Haram.

La diplomazia di Francesco sopporta in silenzio anche gli schiaffi, nella speranza di successi futuri. All’arrivo del papa in Corea del Sud, lo scorso 14 agosto, la Corea del Nord se ne è fatto beffe sparando tre missili dimostrativi e cancellando l’invio di ogni propria delegazione.

Quanto alla Cina, il Vaticano vanta all’attivo che Pechino abbia per la prima volta consentito a un papa il sorvolo del proprio territorio, con relativo invio di messaggi di cortesia.

Ma al passivo c’è molto di più. Le autorità di Pechino hanno consentito solo a pochissimi cattolici di recarsi in Corea a salutare Francesco. Hanno richiamato in patria i sacerdoti cinesi residenti in quel paese. Ma soprattutto non hanno dato alcun segno di allentare la repressione del cattolicesimo in Cina, dove il numero uno della gerarchia in comunione con Roma, il vescovo di Shanghai Thaddeus Ma Daqin, è dal giorno della sua nomina agli arresti domiciliari e tanti altri vescovi e preti sono in prigione o scomparsi.

Al battagliero cardinale di Hong Kong Joseph Zen Ze-kiun le autorità vaticane hanno imposto di tacere e di “lasciar lavorare la diplomazia”. Da quando Francesco è papa, la commissione sulla Cina creata da Benedetto XVI nel 2007, di cui Zen è uomo trainante, non è stata più convocata. Egli invia regolarmente al papa delle lettere d’informazione e dice sconsolato: “Spero che le legga”.

C’è però un livello di tolleranza oltre il quale lo stesso papa Francesco ammette l’uso della forza. Ed è ciò che succede col neonato califfato islamico in Iraq e Siria.

Quando l’8 giugno capitolò Mosul, le autorità vaticane reagirono con estrema cautela. Ma dopo che ai primi di agosto anche la piana di Ninive cadde nelle mani del califfato e per i cristiani e le altre minoranze religiose fu il disastro, con migliaia di uccisi per puro odio della fede, le richieste d’aiuto sono salite così forti da quelle terre che un rappresentante ufficiale della diplomazia vaticana, l’osservatore permanente presso le Nazioni Unite a Ginevra Silvano Tomasi, ha rotto il silenzio e ha invocato più volte un intervento della comunità internazionale “per disarmare l’aggressore”.

L’ultimo precedente del genere risale al 1992, quando Giovanni Paolo II reclamò un “intervento umanitario” armato per fermare i massacri nella ex Iugoslavia. Nel 2005 l’assemblea generale dell’ONU approvò il principio della “responsabilità di proteggere” in armi le popolazioni da uccisioni di massa e nel 2008 Benedetto XVI sostenne il valore di questo principio in un discorso a questa stessa assemblea, a New York nel Palazzo di Vetro.

Papa Francesco non si è subito esposto personalmente su questo terreno.

Ha lasciato che prima si esprimessero i vescovi iracheni, unanimi nell’invocare un intervento militare massiccio.

Ha lasciato che in Vaticano fosse il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran, a pubblicare un tremendo e circostanziato atto d’accusa contro il califfato islamico, esigendo dal mondo musulmano altrettanta nettezza di giudizio.

Ha inviato in Iraq come suo “alter ego” il cardinale Fernando Filoni, già nunzio in quel paese martoriato.

E finalmente lui stesso, Francesco, in una lettera del 13 agosto al segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon, ha chiesto alla comunità internazionale di “fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose”.

Di ritorno dalla Corea si è persino detto pronto ad andare anche lui in Iraq, nel pieno di questa “terza guerra mondiale” che egli vede combattuta qua e là “a pezzi” e con “livelli di crudeltà da spavento”, perché “fermare l’aggressore ingiusto” è non solo lecito ma doveroso.

Insomma: un esercito per fare pace. Ma a questa invocazione papale la risposta dei governi e dell’ONU è stata finora riluttante, se non sorda.