Il celibato non è un dogma, ma regola con eccezioni

Alberto Melloni
Corriere della Sera, 28 settembre 2014

Fra i temi difficili banalizzati nel discorso pubblico il celibato dei preti ha un posto speciale.
Dall’amante di Usimbalda del Boccaccio a La moglie del prete di Dino Risi c’è una letteratura alta
che si interroga sul «matrimonio dei preti»: un problema che in sé non esiste. Nella Chiesa cattolica
chi fa una scelta celibataria ha tutto il diritto di rinunciarvi (e ne esce con prezzi spesso inferiori a
quelli che paga chi esce da un matrimonio o dalla sublimazione della propria omosessualità).

Sicché un prete che abbia compiuto un percorso di «riduzione» ( sic !) allo stato laicale, conserva tutti i diritti dei fedeli,
ma non l’esercizio del ministero, che molti rimpiangono o desiderano riavere.

Ma questo è un nodo di disciplina: ciò su cui la Chiesa cattolica di oggi si interroga non è se far
sposare i preti, ma se continuare a sceglierli (lasciando da parte la questione di ministeri non
preclusi alle battezzate e dell’età delle scelte oggi scivolata in avanti) fra cristiani con una
vocazione al celibato o anche fra sposati.

Nella storia del cattolicesimo la vocazione al celibato come criterio di selezione del clero, infatti,
non è affatto una costante. La Chiesa antica dava il ministero a uomini con moglie, come ancora
fanno le Chiese ortodosse e le Chiese cattoliche di rito orientale. E, oltre ai viri probati a cui il
Concilio Vaticano II ha dato il restaurato ministero di diaconi, Benedetto XVI, col motu proprio
Anglicanorum coetibus , ha accolto nella Chiesa latina preti e vescovi anglicani sposati, che hanno
lasciato la loro confessione insofferenti alle aperture sui gay.

La scelta di cercare i candidati al presbiterato fra i celibi, infatti, appare come un’opzione fin dalla prima Chiesa
(Paolo non prende moglie e relativizza fortemente il matrimonio), ma tende a diventare regola solo dal secolo VIII,
poi si consolida come norma con la riforma gregoriana del secolo XI e diventa chiave della formazione con i seminari del Concilio di Trento.

Dibattuta teologicamente a più riprese — da Lutero che vi oppone la figura del pastore come marito
esemplare, al Vaticano II che non ne discute perché Paolo VI pensa di poter decidere meglio da solo
— quell’autolimitazione viene oggi guardata con occhi diversi: non per una questione di disciplina
o di morale o di terapia della sublimazione nevrotica della corporeità del celibe, e nemmeno perché
le amanti dei preti incontrano dilemmi e tormenti forse non così diversi da quelli di altre coppie
clandestine. Ma per una questione di ministero.

Per far sì che la celebrazione eucaristica sia davvero universale quanto a estensione, è necessario
avere un numero adeguato di pastori d’anime per piccoli greggi: grandi adunate, meeting,
organizzazioni spettacolari possono esserci o no, nella Chiesa; ma qualcuno che tolga la vita
cristiana dall’individualismo e dalla paura, che le dia forma eucaristica, esige una scelta: limitare il
discernimento ai maschi con una vocazione celibataria (oggi, finita una cultura repressiva, con un
vissuto che può essere sia omosessuale che eterosessuale) o cercare un discernimento anche fra gli
sposati. Ma che sia per le comunità, non per una dignità o funzionalità o una paura.