Nel segno dell’apertura e della misericordia. Le richieste di un vescovo per il Sinodo sulla famiglia

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 34 del 04/10/2014

Che un vescovo in attività prenda le distanze, in maniera morbida ma non per questo meno chiara, dal Magistero ecclesiastico su questioni morali relative alla famiglia non è certamente cosa di tutti i giorni. Eppure è esattamente questo che ha fatto, alla vigilia del Sinodo straordinario sulla famiglia che prenderà avvio il 5 ottobre, il vescovo di Anversa Johan Bonny (v. Adista Notizie n. 32/14), il quale, esprimendo in una lunga riflessione le sue attese sul Sinodo, a cui peraltro non prenderà parte, non risparmia critiche al Magistero di Paolo VI e Giovanni Paolo II, in relazione alla Humanae vitae (1968) e alla Familiaris consortio (1981). Ponendo l’accento sulla crescente distanza tra l’insegnamento morale della Chiesa sul matrimonio, la famiglia e la sessualità e la visione dei credenti, il vescovo belga indica possibili piste di ricerca per superarla (non senza richiamarsi a più riprese all’Evangelii gaudium di papa Francesco), invitando la Chiesa ad abbandonare proprio in questo campo, che è poi quello in cui i fedeli sperimentano «la felicità più grande o la sofferenza più grande», il suo atteggiamento difensivo o antitetico rispetto al mondo e a riprendere la via del dialogo.

Di seguito, alcuni stralci delle sue riflessioni, rimandando per una lettura integrale del suo lungo e ricco intervento, anche in lingua italiana, all’indirizzo: www.kerknet.be/vicariaatvbm/nieuws_detail.php?ID=349&nieuwsID=125328.

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Le aspettative di un vescovo diocesano

Johan Bonny

(…). Come vescovo, in che modo vedi il prossimo Sinodo? Mi è capitato spesso di sentire questa domanda negli ultimi mesi. Da una parte cerco di leggere e capire con attenzione le risposte provenienti dal nostro Paese e dai Paesi vicini. (…). Esse provengono da persone coinvolte in prima istanza: gente che attualmente si impegna nella propria relazione, nel proprio matrimonio e nella propria famiglia, alla luce del Vangelo e in connessione con la comunità ecclesiale.

Dall’altra parte cerco di capire come un vescovo possa tener conto delle idee e delle attese che si vivono in quella parte del popolo di Dio a lui affidata. Certamente non posso anticipare il prossimo Sinodo e quanto diranno i vescovi insieme a papa Francesco sul matrimonio e sulla famiglia. Tuttavia, con questo mio contributo, vorrei indicare alcune aspettative personali.

1. LA COLLEGIALITÀ

La mia formazione al sacerdozio è iniziata nel 1973: otto anni dopo la fine del Concilio Vaticano II (1962-1965) e cinque anni dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae (1968). Sin da allora ho dovuto constatare come questioni importanti relative alla relazione, alla sessualità, al matrimonio e alla famiglia costituissero un ambito particolarmente conflittuale nella Chiesa. Molti credenti, soprattutto quelli impegnati nelle istituzioni e nei movimenti ecclesiali, non si ritrovavano più nei testi del Magistero e nei pronunciamenti morali provenienti da Roma. Questo divario, con il tempo, invece di ridursi si è allargato sempre di più, fino al punto che il susseguirsi di documenti del Magistero relativi a questioni sessuali, familiari e bioetiche si scontrava con una crescente incomprensione e indifferenza. (…).

La crescente distanza tra l’insegnamento morale della Chiesa e la visione morale dei credenti è una problematica complicata. Indubbiamente siamo qui in presenza di fattori diversi. Uno di questi riguarda il modo in cui questa materia, dopo il Concilio Vaticano II, è stata in gran parte sottratta alla collegialità dei vescovi e vincolata quasi esclusivamente al primato del vescovo di Roma. Al centro della questione etica circa matrimonio e famiglia sorse una questione ecclesiologica: quella relativa al giusto rapporto tra il primato e la collegialità nella Chiesa cattolica. (…).

