Donna e cristianesimo: ai piedi dell’uomo

Carlo Augusto Viano
MicroMega 5/2014

Da Roncalli a Bergoglio

Nel discorso del 25 gennaio 2014, rivolto ai partecipanti al Congresso nazionale promosso dal Centro italiano femminile, papa Francesco ha riconosciuto «l’indispensabile contribuito che le donne recano alla società, in particolare con la loro sensibilità e la loro intuizione dell’altro, il debole e il non protetto». Si è detto rincuorato dal fatto che «molte donne condividessero con i preti la cura di persone, famiglie e gruppi» e ha espresso la speranza che «crescano gli spazi per una presenza più incisiva e diffusa nella Chiesa». Ricordando l’opera delle donne nella conduzione di gruppi di preghiera o nella distribuzione della comunione e pur auspicando l’assunzione da parte loro di nuove responsabilità nella Chiesa e nella vita civile, il papa ha ammonito che tutto ciò «non può far dimenticare la funzione insostituibile della donna in una famiglia». Qui si rivelano «i loro doni di delicatezza, speciale sensibilità e tenerezza» e si esplica la loro indispensabile funzione nel trasmettere «solidi princìpi morali e perfino la fede alle future generazioni».

A queste dichiarazioni di principio non si sono accompagnati finora atti concreti: questo papa è stato scelto dai cardinali che lo hanno sostenuto perché rinnovasse le gerarchie vaticane, cosa che ha incominciato a fare, evitando però di affidare a donne cariche importanti. Si era vociferato di possibili nomine di donne alla dignità cardinalizia, alla quale elevarle senza passare per l’ordinazione sacerdotale. Fantasie, probabilmente; ma di fatto nella Chiesa c’erano stati tentativi di forzare le proibizioni ecclesiastiche, procedendo all’ordinazione di donne, iniziative contro le quali Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano intervenuti duramente. Al di là delle dichiarazioni di principio e dell’inverosimile comparsa di cardinali donne, si potrebbe vedere qualcosa di nuovo, se Francesco facesse valere, anche nei confronti di ordinazioni abusive, la condotta ispirata alla pietà, che sembra suggerire in altri casi difficili. Infatti nel luglio successivo all’elezione, riferendosi agli omosessuali, il nuovo papa aveva dichiarato: «Chi sono io per giudicare?». E aveva continuato su questa linea, quando aveva suggerito di avere pietà, prima di giudicare. La via della pietà doveva liberare la Chiesa dall’ossessione della sessualità.

Le novità presenti nelle parole del papa sono state subito colte, sia nel mondo cattolico sia in quello esterno; perfino l’Osservatore Romano ne ha dato conto. Tuttavia, proprio a proposito delle indicazioni papali su omosessuali e donne, quel giornale ha avvertito che «si può cambiare tutto senza cambiare le regole fondamentali, quelle sulle quali è fondata la tradizione cattolica». Gli accenni agli spazi da concedere alle donne non potevano non preoccupare un’istituzione nella quale, di fatto, l’importanza delle donne stava crescendo, rischiando di mettere in pericolo il dominio da sempre esercitato dai maschi. Del resto sulle parole del nuovo papa si gettavano la stampa e la cultura non cattolica, che, sorvolando sulle cautele dell’Osservatore Romano, si faceva prendere dall’entusiasmo per un papa rivoluzionario.

Eppure era lo stesso papa Bergoglio a escludere mutamenti nei princìpi della dottrina e della condotta cattoliche. Lo faceva a proposito della contraccezione, richiamandosi all’Humanae vitae, cioè all’enciclica di Paolo VI, che aveva messo fine alle speranze di rinnovamento suscitate dal Concilio Vaticano II e aveva segnato per molti, anche per molti cattolici, un’involuzione nella dottrina morale della Chiesa. Papa Francesco arrivava a riconoscere a Paolo VI uno «spirito profetico», che gli aveva ispirato l’idea di accompagnare il divieto della contraccezione con l’esortazione alla pietà, non disgiunta però da un’azione di freno, che è compito della Chiesa esercitare. Comprensione a piene mani dunque, ma senza mutare nulla nei fondamenti e nemmeno nelle istituzioni «puramente storiche» della Chiesa, come il celibato ecclesiastico, che comunque, almeno per il prossimo futuro, è meglio mantenere. E Francesco era chiaro: se anche il celibato dovesse essere rivisto, il sacerdozio sarebbe comunque riservato ai maschi, la famiglia dovrebbe sempre essere fatta di un uomo e una donna, le differenze tra uomo e donna non potrebbero essere cancellate, e la fase rivendicativa del femminismo dovrebbe finire, perché sarebbe semmai tempo di puntare sulle diversità tra i sessi, più che sulla loro uguaglianza.

In mezzo al tripudio per le novità di papa Francesco fa una certa impressione il suo richiamo alle doti profetiche di Paolo VI: se si vuole confrontare papa Bergoglio ai suoi predecessori, è più naturale richiamarsi a papi ritenuti innovatori, come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che a Paolo VI, il papa «normalizzatore» della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II. Infatti i richiami ai primi due pontefici si sono sprecati, perché papa Bergoglio, al pari di Giovanni XXIII, è stato eletto con i voti di cardinali estranei alla curia e perché, come Giovanni Paolo II, ha mostrato il gusto della semplicità e qualcosa di popolano, anche se i toni dimessi di Giovanni XXIII, che pure indossava ancora i solenni abiti dei pontefici romani, facevano pensare ai parroci veneti, mentre papa Bergoglio porta con sé le esperienze del cattolicesimo sudamericano. Oltre il folclore, una continuità con Giovanni XXIII emergeva nella ripresa della distinzione tra trattamento del peccato e trattamento del peccatore, una prospettiva, aperta nella Pacem in terris, diversa da quella in cui si era collocato Pio XII, il quale era arrivato a usare la scomunica per colpire non soltanto l’ideologia comunista, ma le persone che a quell’ideologia aderivano. Unendo la pietà verso i peccatori al rigore nella condanna del peccato, Giovanni XXIII aveva potuto inaugurare una politica di confronto con il mondo comunista, sperando di assicurare la sopravvivenza del cattolicesimo nei paesi del socialismo reale.

La «politica» di Giovanni XXIII era stata abbandonata, ma sulla questione delle donne papa Bergoglio poteva richiamarsi a posizioni uniformi da Roncalli a Wojtyła: infatti poteva evocare Paolo VI, il quale, alla chiusura del Concilio Vaticano II, aveva rivendicato alla Chiesa «l’orgoglio di aver glorificato e liberato le donne» e di aver fatto valere «la loro fondamentale uguaglianza con l’uomo», pur «nella diversità dei caratteri». Ma aveva aggiunto che «si avvicinava l’ora, di fatto era già arrivata, per la piena realizzazione della vocazione della donna, l’ora in cui la donna acquista nel mondo un’influenza, un’efficacia e un potere mai finora raggiunto». Tuttavia – aggiungeva – «le donne hanno sempre avuto come loro compito la protezione della casa» e «sono presenti nel mistero dell’inizio della vita […] offrono consolazione nel distacco della morte».

Per Paolo VI le donne erano chiamate a «riconciliare gli uomini con la vita», opponendosi alla tecnologia moderna, che «rischia di diventare inumana». Come mogli e madri di famiglia, le donne devono soprattutto assicurare, attraverso l’educazione, la conservazione delle tradizioni familiari. Ma il papa non dimenticava il valore della verginità, grazie alla quale le donne possono dedicarsi completamente all’amore divino e al servizio degli altri, facendosi «guardiane della purezza in un mondo in cui l’egoismo e la ricerca del piacere diventerebbero legge», compagne degli uomini nella battaglia da condurre fino al martirio, unendo pazienza e umiltà al coraggio maschile.

Quando, nel 1961, nell’enciclica Mater et magistra, si era riferito alle donne, Giovanni XXIII le aveva poste accanto ai bambini, figure deboli della società, sfruttate, come i bambini, con inaccettabili forme di lavoro. Con la Pacem in terris del 1963 il papa era tornato sulle donne lavoratrici, ricordando la necessità di garantire loro la possibilità di svolgere le funzioni di mogli e di madri: il suo timore era che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro interferisse con la loro vocazione per la vita domestica. Dell’entrata delle donne nella vita pubblica prendeva atto il Concilio Vaticano II, che, nel documento Apostolicam actuositatem del 1965, riconosceva la loro presenza anche nella vita religiosa, parallela a quella nella vita profana, ed esaltava la loro opera nella laicità cattolica e nell’apostolato. Ma nel documento successivo, Gaudium et spes, sempre del 1965, il concilio menzionava i movimenti culturali e politici, organizzati e diretti da donne, volti a rivendicare i loro diritti.