Durante il Concilio Vaticano II i vescovi, insieme al papa, cercarono il massimo consenso possibile. Tutti i documenti furono soppesati, scritti e riscritti, fino a che, più o meno, tutti i vescovi potessero esprimere il loro consenso. (…). Appena tre anni dopo, in occasione della pubblicazione dell’Humanae vitae, di quella collegialità non rimaneva che pochissimo. (…).

Non spetta a me giudicare come le cose sono andate allora e come Paolo VI sia giunto alla sua decisione. Ciò che comunque mi preoccupa è il fatto che l’assenza di una base collegiale abbia causato subito tensioni, conflitti e rotture mai più risanati. In quel periodo sono state chiuse, da una parte e dall’altra, porte che da allora non si sono più riaperte. (…).

Questa discordia non deve prolungarsi. Il legame tra la collegialità dei vescovi e il primato del vescovo di Roma, come fu vissuto durante il Concilio Vaticano II, va restaurato. Questa restaurazione non può essere rimandata più a lungo. Lì si trova la chiave per un nuovo e migliore approccio di molte questioni nella Chiesa. Collaborare a questo fa parte, secondo me, del ruolo di un vescovo oggi. Ovviamente un approccio più collegiale non porta di per sé alla soluzione di tutti i problemi. La collegialità non è un percorso facile. Essa può far emergere nuove tensioni e provocare rotture. (…). E, tuttavia, ritengo che la Chiesa cattolica, proprio nel campo del matrimonio e della famiglia, abbia urgente necessità di una nuova e più forte piattaforma di collegialità nel processo deliberativo e decisionale. Spero che il Sinodo prossimo contribuisca in questo senso. (…).

2. LA COSCIENZA

(…). Un mese dopo la pubblicazione dell’Humanae Vitae, i vescovi belgi pubblicarono una Dichiarazione comune. (…).

Nel loro testo i vescovi belgi trattarono la questione della coscienza personale, in linea con la tradizione cattolica e con la Costituzione Gaudium et Spes. Leggiamo inoltre: «Se tuttavia qualcuno, competente in questa materia e capace di formarsi un giudizio personale ben stabilito – cosa che presuppone necessariamente una informazione sufficiente -, pervenisse su determinati punti, dopo un serio esame davanti a Dio, ad altre conclusioni, questi è legittimato a seguire in questo campo la sua convinzione, a condizione che rimanga disposto a continuare lealmente le sue ricerche». E ancora: «Si deve riconoscere, secondo la dottrina tradizionale, che l’ultima regola pratica è dettata dalla coscienza doverosamente illuminata secondo tutti i criteri esposti dalla Gaudium et Spes (Gaudium et Spes, nr. 50, par. 2; nr. 51, par. 3) e che il giudizio sull’opportunità di una nuova trasmissione della vita appartiene in ultima istanza ai genitori stessi, che devono deciderne davanti a Dio». Diverse altre Conferenze Episcopali pubblicarono negli stessi mesi Dichiarazioni simili con un richiamo analogo al giudizio personale della coscienza.

Queste parole sulla coscienza, per quanto fossero e accurate, non trovarono la giusta valutazione da parte dei difensori dell’enciclica Humanae vitae. Al contrario, esse vennero dipinte come diserzione, come rinnegamento nei confronti del papa e come leva per il relativismo, il permissivismo e il libertinismo. (…). Da quel momento in poi molti vescovi preferirono il silenzio alla polemica. (…).

La conseguenza di questa polarizzazione fu che la coscienza, nell’insegnamento della Chiesa su sessualità, matrimonio, pianificazione familiare e controllo delle nascite, slittò evidentemente in secondo piano. Perdeva il suo posto legittimo in una sana riflessione di teologia morale. Nell’Esortazione Apostolica Familiaris consortio non c’è che un breve accenno al giudizio personale della coscienza sul metodo della pianificazione familiare e del controllo delle nascite. Tutto è posto nel segno della verità del matrimonio e della procreazione così come la Chiesa la insegna, associato all’obbligo che hanno i credenti di far propria questa verità e di metterla in pratica. Partendo dalla legge naturale determinati atti sono qualificati come “buoni” o come “intrinsecamente disordinati”, prescindendo da ogni ambiente, esperienza o storia personale. (…).

Cosa mi aspetto dal prossimo Sinodo? Che possa restituire alla coscienza il suo posto legittimo nell’insegnamento della Chiesa, in linea con la Gaudium et Spes. Si risolveranno in questo modo tutti i problemi? Naturalmente no! Il modo in cui la coscienza pervenga ad una decisione retta non è una questione semplice. Cosa è una coscienza ben formata? Come può essa conoscere la legge che Dio “ha posto nel nostro cuore”? Come si relaziona la coscienza nei confronti del Magistero della Chiesa? E viceversa: come si relaziona il Magistero della Chiesa nei confronti della coscienza? Come può la coscienza tener conto della “legge della gradualità” e della pedagogia del progresso graduale nel processo di crescita al quale non sfugge nessuna persona? Come può la coscienza esercitare la virtù della epikeia, ossia dell’equità, quando la lettera e lo spirito della legge entrano in conflitto tra di loro? Per l’essere umano di oggi, che attribuisce grande importanza alla formazione di un giudizio personale e motivato della coscienza, si tratta di questioni pertinenti. Senza che il Sinodo debba rispondere a tutte queste domande, spero comunque che esse trovino un’adeguata attenzione. (…).

3. LA DOTTRINA

In questi ultimi mesi di preparazione al Sinodo ho sentito o letto diverse volte: “siamo d’accordo con il fatto che il Sinodo si impegnerà per una maggiore flessibilità pastorale, ma non potrà toccare affatto la dottrina della Chiesa”. (…). Questa contrapposizione tra “pastorale” e “dottrina” mi sembra inadeguata, sia teologicamente che pastoralmente. (…).

In breve, la dottrina della Chiesa cattolica su matrimonio e famiglia è rinvenibile in una larga tradizione, che durante la storia ha sempre conosciuto nuove forme e nuovi contenuti. Questo racconto ancora non è concluso. In ogni tempo la Chiesa si trova a confrontarsi con nuove domande e nuove sfide. Ogni volta di nuovo deve trovare il coraggio di rileggere il suo insegnamento alla luce di tutta la tradizione della Chiesa. Cosa significa questo per l’oggi? Vorrei qui proporre alcuni elementi teologici, elementi su cui la tradizione, a mio giudizio, dice più di quanto possa apparire da documenti recenti del Magistero ecclesiale. Oltre che della coscienza a cui facevo riferimento sopra, vorrei parlare della legge naturale, del sensus fidei e della complementarietà dei modelli di teologia morale.

L’Instrumentum Laboris in preparazione del prossimo Sinodo dei Vescovi è molto chiaro: per la stragrande maggioranza delle risposte e delle osservazioni il concetto di “legge naturale” risulta oggi essere, nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non addirittura incomprensibile. (…). L’inserimento storico ed esistenziale del giudizio della coscienza può combinarsi con il concetto di “legge naturale” e, se sì, come? La Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato nel 2009 un documento dal titolo: “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge universale”. Il documento parla tra l’altro della prudenza che bisogna avere quando si ricorre al concetto di “legge naturale” per stabilire delle norme concrete di comportamento: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (n. 59). Il documento sottolinea inoltre il carattere storico e dinamico della legge naturale: «Chiamiamo legge naturale il fondamento di un’etica universale che cerchiamo di ricavare dall’osservazione e dalla riflessione sulla nostra comune natura umana. Essa è la legge morale inscritta nel cuore degli uomini e di cui l’umanità prende sempre più coscienza via via che avanza nella storia. Questa legge naturale non ha niente di statico nella sua espressione; non consiste in una lista di precetti definitivi e immutabili. È una fonte di ispirazione che zampilla sempre nella ricerca di un fondamento obiettivo a un’etica universale» (n. 113). Brevemente: l’etica cristiana, per giudicare e decidere, necessita di uno spazio più ampio di quello che lascia un approccio statico o apodittico alla “legge naturale”. (…).