Nella letteratura prodotta da questi movimenti il diritto all’uguaglianza tra uomini e donne diventava una faccenda complicata, perché, per rivendicare l’uguaglianza dei diritti, si potevano reclamare differenze di trattamenti, volti a compensare gli oneri gravanti sulle donne, che devono affrontare gravidanza e maternità. Fin qui le rivendicazioni delle donne potevano trovare comprensione nella cultura cattolica, la quale aveva sempre guardato con preoccupazione alla possibilità che gli impegni delle donne nella vita pubblica le distogliessero dalla loro funzioni di mogli e madri. Contemplare trattamenti differenti conduceva però ad ammettere l’esistenza di diritti a quei trattamenti, specifici delle donne e diversi da quelli degli uomini. E la rivendicazione di questi diritti non si sarebbe fermata ai trattamenti assistenziali, estendendosi presto al diritto di esercitare scelte strettamente pertinenti alla sessualità femminile e alla maternità. Uno dei mezzi per rendere effettiva la parità sessuale tra uomini e donne era l’escogitazione di metodi sicuri e non afflittivi, che le donne potessero usare senza dipendere dai maschi, per evitare il concepimento.

Il Concilio Vaticano II aveva fatto sperare che la Chiesa potesse adottare verso le pratiche contraccettive un atteggiamento diverso da quello tradizionale. Le prese di posizione di Paolo VI fecero cadere ogni illusione, in contrasto, come erano, con la pretesa delle donne di controllare la gravidanza, accettandola, rifiutandola o interrompendola. Ci fu chi anche tra i cattolici sperò in qualcosa di diverso da condanne drastiche, ma le cose non andarono così. Prima Paolo VI e poi Giovanni Paolo II ricorsero all’idea tradizionale della posizione complementare della donna rispetto all’uomo nella vita sessuale e in quella matrimoniale, ribadirono che il matrimonio era l’unico luogo in cui esercitare la sessualità e che questa non poteva essere disgiunta dalla procreazione. Apparentemente queste posizioni avevano in comune con i movimenti delle donne la rivendicazione della specifica dignità femminile, che però per la cultura cattolica comportava essenzialmente obblighi e limitazioni. Del resto, in pratica, la Chiesa cattolica era stata sempre più indulgente con gli uomini che con le donne, alle quali anzi affidava una specie di sorveglianza sul comportamento maschile, soprattutto all’interno della famiglia: toccava alla donna imporre limiti all’intemperanza sessuale dei mariti, evitando che la sessualità diventasse il contenuto principale della vita matrimoniale.

Il mondo moderno era quello che era e i papi erano gli ultimi a farsi illusioni sul suo conto: primato della tecnologia, caccia al profitto, ricerca sfrenata del piacere infuriavano e la secolarizzazione penetrava le genti. Libertà sessuale e controllo della maternità erano i criteri ai quali si ispiravano anche le coppie cattoliche. Non c’era da farsi illusioni in proposito: l’importante era non perdere contatto con i cristiani distratti o infedeli, non spingerli ad abbandonare esplicitamente la fede. Qui tornava a proposito la distinzione di Giovanni XXIII tra peccato e peccatore, ma bisognava continuare a dire che la vita secolarizzata era peccato; e il pericolo era costituito non tanto dai fedeli quanto dal clero, che poteva cedere alle lusinghe di una teologia non più fondata sul primato del clero e controllata dall’autorità ecclesiastica.

Giovanni Paolo II cercherà di orientare le masse dei fedeli servendosi della propaganda di massa, utilizzata dai grandi movimenti politici successivi alla Rivoluzione francese, e, parallelamente, istituirà un forte controllo sulla cultura teologica e sulla libertà di pensiero dei preti. Dopo l’infelice stagione segnata dalla modesta teologia di Benedetto XVI, papa Bergoglio sembra per il momento lasciar da parte la dottrina, immutabile, non discussa, ma neppure invocata, per cercare il rapporto diretto con i fedeli. Nell’arsenale della retorica cristiana c’è sempre l’immagine della cristianesimo originario, presa spesso sul serio anche dalla cultura laica: lì c’erano soprattutto umili e poveri, i compagni migliori per donne che hanno la vocazione per la cura degli altri, compagni che non minacciano di approfittare della dedizione femminile, per trasformarla in servitù. Era vero? Gesù si era rivolto soprattutto ai poveri? E intorno a sé aveva molti poveri? E donne? E le donne che gli avevano dato ascolto avevano trovato, almeno nelle comunità cristiane delle origini, una dignità che la società pagana non riconosceva loro?

Ai piedi della croce

Nel suo indirizzo rivolto alle donne, alla conclusione del Concilio Vaticano II, Paolo VI ricordava le donne vicine a Gesù, da Maria, la madre di Gesù, alle altre, presenti ai piedi della croce e testimoni della sua risurrezione e della sua ricomparsa. Tra le interpretazioni benevole, che storici religiosi e laici hanno dato di Gesù, ci sono anche quelle che gli attribuiscono una particolare attenzione per le donne, destinatarie, come i poveri e gli esclusi, del suo messaggio; né è mancato chi ha fatto risalire a lui la disposizione a non discriminare tra uomini e donne, una novità che non si sarebbe del tutto smarrita nel cristianesimo. Una letteratura femministica ha interpretato in questa chiave i Vangeli e gli scritti apostolici.

Effettivamente nei Vangeli intorno a Gesù ci sono donne e sembra che lui non sottilizzasse troppo sulla loro reputazione, tanto che in certi casi esse gli rendevano omaggi non privi di sfumature erotiche. Si è detto che i Vangeli cercano di esprimere in forma narrativa il messaggio escatologico di Gesù, trasformando in eventi i suoi annunci: la vicinanza delle donne a Gesù e la loro confidenza nei suoi confronti, in atteggiamenti non consoni alla posizione di inferiorità, in cui le donne si trovavano nel mondo reale, ebraico e pagano, sarebbero essenzialmente modi di rappresentare, come se si fosse già realizzato, il suo annuncio di un mondo in cui sarebbero stati riscattati gli esclusi, i poveri e le donne.

Ma c’era davvero un mondo di esclusi, ai quali Gesù annunciava il rovesciamento della realtà? O invece era la traduzione narrativa dell’escatologia a creare quelle figure, per dar senso allo stesso messaggio escatologico? Che intorno a un predicatore taumaturgo si raccogliessero le persone più diverse non stupisce. Qualcosa del genere era accaduto anche con Giovanni Battista e la Galilea aveva fama di essere terra di profeti e agitatori religiosi. Tra quella gente c’erano anche «estranei», come soldati, gentili, odiati esattori delle tasse e donne. Gesù ostentava una particolare attenzione verso di loro? Del tutto naturale, in un propagandista religioso. I discepoli di personaggi come il Battista e Gesù avranno inteso il messaggio dei loro maestri come potevano e, per raccontarlo, avranno calcato la mano su quegli esclusi o estranei, con l’intento di dare rilievo alla «rivoluzione escatologica», ma dal loro racconto emerge l’immagine di una comunità di fedeli fatta essenzialmente di uomini e diretta da uomini, nella quale però le donne non mancano.

E se fosse tutto più «normale»? Se la «proiezione narrativa» del messaggio escatologico attribuito a Gesù avesse indotto ad accentuare i contrasti effettivamente presenti nella società reale, ma non così profondi da poter essere superati soltanto da una rivoluzione in una prospettiva escatologica? Nella società del I secolo a.C. le donne erano visibili, del tutto capaci di andare a sentire predicatori, taumaturghi e indovini. Sappiamo tutti ciò che si è detto della segregazione delle donne greche, ma abbiamo imparato che nelle città greche c’erano donne che non potevano permettersi il lusso della segregazione, che dovevano uscire di casa o vivere nelle vie della città, nelle quali si svolgeva gran parte delle faccende quotidiane. Né nelle campagne doveva essere facile realizzare la segregazione femminile.