Un altro elemento della nostra tradizione teologica riguarda il sensus fidei, ossia il senso della fede dei credenti cristiani. Nell’Evangelii Gaudium papa Francesco scrive: lo Spirito guida il Popolo di Dio «nella verità e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerla con precisione». Come risulta dall’Instrumentum Laboris, la maggior parte dei fedeli sottoscrive, in quasi tutti i Paesi o continenti, i pensieri e le preoccupazioni principali della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia. Sappiamo comunque che una grande maggioranza di cristiani onesti e ben informati già da tempo non condivide e persino rifiuta determinati concetti teologico-morali o comandamenti e divieti morali. Nel 2014 la Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato un documento sul sensus fidei nella vita della Chiesa (…): «Problemi sorgono quando la maggioranza dei fedeli rimane indifferente a determinate decisioni morali e dottrinali prese dal Magistero o quando le respinge con evidenza. Questa mancanza di ricezione può indicare una debolezza o una mancanza di fede da parte del popolo di Dio, causati da un abbraccio insufficientemente critico della cultura contemporanea. Ma in alcuni casi può indicare che certe decisioni sono state prese da coloro che hanno autorità senza la dovuta considerazione dell’esperienza e del sensus fidei dei fedeli, o senza una sufficiente consultazione dei fedeli da parte del Magistero» (n. 123). La «sufficiente consultazione dei fedeli» non deve partire dal niente, visto che già da molto tempo preziose idee ed esperienze del popolo di Dio aspettano di essere prese in considerazione e diventare oggetto di un dibattito più approfondito.

Un terzo elemento della dottrina che vorrei segnalare, riguarda l’evoluzione della teologia morale nel periodo postconciliare. Dopo l’Humanae vitae e la Familiaris consortio, la dottrina della Chiesa Cattolica si è trovata legata quasi esclusivamente ad una determinata scuola di teologia morale, costruita su una propria interpretazione della legge naturale. Rappresentanti di altre interpretazioni della legge naturale o di altre scuole di teologia morale, in particolare la scuola personalistica, vennero visti con sospetto ed emarginati. (…). Questo sviluppo politico ecclesiale non ha fatto bene al dibattito teologico-morale nella Chiesa e soprattutto all’evangelizzazione. A mio parere il prossimo Sinodo non darà che un limitato contributo all’evangelizzazione del matrimonio e della famiglia se non ristabilirà innanzitutto il dialogo con l’ampia tradizione di teologia morale della Chiesa. Da sempre nella Chiesa hanno funzionato modelli diversi di teologia morale. Soltanto nello loro complementarietà, questi modelli sono in grado di valorizzare la ricerca multipla del pensiero umano della verità e della bontà. (…).

4. LA CHIESA COME COMPAGNA DI VIAGGIO

Fortunatamente incontro ogni giorno persone che si impegnano nel loro matrimonio e restano fedeli alla promessa reciproca fatta davanti all’altare. (…).

Al contempo noto, come vescovo, quanto possa essere complessa oggi la costruzione di una relazione, un matrimonio e una famiglia. Quotidianamente mi capita di ascoltare storie di vita fatte di fallimenti e di ricominciamenti, di debolezza e di perseveranza, di resistenza nei confronti dei meccanismi sociali ed economici, di cura reciproca nelle situazioni difficili. (…). Come può la Chiesa essere ugualmente loro compagna di viaggio? (…).

Cosa spero allora da questo Sinodo? Che non divenga un sinodo platonico. Che non si ritiri sull’isola sicura delle discussioni dottrinali e delle norme generali, ma abbia uno sguardo aperto per la realtà concreta e complessa della vita. (…).