Tuttavia l’«ideale» della segregazione dava, anche nella Grecia classica, una carica metaforica alla figura della donna: Aristofane faceva esprimere alle donne programmi politici alternativi a quelli che considerava dominanti e i poeti tragici facevano impersonare da donne pietà, comprensione e tenerezza, assenti nell’etica maschile, eroica o cittadina che fosse. Nei settori alti della società ateniese, quelli propri della segregazione femminile, accanto ai filosofi c’erano donne: nell’Atene di Pericle erano personaggi di spicco Aspasia come Anassagora, Platone metteva Diotima vicino a Socrate, tra i cinici le donne esibivano la loro libertà sessuale e nei circoli epicurei le donne potevano contare su amicizie e solidarietà. Nella società maschilista spartana le donne dei guerrieri, la cui proprietà era regolamentata, avevano accumulato grandi ricchezze – si diceva – e tenevano le fila del potere. Della libertà delle donne romane si sapeva e si considerava un passaggio importante il riconoscimento del loro diritto di ricevere e lasciare eredità.

Neppure in Palestina le cose dovevano essere radicalmente diverse, anche se spesso, per accentuare i contenuti rivoluzionari del messaggio di Gesù, si è usata un’immagine stereotipata dell’ebraismo del I secolo a.C. A parte la realtà delle cose, perfino gli ideali appropriati per l’ebraismo dell’esilio babilonese o dei primi tempi del Secondo Tempio non lo erano più per quello della Palestina romana, nella quale le donne dovevano godere di una certa libertà e dovevano essere presenti nella vita delle comunità; perfino le prescrizioni più stringenti sui rapporti pubblici tra uomini e donne si erano attenuate. Ma, oltre a tutto ciò, lo stesso messaggio escatologico attribuito a Gesù era perfettamente «normale» nell’ebraismo del suo tempo: c’era da aspettarsi che un predicatore taumaturgo si appropriasse o fosse investito delle attese di un messia o di un re erede di Davide o di entrambe le cose. E figure del genere erano ben collocabili entro la Palestina del I secolo a.C., per giunta profondamente penetrata da modi di pensare ellenistici, che si facevano sentire anche all’interno della religiosità messianica. Che Gesù si presentasse o fosse inteso come figlio di Dio e fosse divinizzato non era affatto uno scandalo né per la religiosità ebraica né per quella pagana.

Così che le donne potessero partecipare al fervore messianico, accanto agli uomini, ma in movimenti religiosi nei quali gli uomini avevano il predomino, non era affatto qualcosa di eccezionale. L’interpretazione che ha cercato di liberare Gesù dai condizionamenti storici, per recuperare la prospettiva escatologica del suo messaggio, può essere rovesciata: il predicatore originario faceva discorsi escatologici ben integrati nella tradizione ebraica, ma comprensibili anche ai gentili ellenizzati della Palestina. I suoi annunci nascevano in una società in cui le donne si muovevano accanto agli uomini, chiedevano rimedi alle loro malattie ginecologiche, nonostante i problemi che lo stile di vita ebraico poneva a proposito della sessualità femminile, dedicavano all’aspirante messia le cure, talvolta ambigue, che le donne riservavano agli uomini dei quali subivano il fascino. Qualcuno si è spinto a fare supposizioni sulla vita familiare del messia, sulla presenza, forse ingombrante, della madre e dei parenti e sui possibili dissidi tra costoro e i discepoli o una parte di essi. Quando il messia farà una brutta fine, i suoi discepoli e i suoi familiari, più o meno d’accordo, dovranno trovare un modo per salvarsi dal naufragio. Può anche darsi (come si è supposto) che siano state le donne del gruppo a credere nella resurrezione, mentre gli uomini erano spaventati e forse consapevoli dei pericoli che correvano.

La resurrezione fu però una buona carta, rivelatasi, dopo il primo smarrimento, non così difficile da smerciare: non era estranea alla cultura ebraica, tanto meno a quella ellenica e romana, nella quale i contatti tra divino e umano erano assai facili. Chi doveva fissare la leggenda di Gesù aveva ora un piano da seguire, che era il contrario della vicenda del predicatore originario: bisognava partire, anziché dalle sue promesse e dalle sue vanterie, dalla sua resurrezione, e mostrare che essa era l’adempimento delle attese contenute nell’Antico Testamento, ma anche che rientrava nella mentalità dell’ellenismo. L’escatologia non era il pane del predicatore originario, che sembrava incluso nel breve periodo del suo tempo e ingabbiato nelle fazioni della cultura ebraica locale, ma era la chiave di cui potevano servirsi gli evangelisti, i quali partivano dalla sua morte e potevano rifarsi al profetismo biblico o alla cultura ellenica, per svincolare il loro personaggio da una vicenda finita così male. Si è osservato che nel Vangelo di Luca e negli Atti degli apostoli, a lui attribuiti, i personaggi femminili hanno un particolare rilievo e il loro numero è uguale, o quasi, a quello dei personaggi maschili; si è perfino sospettato che a scrivere quel Vangelo fosse stata una donna. Non è probabile, ma in quegli scritti la vicenda del predicatore originario era narrata in modi che fossero comprensibili nella cultura ebraica ed ellenistica, immersa in un mondo in cui le donne erano presenti accanto agli uomini.

Subordinate e minacciose

Se Gesù era un profeta autentico rivoluzionario, magari progressista, liberale, perfino un po’ femminista, chi ha inventato il cristianesimo dottrinario e repressivo? Ma Paolo di Tarso! A quest’ultimo è stata attribuita l’invenzione di un «secondo cristianesimo» o semplicemente del cristianesimo, per liberare Gesù dal sospetto di aver ingabbiato, già lui, il proprio messaggio in istituzioni ecclesiastiche; perfino chi non aveva simpatie per Paolo non ha nascosto la propria ammirazione per un personaggio capace di fondare una nuova religione. Tutto intento a radicare il cristianesimo nella società reale, porterebbe lui la responsabilità di aver adattato il messaggio cristiano alle istituzioni politiche e sociali dalle quali doveva farlo accettare. Per questo Paolo suggeriva ai cristiani di sottomettersi alle autorità costituite, di non sciogliere le famiglie e raccomandava alle donne di non ribellarsi ai mariti, di non pretendere di essere pari agli uomini, di velarsi.

Possibile che Paolo, un missionario che si sentiva investito dallo spirito, fosse così conformista e, pur essendo tutto preso dall’attesa del ritorno del messia e della fine del mondo presente, credesse nell’esistenza di differenze naturali tra uomini e donne? Si è addirittura pensato che i passi delle lettere paoline nei quali si raccomandava alle donne di sottomettersi fossero interpolazioni, non attribuibili a Paolo. I testi delle sue lettere non sono roba facile, ma quelle raccomandazioni non sono sorprendenti, perché l’aria di attesa e di provvisorietà, che circola nella letteratura paolina, poteva indurre i missionari a non prendere troppo sul serio il mondo reale, sul punto di finire, e a essere prudenti, per non sollevare problemi futili alle soglie dell’evento finale. Inoltre Paolo era il tipo di missionario intraprendente, capace di affrontare la concorrenza degli altri missionari, cristiani e non, abile nel raccogliere denaro da portare a Gerusalemme, dove la cosa gli serviva per farsi valere presso gli apostoli più legati alla tradizione ebraica e forse presso gli stessi parenti del predicatore originario.

Questo prototipo di «missionario originario», più che un fanatico odiatore di donne, era un tipo indulgente, che, per reclutare seguaci, non voleva creare dissidi. C’erano ebrei disposti ad ascoltare i missionari, ma non a partecipare con i gentili a banchetti nei quali si consumassero carni di animali sacrificati agli idoli? Non bisognava tormentare le loro «coscienze deboli», ancora incapaci di sentire la forza dello spirito. Abbandonare il marito poteva mettere in difficoltà donne convertite? Che restassero in famiglia! Le donne erano veicoli preziosi per diffondere il cristianesimo e collaboratrici fedeli: potevano prendere la parola, ma dovevano restare velate, come conviene alle donne. Paolo accettava l’escatologia postuma degli evangelisti, ma centrava la propria predicazione sull’adempimento vicino delle promesse messianiche, un’imminenza che faceva perdere importanza alle forme della vita personale e sociale. L’escatologia aveva le proprie insidie, perché l’attesa poteva, da un lato, indurre a non cambiare nulla, dall’altro, a mutare intempestivamente la propria vita, con il pericolo di dare a questi mutamenti provvisori più importanza del ritorno del messia. Paolo doveva tener viva l’attesa, senza dare però troppa importanza agli accorgimenti che servivano a quello scopo, ma che non erano l’obiettivo cui mirava la fede: se nell’attesa c’erano ragioni esterne che impedivano di cambiare, meglio non cambiare e attendere.

Una certa storiografia femminista ha tentato di riscattare Paolo: egli assegnava sì alle donne una posizione subordinata, ma soltanto perché doveva muoversi in una società in cui quella era la condizione della donna, e lui non intendeva promettere rivoluzioni fittizie o riscatti illusori. Il suo messaggio sarà stato esasperatamente escatologico, ma ciò che egli prometteva era una palingenesi totale, in cui essere uomo o donna non avrebbe più contato. La sua non era una soluzione di compromesso, fatta di aggiustamenti parziali: aspettandosi la fine e il rovesciamento totale del mondo, poteva prospettare alle donne indipendenza assoluta e piena parità con gli uomini.

Forse fare di Paolo un femminista escatologico era esagerato, ma lo era anche infierire su di lui come maschilista, odiatore delle donne. In fondo né Gesù né gli apostoli erano stati più liberali di lui. Nelle comunità cristiane le donne erano presenti e attive, come risulta dalla stessa letteratura paolina, ma non sembra che nella vita cristiana fossero previsti istituzioni o luoghi nei quali le donne potessero esplicare una propria attività, separata, anche solo relativamente, da quella degli uomini. Istituzioni del genere esistevano nel mondo pagano, perfino in quello della Grecia classica, che sembrava la meno adatta al riconoscimento dell’autonomia femminile. Forse nel mondo ebraico c’erano gruppi religiosi che ammettevano donne, separate dagli uomini o poste accanto a essi, ma in posizione subordinata; e queste comunità potevano essere la matrice dei gruppi cristiani, nei quali le donne appaiono sempre accanto a uomini e tendenzialmente subordinate a essi.

La presenza femminile doveva essere una questione aperta, che continuava a farsi sentire via via che si delineava una Chiesa ortodossa e si dava un volto alle eresie. Nel montanismo le donne erano presenti e alle donne vicine a Montano, trattate con grande rispetto, veniva riconosciuta la capacità di profetare; e la cosa doveva preoccupare gli ortodossi, anche se probabilmente le loro critiche al montanismo non riguardavano principalmente la questione delle donne. Ha creato qualche difficoltà il fatto che Tertulliano, diventato montanista, si distinguesse per la sua misoginia: strenuo assertore della modestia femminile, dedicava un’opera intera all’opportunità di far indossare il velo alle ragazze. Come si potevano conciliare queste posizioni con il posto occupato dalle donne nei gruppi montanisti? Come era accaduto con Paolo di Tarso, si è voluto vedere nelle posizioni di Tertulliano una difesa della parità delle donne: Tertulliano voleva semplicemente far indossare il velo alle ragazze, come lo indossavano le donne sposate rispettose di regole di modestia vincolanti anche per gli uomini, pur nei modi che si addicevano loro.

Vista da fuori, l’imposizione della pudicizia alle donne sembrava incompatibile con la mentalità di un gruppo che attribuiva alle donne capacità profetiche e poteri sacerdotali; ma questa incomprensione rivelava soltanto la tendenza a vedere in ogni disaccordo sulla posizione delle donne nella comunità religiosa una deroga alle regole che dovevano limitare la loro libertà sessuale e impedire la loro infedeltà agli uomini. In realtà l’importanza riconosciuta alle donne nelle comunità montaniste non andava intesa come una deroga dalla condotta imposta loro nelle altre comunità cristiane. Al di là delle innovazioni dottrinali e delle polemiche tra i gruppi cristiani, di fatto nelle comunità cristiane le donne si facevano sentire, anche nella Chiesa romana, in cui esse operavano come «amministratrici», diaconesse, necessarie per tenere i rapporti con le fedeli donne, rapporti delicati in certe funzioni liturgiche, come il battesimo per immersione, per il quale le donne dovevano essere denudate e unte.

La partecipazione alla vita liturgica e amministrativa delle comunità era la via ordinaria attraverso la quale le donne trovavano un loro posto, ma poi c’era la via straordinaria, rappresentata dal martirio. Anche nella Chiesa romana il martirio era per le donne una specie di promozione, perché si attribuivano ai martiri, anche alle donne martiri, capacità sacerdotali, che comportavano il potere di sciogliere dai peccati e di allacciare un rapporto speciale con l’aldilà. Se nell’immaginazione religiosa il martirio era un’esperienza dolorosa ma luminosa, in cui la fede ha conferma sicura e la salvezza è a portata di mano, nei fatti le cose erano più complicate. Non tutti i fedeli avevano il medesimo grado di eroismo: c’era chi si sottometteva, pronto a ritornare al cristianesimo in momenti più tranquilli, c’era chi, se poteva, evitava di dichiararsi cristiano, c’era chi, arrivato alla soglia del martirio, se la cavava. Le autorità ecclesiastiche mostravano di apprezzare i martiri e ne promuovevano la venerazione, ma consigliavano anche prudenza, perché temevano che le persecuzioni potessero avere successo.

Professioni di fede intempestive non andavano incoraggiate, perché avrebbero messo le Chiese in pericolo, e non si potevano neppure dare troppi riconoscimenti a chi scampava al martirio, con il rischio di introdurre personaggi carismatici, emersi non per le loro capacità pastorali o organizzative, ma soltanto perché esibizionisti o fortunati o astuti. I montanisti erano meno prudenti, e incoraggiavano la ricerca del martirio, sostenendo che si dovesse sempre proclamare la propria fede, senza accettare compromessi. In compenso consideravano la «confessione», cioè il riconoscimento esplicito della propria fede, anche se non seguito dal martirio, sufficiente per conferire poteri eccezionali, quale il sacerdozio e l’esercizio della profezia: era il percorso seguito dalle grandi profetesse montaniste, quelle che, al di là delle sottigliezze dottrinali, costituivano lo scandalo del montanismo. La posizione delle donne nelle comunità montaniste dipendeva dunque più dalle regole generali di condotta di fronte alle persecuzioni che da innovazioni concernenti le donne, ma la facilità con cui si riconoscevano loro poteri sacerdotali e profetici scandalizzava, perché appariva come una violazione delle gerarchie sessuali dei gruppi cristiani.

L’altra grande eresia «originaria» era lo gnosticismo, e anche questa finiva con l’evocare l’immagine delle donne. Se il montanismo aveva tracciato un itinerario attraverso il quale le donne potevano arrivare al sacerdozio, lo gnosticismo inseriva la loro figura in uno sfondo propriamente teologico, piuttosto grandioso. Le religioni pagane annoveravano divinità femminili e avevano generato teogonie intessute di legami sessuali, nelle quali c’erano figli degli dei, proprio come Gesù era figlio di Dio, nati da rapporti sessuali tra divinità e umani. Invece l’ebraismo aveva eliminato le divinità femminili e aveva depurato il proprio Dio da aspetti sessuali. Tuttavia nell’ebraismo, nello spazio compreso tra ebraismo e cristianesimo e nel cristianesimo, l’elemento femminile era ritornato attraverso la teologia gnostica. Nella produzione della realtà lo gnosticismo faceva intervenire un’entità femminile, che era superiore all’entità responsabile della produzione del mondo, ma che rappresentava il primo momento del processo di decadenza da cui il mondo nasce. Spesso, ma non sempre, identificata con Sophia (sapienza), essa aveva tutti i caratteri attribuiti alla femminilità, nel mondo pagano come in quello ebraico o cristiano, aspetti positivi, come la luminosità e la potenza, uniti però ad aspetti negativi, come la pretesa ingiustificata all’autosufficienza, al fascino e all’ambiguità.

Questo sfondo teologico doveva avere qualche relazione con la posizione che le donne occupavano nelle comunità gnostiche. Abbiamo in proposito poche informazioni attendibili, anche perché molto di ciò che sappiamo degli gnostici viene da documenti indiretti, ostili nei loro confronti. Anche le comunità gnostiche dovevano essere dominate da uomini, che sulle donne non avevano idee diverse da quelle che ispiravano le altre comunità cristiane e in generale il mondo greco, romano ed ebraico: le donne potevano stare accanto agli uomini, ma richiedevano particolare sorveglianza. Può darsi che le donne fossero attirate dalle comunità gnostiche, come da quelle montaniste, più che dalle altre, perché in esse alle donne era riconosciuto uno spazio, anche se erano pur sempre guardate con sospetto. La letteratura sugli gnostici attribuisce loro modi di vita e culti nei quali uomini e donne si comportavano in modi considerati scandalosi: le donne si accoppiavano con fratelli (come venivano chiamati i membri della comunità) diversi dal marito, si celebravano riti usando sperma e sangue mestruale, si praticavano aborti e si uccidevano bambini appena nati.