Difatti, qui stiamo parlando di Gesù Cristo e della missione che Egli ha affidato alla Chiesa. Che tipo di persone frequentava Gesù e in che modo lo faceva? Gesù e i suoi discepoli suscitavano una forte impressione nel loro ambiente. Erano molto vicini alla gente. A differenza di altri gruppi religiosi o sociali, venivano visti come persone normali e semplici. Senza pretese andavano per la loro strada. E allo stesso tempo lasciavano intravedere qualcosa che li distingueva, che suscitava meraviglia. Per la gioia di molti e lo scandalo crescente di altri. In cosa consisteva questa diversità che essi mostravano? Tra l’altro nel loro essere liberi e nel portare gioia; nel loro rimettere al centro chi era stato condannato o si era perso, nel loro invocare la misericordia e il perdono, nel loro rifiuto di ogni forma di esercizio di potere o di violenza, nel loro voler occupare l’ultimo posto e nel loro credere nella forza dell’amore che non conta sulla ricompensa. (…). Gesù, d’altronde, non dava un carattere di esclusività alla comunità che si raccoglieva intorno a Lui. Egli accolse e raccolse persone intorno a sé in cerchie diverse. Tra la cerchia esterna e quella interna Egli permetteva diverse sfumature. Per dirla con il linguaggio figurato dello stesso Gesù: Egli era a volte come un seminatore, a volte come un pastore, a volte come colui che invita a tavola. Questa costruzione concentrica fa parte dell’architettura della comunità ecclesiale così come Gesù l’ha voluta strutturare. Io spero che il Sinodo valorizzi questa architettura. (…).

5. SITUAZIONI “REGOLARI” E “IRREGOLARI”

Nel suo linguaggio corrente la Chiesa parla di situazioni “regolari” ed “irregolari”. (…). Non è mia intenzione negare la legittimità di questa distinzione. (…). E tuttavia dobbiamo essere prudenti nel fare distinzioni del tipo “regolare” o “irregolare”. La realtà è spesso molto più complessa di quanto possa racchiudere l’uso di due concetti opposti: bene o male, vero o non vero, giusto o ingiusto. Questo tipo di pensiero bipolare raramente rende giustizia a tutto il racconto della vita delle persone e alle situazioni in cui esse si trovano.

Tanto per cominciare, troviamo situazioni “regolari” e “irregolari” nella maggior parte delle famiglie cristiane. Questo miscuglio di situazioni non impedisce affatto che nelle famiglie ci si continui a sostenere e a stimare. E meno male! La Chiesa non può permettersi di sottovalutare il senso di questa solidarietà nelle famiglie. Su questo punto, ho dovuto già ascoltare, come vescovo, molta irritazione. Un fratello si arrabbia perché la sorella, essendosi risposata, non può più fare una lettura durante la celebrazione eucaristica. Un padre chiede più comprensione per il figlio omosessuale, che si sente rifiutato dalla Chiesa. (…). Benché queste persone si interroghino sul cammino di vita dei loro parenti, avrebbero preferito una situazione diversa o soffrano a causa di tutto ciò, esse non abbandonerebbero i loro familiari. Per le persone interessate questa solidarietà è un segno importante della fedeltà di Dio ad ogni essere umano, qualunque cosa possa succedere. A loro parere la Chiesa non può permettersi di rimanere indietro rispetto al mutuo sostegno e all’accoglienza reciproca testimoniata nelle famiglie.

Nello stesso contesto ho dovuto spesso constatare come un certo linguaggio della Chiesa possa ferire determinate persone e in determinate situazioni. (…). Su questo punto, molti nostri documenti ecclesiastici hanno urgente bisogno di revisione. Quando parlo alla gente non posso usare certe formulazioni presenti nei documenti ufficiali senza giudicarle ingiustamente, senza ferirle profondamente, e senza dare loro un’immagine sbagliata della Chiesa.(…).