Si tratta di accuse, delle quali si possono ricavare testimonianze soltanto in modo indiretto, tenendo conto del fatto che spesso chi riferiva di dottrine filosofiche e fedi religiose alle quali era ostile, tendeva a trasformare credenze e massime in episodi concreti, configurati come vere e proprie trasgressioni: una pratica sistematica e ossessiva quando si aveva il sospetto che le donne potessero acquistare troppa importanza. L’abitudine, diffusa nelle comunità cristiane, di chiamare i correligionari «fratelli» dava adito al sospetto di rapporti incestuosi, all’amore cristiano veniva dato un significato sessuale, i gesti di saluto usati tra confratelli e consorelle erano interpretati come indebita confidenza tra uomini e donne. Del travisamento di queste pratiche avevano sofferto anche i cristiani «ortodossi», quando avevano parlato di loro gli scrittori pagani, ma poi gli ortodossi avrebbero usato le stesse armi contro gli eretici, colpevoli di sovvertire l’ordine naturale.

Il sesso domato

Come dicevamo, le religioni greche e romane avevano attribuito una vita sessuale agli dei e avevano dato rilievo alle apprensioni degli uomini per la propria virilità e delle donne per la propria fecondità. I risvolti individuali s’intrecciavano a quelli collettivi, rappresentati dalla produttività della terra e dalla continuazione della stirpe; e qui le donne avevano una posizione importante, anche se nettamente subordinata rispetto a quella degli uomini, come «dimostravano» filosofi e medici, per i quali il seme maschile aveva una parte attiva rispetto a quella passiva del sangue mestruale. L’importanza delle donne era perciò riconosciuta e nello stesso tempo esorcizzata, e non soltanto dal punto di vista strettamente sessuale, perché nel matrimonio le donne erano considerate elementi importanti non come compagne della vita affettiva e sessuale, ma come strumenti di relazioni sociali ed economiche e come veicoli di conservazione e trasmissione della ricchezza.

La religione pubblica pagana dava rilievo alla famiglia come luogo in cui si esercitavano la vita sessuale e la procreazione, ma nel mondo pagano c’erano forme religiose riservate alle donne. Inoltre la sessualità che si svolgeva fuori della famiglia era disgiunta dalla procreazione, ma era anch’essa coperta da credenze e pratiche religiose, capaci di dare un senso alla prostituzione o all’omosessualità, soprattutto maschile. La sessualità maschile, esaltata come una specie di forza, poteva essere resa immune da ogni contaminazione femminile, anche a costo dell’evirazione rituale, intesa come liberazione dalla sessualità riproduttiva. Queste idee erano penetrate nella cultura filosofica, cioè in una cultura piuttosto conservatrice, critica sia delle idee religiose tramandate sia di quelle che apparivano innovazioni popolari, ma interessata a riprendere e reinterpretare credenze e pratiche religiose.

I pitagorici avevano proposto uno stile di vita retto da regole di purezza, nelle quali i tabù alimentari e sessuali permettevano di evitare tutto ciò che avesse che fare con il sangue e in generale con i veicoli materiali della vita. A questi temi si era riallacciato anche il platonismo, che, soprattutto con Platone, aveva rivalutato una sessualità disgiunta dalla procreazione, e perciò totalmente spiritualizzata. Platone aveva additato nell’omosessualità la sua massima espressione, soprattutto quando il rapporto omosessuale era tra un giovane e un anziano in grado di educarlo: in questo caso il rapporto sessuale produceva qualcosa che restava interamente nell’anima. In un certo senso la vita filosofica consigliata da pitagorici e platonici era la traduzione in termini intellettuali e simbolici dell’evirazione sacrale.

Le condotte sessuali suggerite da professioni religiose e credenze filosofiche si collegavano a miti religiosi e filosofici, che inserivano la sessualità in un’immagine del mondo e la collegavano agli elementi che, in quelle immagini, sembravano più strettamente legati alla vita. Era ovvio accostare la sessualità umana a quella animale, ma riceveva un’interpretazione sessuale anche la vegetazione; e dalla vegetazione si poteva ricavare l’idea che anche le vicende umane avessero un andamento ciclico, che la nascita e la morte delle persone fosse simile al ciclo vegetale. In questa prospettiva le pratiche escogitate per il disciplinamento della sessualità potevano essere reinterpretate come mezzi per inserirsi nel ciclo della nascita e della morte o per sottrarsi alla morte. In questo senso agivano nel mondo classico le religioni orfiche e dionisiache come le filosofie pitagoriche e platoniche.

Nella cultura classica la riproduzione delle popolazioni sollecitava preoccupazioni contrastanti. Le famiglie potevano tenere alla propria continuazione, ma per le città antiche la crescita della popolazione poteva essere un problema, perché la polis classica poteva essere costretta, dal rischio di non trovare approvvigionamenti nel territorio circostante, a costruire una rete commerciale estesa, fondando colonie e prendendo iniziative militari. Utopisti politici, spesso filosofi, avevano immaginato città capaci di controllare la riproduzione sociale, dissociando sessualità e procreazione attraverso una sorveglianza stretta sulla vita sessuale dei cittadini. Nel mondo pagano della prima età cristiana le cose erano cambiate, perché la dimensione imperiale si era affermata su quella cittadina e, con l’impero, erano sorti problemi di popolazione di altro tipo.

L’ellenizzazione dell’Oriente, prima, e l’espansione di Roma in Oriente, poi, avevano provocato grandi cambiamenti di costume, favorendo la mescolanza, la migrazione e il riorientamento di credenze e pratiche. Quando completava l’assorbimento dell’Oriente nell’impero romano, con la decisiva incorporazione dell’Egitto, Augusto teneva conto dello smarrimento che questi eventi avevano prodotto, richiamandosi ai costumi austeri, attribuiti ai romani antichi, e al valore della famiglia romana. Era una politica che poteva toccare soltanto una parte dell’impero e dei suoi cittadini, ma la ricerca di rapporti fruibili senza la mediazione di istituzioni cittadine, in un mondo così delocalizzato, si esprimeva anche con l’adesione a religioni e pratiche nate altrove, ma diventate disponibili dentro gli orizzonti dell’impero.

Nella tradizione ebraica la sessualità era circondata da tabù di purezza, che avevano al centro le donne, le sole che potessero dare certezza sull’ascendenza di una persona e perciò sulla sua appartenenza al popolo ebraico. Quei tabù servivano a mantenere la differenza degli ebrei dagli altri popoli della Palestina e si erano accentuati dopo la sradicamento degli ebrei dalla Terra promessa, al tempo dell’esilio babilonese. Gli esuli avevano dovuto cercare di preservare la propria originalità nel contesto babilonese e coloro i quali erano ritornati da Babilonia, con la restaurazione del tempio sotto l’egida di Ciro, avevano di nuovo dovuto fare i conti con le popolazioni non ebraiche della Palestina e con gli stessi ebrei che, rimasti nella regione al tempo dell’esilio, avevano stabilito rapporti con le genti in essa residenti.

Con il Secondo Tempio la religione ebraica si era assestata come religione territoriale, circoscritta alla Terra promessa degli ebrei. In realtà gli ebrei erano usciti dalla loro terra e si erano diffusi in un mondo reso più omogeneo e permeabile dall’ellenizzazione e dalla romanizzazione, due fenomeni che pure avevano avversato la chiusura dell’ebraismo in se stesso e la sua pretesa di essere l’unica religione del territorio occupato dagli ebrei. Ellenizzazione, romanizzazione, diaspora e vicende interne alla società ebraica palestinese avevano anche cambiato la posizione del tempio e del sacerdozio nella società ebraica, facendo sorgere nuovi movimenti religiosi apocalittici, messianici, mistici e devozionali. I tabù religiosi tendevano così a perdere almeno una parte del loro contenuto identitario, per trasformarsi sempre di più in pratiche di salvezza in vista della venuta del messia o della vittoria sulla morte attraverso la sopravvivenza dell’anima o la resurrezione.

L’ebraismo territoriale e identitario poneva al centro delle proprie preoccupazioni la riproduzione del popolo ebraico, creando un’accurata protezione religiosa dell’ingresso in quel popolo attraverso una corretta procreazione, ma nei movimenti escatologici quella preoccupazione veniva meno, anche perché essi nascevano dall’insoddisfazione per il modo in cui erano andate le cose, quando il popolo ebraico si era rinchiuso nella propria territorialità e si era lasciato penetrare dalla civiltà ellenistica. In questi movimenti il disprezzo per la procreazione, insieme con l’accettazione dei tabù sessuali della purezza, privati però del significato territoriale e identitario, facevano della verginità il modo in cui le donne potevano entrare in comunità religiose speciali. Ci sono tracce che permettono di supporre che donne vergini o non più sessualmente attive potessero porsi accanto agli uomini nelle comunità di tipo monastico istituite dalle sette ebraiche radicali.

La verginità non era additata esplicitamente come un valore nella cultura classica pagana, anche se c’erano forme rituali di verginità, spesso interpretate come offerta esclusiva della propria sessualità a una divinità. Quando si erano occupati della famiglia, i filosofi non l’avevano proprio consigliata come un ingrediente opportuno della vita filosofica e spesso avevano messo in guardia contro il peso che essa poteva rappresentare; Platone poi l’aveva considerata un pessimo strumento di riproduzione della società e di distribuzione di risorse e di potere. Era un atteggiamento del tutto coerente con la diffidenza verso la sessualità, cui si accompagnavano, come ancora una volta nel caso di Platone, la sua spiritualizzazione e il rifiuto della procreazione, vista come una conseguenza dell’attività sessuale e non come un suo possibile fine. Del resto i movimenti filosofici, escluso Platone, non dedicavano alla sessualità un’attenzione particolare, né si occupavano specificamente delle donne, ma tutti, dal più al meno, cercavano di togliere importanza ai comportamenti che consideravano dominati dalle emozioni e dalla sensibilità; e tra questi si collocavano quelli sessuali, visti come modi per conseguire il piacere sensibile.

Il declassamento della sessualità aveva aperto dei varchi per la presenza di donne nelle comunità filosofiche, non tanto perché si riconoscesse la loro parità con gli uomini, quanto perché si dava meno importanza alle strutture sociali, in particolare familiari, nelle quali esse avevano sicuramente una posizione subordinata rispetto agli uomini. Non a caso Aristotele, che faceva della famiglia un livello importante della società, era un convinto assertore della superiorità dei maschi sulle femmine. Viste dall’esterno, le comunità filosofiche, fatte essenzialmente da uomini, ma nelle quali, almeno in alcune di esse, poteva esserci posto anche per le donne, colpivano perché, se in esse ci si occupava della sessualità, lo si faceva indipendentemente dal quadro familiare in cui la donna aveva una posizione precisa, circondata da rigidi confini; e ne nascevano fantasie sulla vita filosofica, che poteva essere raffigurata come una forma di licenza sessuale. I cinici condividevano probabilmente molte delle convinzioni dei platonici, ma esibivano disprezzo e rifiuto per le forme sociali, che spesso gli altri filosofi insegnavano ad accettare senza troppo impegno. Dalle loro sentenze sugli usi sociali e sulle forme di pudicizia correnti si ricavavano storie d’amore sfrenato e impudico tra maestri cinici e le loro compagne. Se si taceva della famiglia tradizionale o la si lasciava sullo sfondo, ma soprattutto se la si criticava, subito si affacciava l’incubo della femminilità tentatrice e pericolosa e s’immaginava che, fuori del recinto familiare, le donne diventassero esibizioniste svergognate, peggiori delle prostitute.

Il cristianesimo era nato e aveva preso forma nell’ebraismo della Giudea, forse addirittura nella Galilea, probabilmente in un clima segnato da movimenti escatologici e messianici, che tuttavia non erano incomprensibili né ai palestinesi ellenizzati né a quelli che conoscevano o praticavano altre religioni. Il cristianesimo si sarebbe poi diffuso anche nei ceti colti dell’impero e avrebbe sviluppato una propria cultura in latino e in greco, attingendo alla cultura ebraica, che aveva affrontato e subìto il confronto con l’ellenismo, ma lo aveva anche assimilato. Sia da parte pagana sia da parte cristiana risultava appropriato un confronto tra il cristianesimo e la filosofia pagana.

C’erano pratiche e credenze cristiane che ai filosofi risultavano incomprensibili, mentre gli scrittori cristiani erano interessati a mostrare i punti di contatto tra cristianesimo e filosofia, per poi sostenere che, proprio in quei punti, il cristianesimo era superiore alla filosofia. E nell’etica repressiva, costruita dai filosofi, i cristiani si trovavano a loro agio; anzi vi trovavano una ragione per dare un fondamento ai tabù ereditati dall’ebraismo, rimasti senza senso in un religione priva del legame territoriale con Gerusalemme e il suo tempio, per giunta distrutto dai romani. Già nell’ebraismo si era aperta la possibilità di considerare l’osservanza della legge e dei suoi tabù come una pratica di salvezza, ma per i cristiani la legge ebraica stava diventando sempre meno importante, mentre i filosofi offrivano un impianto in cui inserire alcuni di quei tabù senza più mantenere legami con la Terra promessa e il suo tempio o il ricordo del suo tempio.

I filosofi offrivano anche la cornice ideale per dare un senso alla posizione subordinata in cui collocare le donne, senza invocare la sua funzione di garanzia dell’appartenenza dei neonati al loro popolo, come facevano gli ebrei, né la concezione greca della famiglia o l’impianto romanistico del matrimonio. La figura della donna, mezzo per la riproduzione e fonte di piacere per i maschi, trovava posto nella struttura dell’anima ideata dai filosofi, nella quale i piaceri dovevano restare subordinati alle funzioni intellettuali superiori, quelle esercitate prevalentemente dagli uomini. Con l’impero il platonismo conosceva una rinascita, e il platonismo offriva un ricco arsenale di tecniche con le quali realizzare il controllo della vita emotiva. I neoplatonici erano perfino più imprudenti dei cristiani, perché attingevano da tutte le religioni tabù di purezza e pratiche ascetiche, e si affidavano volentieri alla magia teurgica, per ottenere l’identificazione con il divino, che ai cristiani era preclusa.

Tra le tecniche di purificazione i cristiani avrebbero introdotto la verginità, erede della dissociazione della sessualità dalla procreazione, teorizzata dai platonici e apprezzata dai gruppi religiosi escatologici. Nei Vangeli questa scelta non appare particolarmente apprezzata, ma nelle lettere apostoliche incominciano a comparire donne che rinunciano del tutto alla sessualità, per dedicarsi completamente ai compiti ausiliari loro spettanti nelle comunità cristiane nascenti. Già Paolo di Tarso, pur usando l’indulgenza verso le donne sposate, delineava una scala di valori, nella quale la rinuncia al sesso per la dedizione totale alla comunità occupava il grado più alto. Sarà però il monachesimo che fisserà questa gerarchia e che farà della verginità una forma di perfezione, destinata a diventare un modello anche per il clero ordinario. Nella tradizione filosofica si trovava uno schema con cui distinguere i gradi di realizzazione della purezza: da sempre i filosofi si erano tormentati sui rapporti tra quelli che si davano alla vita filosofica e gli altri, e i platonici si erano sottratti al radicalismo di stoici ed epicurei elaborando una gerarchia, in cima alla quale stavano coloro che erano riusciti a liberarsi completamente dalla vita sensibile e dai piaceri; ma c’era un posto anche per chi praticava una vita meno indipendente dal corpo e dalle cose.

L’indulgenza paolina nei confronti di donne ed ebrei superstiziosi poteva essere un accorgimento necessario nella turbolenta Corinto, in cui passavano missionari in concorrenza tra loro, ma, finiti i tempi dell’attesa di un ritorno imminente del messia, gli scrittori cristiani dovevano elaborare un codice di comportamento completo, ispirato alla modestia femminile, che aveva il proprio principio ispiratore nella censura del corpo. Tertulliano voleva che si velassero le ragazze, e non soltanto le donne sposate, cioè sottoposte a un uomo, ma le donne cristiane in generale dovevano stare attente a non lasciar trasparire traccia del proprio corpo, neppure accavallando i piedi sotto le vesti. Erano regole che dovevano risultare comprensibili anche a molti pagani colti o a ebrei devoti e che trovavano giustificazioni nelle filosofie rispettabili, lontane dai radicalismi dei cinici. Del resto Plinio il Giovane, che mostrava curiosità e interesse per i cristiani, osservava compiaciuto che la propria moglie aveva assistito all’esibizione pubblica del marito in modo riservato, dietro a una cortina.