Aggiungiamo ancora una considerazione sulla storicità del nostro pensare ed agire, anche nella Chiesa. (…). Il modo in cui gli esseri umani curano le loro relazioni, il come e il quando decidono di avere figli, il come e il quando considerano e intuiscono una relazione come “indissolubile”, sono tutte realtà umane determinate dal tempo e dalla cultura, dalla provenienza e dalla formazione, dalla mutevolezza di idee e sentimenti. (…). D’altronde, il matrimonio è stato il meno evidente tra i sette sacramenti. Diversamente dagli altri sacramenti, il matrimonio suggella una realtà umana preliminare: l’impegno per la vita che prendono un uomo e una donna, secondo i costumi del tempo e della cultura. D’altronde, nella tradizione latina della Chiesa cattolica non è il prete il ministro del matrimonio, ma sono gli stessi nubenti che si amministrano l’un l’altro il sacramento del matrimonio. Per altro, si è dovuto attendere fino al XII secolo prima che il matrimonio venisse inserito definitivamente nella lista dei sacramenti. (…). Anche la “forma” necessaria per contrarre validamente un matrimonio sacramentale è cambiata diverse volte nel corso della storia del diritto canonico ed è stata applicata in modi diversi. (…). Sin dalla metà del secolo scorso le coppie disponevano, per la prima volta nella storia, della conoscenza e dei metodi necessari per il controllo delle nascite. È arrivata poi la problematica della sovrappopolazione e la diffusione del virus HIV. Attualmente il riconoscimento giuridico di un contratto di convivenza o di matrimonio tra due persone dello stesso sesso apre a nuove situazioni ed opinioni relative al matrimonio e alla vita familiare. Nel frattempo le persone vivono più a lungo che in passato, per cui le loro relazioni si trovano ad affrontare una prova del tempo molto più lunga. Altri ancora, giunti ad un’età media, grazie a questa attesa di vita più lunga, sono in grado di iniziare una nuova relazione. Questo contesto che cambia in continuazione non è in sé né anticristiano né contro la Chiesa. Esso fa parte delle circostanze storiche in cui tanto la Chiesa quanto i singoli credenti debbono assumere le loro responsabilità. La Chiesa si trova così ogni volta di nuovo davanti ad una questione importante: come possono la sua dottrina e la vita concreta incontrarsi e interrogarsi reciprocamente in una tensione feconda. Leggo, in quasi tutte le risposte al questionario di Roma, l’attesa che la Chiesa possa riconoscere quanto di buono e di valido può esserci anche in altre forme di convivenza, diverse da quella del matrimonio Questa richiesta a me sembra giustificata.

6. DIVORZIATI RISPOSATI

Una problematica su cui pongono l’accento molti Paesi è quella dei divorziati risposati e della loro esclusione dalla comunione eucaristica. (…).

Per una buona comprensione dell’eucarestia, è importante leggere che una compagnia numerosa di pubblicani e peccatori si metteva a tavola con Gesù e i suoi discepoli (Lc 5,27-30); che Gesù, interrogato proprio lì a tavola risponde di non essere venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori che si convertano (Lc 5,31-32); che tutti quelli che sono venuti da vicino o da lontano per ascoltare la parola di Gesù, ricevono da Lui e dagli apostoli ugualmente il pane per sfamarsi (Lc 9,10-17); che quando fai una festa devi invitare a tavola soprattutto gli infermi, gli storpi e i ciechi (Lc 14,12-14); che il padre misericordioso offre al figlio che era perduto il miglior banchetto, provocando l’indignazione del figlio maggiore (Lc 15,11-32); che Gesù, durante l’Ultima Cena, lava prima i piedi ai suoi discepoli, compresi Pietro e Giuda, e li invita a seguire il suo esempio, ogni volta che faranno memoria di Lui (Gv 13,14-17). (…). Ci deve essere una correlazione tra le molte parole e i gesti di Gesù legati alla mensa e la sua intenzione per l’eucarestia. Se Gesù dà prova di tale apertura e misericordia alla “comunione della mensa” nel Regno di Dio, la Chiesa dispone lì, a mio sentire, di preziosi indicazioni per studiare come a determinate condizioni si possa aprire anche ai divorziati risposati l’accesso alla comunione.