Uno dei testi più antichi contenente regole per le comunità cristiane, come la Didaché, raccomandava di astenersi dai desideri della carne, di non abbandonarsi alla concupiscenza, di non praticare la fornicazione, di non fare discorsi osceni, di non lanciare sguardi immodesti, origine degli adulteri. Queste esortazioni, non in grande evidenza nei Vangeli, erano mescolate con altre, che invece riprendevano quelle che, presenti nei Vangeli, sono state presentate come le grandi massime della più nobile etica cristiana, fondata sulla carità, il perdono, la rinuncia alla rivalsa, la fiducia nel trionfo degli umili. Nella Didaché si vede il profilo di antiche comunità cristiane, con le loro regole interne, le loro gerarchie, le forme di controllo della collettività sui singoli fedeli, un rituale religioso, un contesto in cui le grandi regole morali mirano soprattutto, al pari di quelle sessuali, a dissimulare le comunità religiose entro il mondo circostante, che non devono provocare, accettandone i criteri di giudizio fino all’esasperazione, perché, sullo sfondo, c’è la fiducia nella rivalsa degli umili, anche se l’atteggiamento escatologico è già diventato molto sfumato e incorporato nella vita comunitaria.

L’aver fatto posto alla perfezione nella gerarchia delle prestazioni religiose sarà una minaccia costante per il cristianesimo romano, una via di fuga dal controllo delle autorità episcopali, nella quale si infileranno le eresie. E intorno agli eretici, e soprattutto ai perfetti che prenderanno la loro guida, si scateneranno le fantasie erotiche dei loro persecutori. Che cosa voleva dire essere perfetti? Essere puri? Liberi dal sesso, ma perché non soggetti alle sue tentazioni e lusinghe o perché liberi di esercitarlo senza remore? Erotismo femminile sfrenato e omosessualità maschile diventeranno i comportamenti che gli ortodossi attribuiranno agli eretici, come era già accaduto nel cristianesimo delle origini. Le donne, spostate dal luogo in cui la società antica e i filosofi le avevano collocate, erano ancora una volta l’immagine concreta di ciò cui può condurre la rivendicazione dell’indipendenza dalle gerarchie.

L’aver collocato il clero nella zona della perfezione si rivelerà una minaccia esiziale nel momento della riforma protestante, quando i laici rivendicheranno il diritto di giudicare il clero e daranno un giudizio negativo sul clero romano. Nel protestantesimo la perfezione come liberazione totale dalla sessualità perderà ogni valore, ma non per questo cambierà la posizione delle donne, che dovranno conservare il posto assegnato loro da filosofi, teologi e legislatori. Un autore saggio e illuminato, gran conoscitore delle cose del mondo e della storia, come Montesquieu, vedrà ancora nelle donne una possibile insidia per le società: non erano state forse le donne, inserendosi nella trasmissione ereditaria dei patrimoni, a indurre una delle trasformazioni fatali all’impero romano? Perché le donne sono da sempre uno dei veicoli attraverso il quale la disponibilità di ricchezza genera il lusso, creando una domanda di beni superflui. E il tormentato Kant amava ascoltare i marinai che gli propinavano storie sugli abitanti dei mari del Sud, dediti all’ozio e occupati soltanto a riprodursi nel piacere; Kant doveva essere attratto da quella vita, ma vedeva in essa un pericolo da cui guardarsi, il frutto proibito del legno storto di cui è fatto l’uomo.

Il corpo e la carne

La cultura pagana, almeno nell’immagine che ne abbiamo ricevuta, non sembra ossessionata dal corpo, dal corpo umano come dalla corporeità delle cose materiali, quanto lo è stato il cristianesimo. Nella società antica, fatta prevalentemente per uomini, il corpo maschile era spesso ostentato e la figura degli organi sessuali maschili poteva essere esibita in luoghi pubblici. Le donne di più alta condizione, raffigurate coperte, erano tenute a rispettare le regole del pudore, ma non ci si richiamava al corpo per giustificarle. Neppure i filosofi lo facevano: per loro il corpo poteva essere una fonte di problemi, perché condizionava l’esercizio del pensiero puro o perché aveva bisogni, dei quali ci si doveva occupare. Le cose necessarie per soddisfarli erano «beni del corpo», che, accanto ai «beni esterni», come la ricchezza o la buona reputazione, occupavano un posto non eccelso nelle scale di valori elaborate dalle scuole filosofiche. Proprio per il loro modesto piazzamento, la ricerca dei beni del corpo doveva essere disciplinata, perché preoccuparsi di ciò che fosse utile alla soddisfazione di un bisogno del corpo avrebbe compromesso la cura dei beni dell’anima: a che cosa servivano le virtù, se non a esercitare quella sorveglianza? E tra i beni del corpo da usare con misura o addirittura da evitare c’era il sesso. I filosofi non entravano troppo nei particolari, ma qui le donne erano indirettamente presenti; anche i maschi, perché l’omosessualità poteva dar luogo a comportamenti considerati poco virili, ma, quando entravano in gioco le donne, si rischiava di far saltare la famiglia, che i filosofi potevano anche evitare, non però minacciare.

Anche se le donne evocavano subito la famiglia e la società, i filosofi collocavano tutto ciò che le donne rappresentavano in uno spazio ricavato nella teoria dell’anima. Lo schema filosofico doveva passare agli scrittori cristiani, che avevano accettato il confronto con la filosofia, ed essere usato sia nell’escatologia sia nella morale cristiane. Proprio l’escatologia, la teologia della salvezza e il mito della resurrezione inducevano a concepire il corpo come carne, un tema che i filosofi antichi avevano evitato. Le minute e fosche immaginazioni di Agostino sulla carne dei dannati, che brucia senza mai consumarsi, per garantire l’eternità delle pene, sono eloquenti. La carne era vista come lo strumento per la sovversione della gerarchia ereditata dai filosofi, una sovversione intesa dai cristiani come tentazione, secondo il suggerimento ricavato dalla narrazione biblica del peccato originale; e le donne, portatrici della tentazione sessuale, dovevano essere temute soprattutto come carne, da tenere velata. Una sfida decisiva a tutto ciò si sarebbe profilata quando la mentalità scientifica moderna avrebbe interpretato la coppia di anima e corpo in termini non di contrapposizione, ma di distinzione. Questo mutamento, apparentemente innocente e puramente dottrinale, doveva avere una conseguenza importante, perché risultava che il corpo era capace di svolgere, anche senza l’intervento dell’anima, le funzioni che i filosofi classici avevano creduto di dover attribuire a parti inferiori dell’anima. Molti filosofi moderni, a cominciare da Cartesio, conservavano l’antica gerarchia di valore tra anima e corpo, limitandosi a rendere le manifestazioni inferiori della vita umana azioni puramente meccaniche, attribuibili al solo corpo. Perfino molti degli irrispettosi illuministi continuavano a ritenere che le manifestazioni più alte della mente umana non potessero essere attribuite al corpo.

La cacciata dell’anima dalla materia, dalla natura e dal corpo proponeva un programma di lavoro a una parte della filosofia moderna, che tentava di tradurre nel linguaggio della materia e del corpo ciò che era stato attribuito all’anima. La vecchia associazione tra la femminilità e la carne non era più uno svantaggio per le donne, perché anche gli uomini erano soltanto carne e materia e perché la materia e la carne bastavano a produrre i prodotti sublimi della cultura maschile. Da questa prospettiva sono nati modi nuovi di considerare le donne e riforme culturali e sociali che hanno cercato di trasformare modi di pensare e istituzioni costruiti sull’assunto dell’inferiorità femminile. Utilitaristi e positivisti, soprattutto saint-simoniani, hanno elaborato dottrine e costruito immagini nelle quali il riconoscimento dei diritti delle donne è stato ampiamente affermato, ma soprattutto hanno indicato nell’apertura delle scuole e della vita politica alle donne la via da percorrere. La conoscenza della materia e l’invenzione di tecniche con le quali usarla hanno messo a disposizione mezzi efficaci per offrire alle donne possibilità e risorse che prima non erano a portata di mano e in virtù delle quali le donne sono uscite di casa; e la cosa ha riguardato non élite femminili ristrette, ma la massa delle donne delle società industriali. L’invenzione di macchine per i lavori domestici ha consentito di rompere il vincolo materiale che chiudeva le donne nelle mura della casa. Su un altro versante la diffusione delle pratiche contraccettive ha permesso alle donne l’esercizio di una sessualità libera, non subordinata alla procreazione o bollata come socialmente e moralmente riprovevole.

A utilitaristi e positivisti non sono andate le simpatie di filosofi e storici, che hanno loro rimproverato di aver passivamente accettato le indebite rivendicazioni di primato di scienziati o ideologi della conoscenza scientifica. Con questa critica gli umanisti cercavano di esorcizzare non solo il fatto che avevano dovuto rinunciare alla conoscenza della natura, ma anche il rischio di dover riconoscere la scarsa affidabilità delle forme di sapere che avevano sempre coltivato. Il rifiuto di positivismo e utilitarismo si inseriva in un movimento di rivolta contro il sapere scientifico moderno, che segna gran parte della filosofia della fine dell’Ottocento e del Novecento, un movimento guidato dalla cultura filosofica tedesca, in cui si era conservata l’eredità della scolastica medievale, regredita, fra Seicento e Settecento, nel resto dell’Europa. Attingendo al patrimonio scolastico i filosofi tedeschi proponevano alternative al sapere scientifico o concezioni che lo sottomettessero a forme di sapere superiori o sue reinterpretazioni che comunque ne limitassero le pretese. In sostanza si trattava di rimettere l’anima nella materia e nella natura, facendo della natura o la manifestazione puramente fenomenica di una realtà spirituale, o il frutto di pure costruzioni intellettuali umane, o una rappresentazione proiettata sulle cose soltanto per giustificare tecniche escogitate per dominare cose e uomini.

In un modo o nell’altro si riduceva l’espulsione dell’anima dal corpo a un ingrediente per esercitare il controllo totale delle attività umane. Come si poteva dire allora che le filosofie utilitariste e positiviste e lo sviluppo delle tecniche generate dall’ingegneria o dalla medicina avessero contribuito a liberare le donne? Perché, al contrario, si trattava semplicemente di un’estensione ancora più penetrante del controllo sulla realtà. Liberando le donne dal loro legame con la procreazione, l’allevamento dei figli, la cura della casa e i lavori domestici, le si rendeva simili agli uomini, capaci di una sessualità indipendente e si profilava per loro perfino la possibilità di generare senza bisogno di avere un rapporto sessuale: la donna smetteva così di essere soprattutto corpo, come era stata per i filosofi antichi, e carne tentatrice, come i cristiani avevano tradotto l’idea dei filosofi. Le donne erano corpo e sessualità come lo sono gli uomini o, addirittura, si invertivano le parti, perché un uomo ha bisogno di una donna per diventare padre, mentre a una donna basta il seme di un uomo, per generare, e può comunque decidere da sé sulla gravidanza, anche se iniziata nel rapporto con un uomo. Ma, per chi sospettava di tutto ciò che provenisse dalla conoscenza scientifica e dall’invenzione di tecniche, quelle cose producevano una liberazione apparente delle donne, perfino peggiore del loro asservimento, perché abolivano sì le restrizioni che esse avevano subìto, ma le omologava in una realtà indifferenziata.

L’immagine della donna come carne tentatrice non poteva essere cancellata semplicemente con la crescita delle conoscenze scientifiche o il perfezionamento di tecniche operative, senza un mutamento culturale profondo di tutta la società, che partisse dal riconoscimento dei meccanismi diffusi di dominio. Per questo storici convinti dell’arbitrarietà delle servitù imposte alle donne hanno visto con favore le posizioni di Paolo di Tarso, il quale era indulgente con le donne vincolate alla famiglia, ma prefigurava un mondo futuro in cui le differenze tra uomini e donne non avrebbero più contato. La verginità era stata la condizione ideale che il cristianesimo dei padri e della Chiesa medievale aveva additato a uomini e donne, per liberarli dalla sessualità e dalla procreazione: non era forse un modo, imperniato su un’escatologia, per togliere la donna dai vincoli imposti dalla società pagana e metterla sullo stesso piano degli uomini? Una specie di verginità democratica. L’escatologia era la strada da battere, il rovesciamento della realtà, senza farsi ingannare dalle immagini fallaci, dispensate in nome della conoscenza scientifica delle cose. Una forma estrema di controllo dei comportamenti era stata la confessione, quale si era configurata secondo le indicazioni ecclesiastiche, ma Foucault, sciaguratamente, metteva sul medesimo piano la confessione e la mentalità scientifica moderna, perché entrambe pretendevano di imporre a ogni persona di riconoscersi in uno stereotipo.

Questi temi sono prevalsi nella saggistica e nella storiografia sul corpo e sulle donne, suggerendo indulgenza per le posizioni religiose, soprattutto per quelle considerate originarie, non ancora inquinate da una qualche organizzazione ecclesiastica e non ancora trasformate in strumenti di controllo sociale. Indipendentemente dalla questione del corpo e delle donne, il mito dei gruppi religiosi allo stato nascente era stato largamente applicato nella storia del cristianesimo e della cultura occidentale in generale, sicché lo si poteva tranquillamente usare in storie della sessualità ispirate all’idea che la degenerazione del cristianesimo primitivo avesse trovato qualcosa di equivalente, al sorgere dell’età moderna, nell’irrigidimento del sapere attraverso la conoscenza scientifica istituzionalizzata. Quando il discorso si è fatto, da genericamente filosofico, politico, anziché di illuminismo o modernità, si è brutalmente parlato di capitalismo: solo la liberazione dal capitalismo consente una nuova concezione del corpo e un’autentica liberazione delle donne, salvando dall’equivoco che conoscenza e tecnica possano offrire cose delle quali fidarsi.

Dicevamo all’inizio che le dichiarazioni di papa Bergoglio non sono di fatto così innovative rispetto alle posizioni dei suoi predecessori, almeno a cominciare da Giovanni XXIII. Si può capire che le cose dette in abiti ancora pontificali e con morbide raffinate scarpette ai piedi appaiano diverse, se pronunciate da uno che calza ruvide e solide scarpe nere. Ma non ci sono soltanto questi elementi «esterni», perché l’indulgenza di cui papa Francesco ha goduto è forse dovuta anche al contesto culturale in cui l’ha inserita. Le sue «aperture» sulla sessualità e sulle donne, già di per sé convenzionali, soprattutto le seconde, sono state accompagnate da solenni dichiarazioni sull’immutabilità degli articoli di fede e della dottrina teologica, addirittura dell’organizzazione ecclesiastica; eppure queste cose sono sfuggite non soltanto a Eugenio Scalfari, travolto da intemperanza filosofica, ma alla generalità di quelli che gli hanno dato ascolto.

Poiché il papa non ha troppo insistito sulla fedeltà alla dottrina, sulla condanna dell’aborto, sul celibato ecclesiastico, sul sacerdozio riservato ai maschi, si è pensato che di fatto avesse rivoluzionato i princìpi ai quali si era sempre ispirata la Chiesa di Roma e le sue moderatissime parole sulle donne e sulla sessualità sono state messe in relazione con la cornice pauperistica in cui ha collocato quasi tutti i suoi messaggi. Il pauperismo fa parte della retorica del cristianesimo, e il papa non l’ha approfondito, trattandolo anzi con la disarmante semplicità che gli è propria. Ma, accompagnato a un’apparente estraneità a ogni forma di sofisticazione intellettuale, esso è stato preso come un rifiuto della società opulenta in preda a un crisi imputabile alla sua stessa efficienza, che scarica sui poveri i prezzi del progresso. I banchieri, i capitalisti sempre più ricchi, i mercanti di armi sono sembrati gli obiettivi contro i quali il papa si scagliava. Dunque finalmente un papa che scioglie le vere catene contro le quali riforme sociali, strumenti materiali per liberare dal lavoro domestico, tecniche per il controllo della sessualità e della procreazione non possono nulla? Nessuno sembra più ricordare che spesso povertà e devozione religiosa vanno insieme, che l’una e l’altra generano solidarietà bellicose più che convivenze pacifiche e non sono il clima adatto per attribuire diritti alle donne. Induce a dimenticare tutto ciò l’immagine di un cristianesimo fatto di poveri trionfanti nella loro povertà e di donne libere nell’accettazione del loro posto accanto, un po’ sotto, agli uomini, come Maria accoccolata ai piedi di Gesù nella casa di Lazzaro.