(…). Circa vent’anni fa alcuni vescovi diocesani tedeschi hanno tentato di elaborare per le loro diocesi una direttiva fondata teologicamente e pastoralmente per ammettere dei divorziati risposati alla comunione. Non intendo pronunciarmi qui sul valore intrinseco della loro proposta. Ma ciò che mi preoccupa è questo: quando a dei vescovi si impedisce di dare delle direttive ai propri collaboratori per i casi di situazioni irregolari, questi collaboratori si muoveranno in tutte le direzioni. Non è raro che preti e collaboratori pastorali si confrontino con situazioni irregolari dove è necessario un giudizio prudenziale. A buon diritto essi chiedono al vescovo dei criteri o una direttiva. La mancanza di una tale direttiva non può che causare ancor più confusione e l’indebolimento dell’autorità del vescovo come “pastore” del popolo a lui affidato. (…). La tradizione giuridica dell’Oriente cristiano, con la possibilità di un regolamento eccezionale in nome della “misericordia” (economia, epikeia) può offrire una apertura. Pure su questo punto aspetto con speranza il prossimo Sinodo. (…).

7. L’ANNUNCIO DEL VANGELO

Il prossimo Sinodo ha ricevuto un titolo assai complesso: “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Il fatto che nel titolo sia stata messa l’evangelizzazione lo ritengo una cosa importante. Perché? Poiché il matrimonio e la famiglia non costituiscono che un solo campo tra vari altri in cui la questione ben più ampia dell’evangelizzazione è all’ordine del giorno, la lingua, il metodo e la sensibilità con le quali lavorerà il Sinodo costituiranno un test. Tutto ciò può dare un tono nuovo a tutto l’approccio pastorale della Chiesa. (…).

In che modo la Chiesa va incontro al mondo e all’essere umano di oggi? Nel corso dei decenni precedenti prevaleva nel governo della Chiesa un modello assai difensivo e antitetico. A fronte di una cultura dell’“oscuramento”, la Chiesa deve lasciar risplendere la “bellezza della verità”. Sebbene il messaggio del Vangelo non sia popolare e sia difficile da comprendere, la Chiesa deve esprimerlo in maniera intatta. (…). Solo un ritorno radicale alla verità eterna può far sì che il mondo sia salvato. Indubbiamente esistono buone ragioni per questo modello antitetico. Il Regno di Dio, difatti, non coincide con gli sviluppi congiunturali di questo mondo. Esso si manifesta come qualcosa di controcorrente e anche come un appello profetico. Che Dio faccia “nuovo” il mondo significa che Egli lo fa “diverso” allo stesso tempo. Anche Gesù e i suoi discepoli davano una testimonianza controcorrente. Vivevano e agivano chiaramente non come tutti. Per questa differenza Gesù pagherà, d’altronde, un alto prezzo. (…). La comunità ecclesiale deve continuare ad emanare questa differenza controcorrente, se vuole restare fedele al suo fondatore e alla sua missione.

Allo stesso tempo si richiede nei confronti di questo modello antitetico una grande dose di prudenza. Gesù è morto in croce “tutti contro uno”, benché non aveva mai vissuto “uno contro tutti”. (…). Intorno alla sua misericordia non c’erano muri o confini. (…). Egli entrava in dialogo con interlocutori imprevisti e si lasciava invitare a tavola con convitati di reputazione sospetta. (…). Su questo binario Gesù ha posto la Chiesa. Nelle sue relazioni con gli esseri umani e con il mondo, essa deve avere la stessa apertura e la stessa misericordia del suo fondatore. (…).

Ed è proprio qui che la Chiesa, a mio parere, lotta oggi contro un deficit. (…). Se molti oggi avvertono una mancanza nella Chiesa, si tratta della chiarezza della sua somiglianza a Gesù Cristo. Essi hanno difficoltà a riconoscere nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli esseri umani di oggi l’atteggiamento di Gesù nei confronti degli esseri umani del suo tempo. In questo, d’altronde, essi osservano soprattutto il campo dell’amore, della relazione, della sessualità, del matrimonio e della famiglia. Ciò non deve meravigliare. Si tratta del campo che sta loro più a cuore e nel quale vivono la felicità più grande o la sofferenza più grande. Tenendo conto di questo, la Chiesa dovrà abbandonare, proprio in questo campo, quel suo atteggiamento assai difensivo o antitetico e cercare di nuovo la via del dialogo. (…).