Dal sinodo verso un cambio radicale nella prassi pastorale

Matteo Matzuzzi
Il Foglio, 14 ottobre 2014

Altro che semplice Sinodo consultivo. L’assemblea in corso nell’Aula nuova, a due passi dalla congregazione per la Dottrina della fede, pare sempre di più un Concilio Vaticano III.
A dirlo sono i padri sinodali, cardinali e vescovi, commentando con tutti i crismi dell’ufficialità la Relatio post disceptationem letta di primo mattino dal cardinale Péter Erdö, relatore generale. Relazione che navigati osservatori americani hanno definito un “earthquake”, un terremoto (ieri il sito del Nyt apriva sui “segnali di maggior tolleranza verso i gay”).

Non si parla più di legge naturale, “termine fondamentale ma incomprensibile a chi sta fuori dalla chiesa”, spiega mons. Bruno Forte, segretario speciale: meglio usare l’espressione “ordine della creazione”.

“Questo è un Sinodo- Concilio, si discute di temi nuovi”, tuìtta all’ora di pranzo il padre sinodale Antonio Spadaro S.I., direttore della Civiltà Cattolica. Mons. Forte osserva che “molti padri, dopo aver ascoltato la Relatio, hanno detto di avvertire lo spirito della Gaudium et Spes”. Il cardinale Luis Antonio Tagle, presidente delegato dell’assemblea, evoca “lo Spirito del Concilio Vaticano II, la sua atmosfera”. Il cardinale cileno Ricardo Ezzati Andrello racconta di momenti di “commozione” tra i padri. Il testo letto da Erdö ha la forza di anticipare una svolta pastorale ben più profonda di quanto ci si potesse immaginare all’apertura dell’assemblea.

Sabato scorso, l’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin, aveva preparato il terreno, facendo intendere che la discussione si stava incanalando lungo i sentieri indicati otto mesi fa da Walter Kasper, quelli di uno “sviluppo della dottrina” che andasse a toccare inevitabilmente la prassi. E infatti, ha detto Erdö, “nel Sinodo è risuonata chiara la necessità di scelte pastorali coraggiose”, così come è avvertita “l’urgenza di cammini pastorali nuovi, che partano dall’effettiva realtà delle fragilità familiari”. E’ finita l’epoca del “tutto o niente”.

La chiesa apre ai divorziati risposati, prospettando il via libera al riaccostamento alla comunione dopo un periodo di cammino penitenziale valutato caso per caso, e si interroga su quanto Ratzinger in qualità di prefetto del Sant’Uffizio prima, e poi da Papa, aveva chiarito, e cioè la distinzione tra comunione spirituale e sacramentale.
Al Sinodo, “non pochi padri” si sono domandati come sia possibile negare la comunione sacramentale se è possibile quella spirituale. Domanda posta da Kasper nella sua relazione. Le ragioni indicate a suo tempo da Benedetto XVI non bastano, quindi “è stato sollecitato un maggior approfondimento teologico”.

Aperture anche sul fronte del matrimonio civile e delle convivenze, cogliendone “la realtà positiva”, e delle unioni omosessuali: se è infatti vero “che la chiesa afferma che le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna e che non è accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull’atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia di gender”, è altrettanto vero che “si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner”.

Mons. Forte aggiunge che “gli omosessuali hanno diritti che devono essere difesi e garantiti”, perché questa è “una questione di civiltà”. Aperture talmente ampie che qualcuno, tra i giornalisti, ha chiesto se al Sinodo dell’ottobre 2015 – il cui tema è stato allargato dal Papa e avrà come titolo “La vocazione e la missione della famiglia nella chiesa del mondo contemporaneo” – saranno invitati anche cattolici omosessuali tra gli uditori.

La relazione ha, ad ogni modo, fatto discutere. Al termine della lettura, sono intervenuti ben quarantuno padri, molti dei quali hanno “sollevato critiche” e chiesto approfondimenti prima della stesura della Relatio Synodi (sarà votata al termine della settimana).
Lo schieramento che ha mostrato maggiore insofferenza al documento presentato ieri è guidato dai nordamericani, i quali contestano anche le aperture sulla comunione ai divorziati risposati: si tratterebbe di “cambiare l’insegnamento di Cristo”. Sono pronti a dar battaglia nei Circuli minores, i cui lavori sono iniziati ieri pomeriggio, e un segnale che cercheranno di apportare modifiche alla Relazione finale è dato dall’elezione del card. Raymond Leo Burke al ruolo di moderatore del primo gruppo in lingua inglese.

Eppure, la linea appare tracciata, le resistenze – che ci sono, ma in numero minore rispetto a quanto si pensasse inizialmente – giocheranno le proprie carte in quest’ultima settimana di lavori prima della pubblicazione della relazione finale, alla cui stesura, però, il Papa ha chiamato sei padri assai vicini alle tesi del gruppo novatore, tra cui spiccano il card. Gianfranco Ravasi, il teologo argentino Víctor Manuel Fernández e il preposito dei gesuiti, padre Adolfo Nicolás.
Nessun vescovo dall’Africa, nonostante da lì siano giunti i padri più determinati a escludere cambiamenti dell’attuale disciplina. Ma lo spirito, ha chiosato il segretario speciale, Bruno Forte, sta soffiando, “e soffia dove vuole”.

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Comunione ai divorziati? I Gesuiti: «La soluzione fu approvata dal Concilio di Trento». La soluzione sulla comunione ai divorziati risposati potrebbe arrivare dal passato

Franca Giansoldati
http://www.ilmattino.it/ 2 ottobre 2014

Potrebbe anche mettere d’accordo quei cardinali in fibrillazione per via del sinodo. Esiste la possibilità per i nuovi sposi di rifarsi un’altra vita ed essere ammessi ai sacramenti?

Mentre conservatori e progressisti si misurano a suon di citazioni bibliche, facendo riferimento all’insegnamento della Chiesa (che è sempre stato costante nella sua tradizione), i gesuiti della Civiltà Cattolica hanno pubblicato un articolo illuminante. La risoluzione arriva da lontano. Secoli e secoli or sono, durante il concilio di Trento, fu approvato «uno dei decreti più innovativi: quello sul matrimonio, detto “Tametsi”». Il documento anche se vietava i matrimoni clandestini, sanciva la libertà del consenso, l’unità e l’indissolubilità del vincolo, la celebrazione del sacramento alla presenza del sacerdote e dei testimoni; e imponeva, inoltre, la trascrizione dell’atto nei registri parrocchiali, introduceva una sorpresa.

Il 20 luglio 1563 ai padri conciliari venne distribuito per l’approvazione un testo di un canone: «Sia anatema chi dice che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge, e che ad ambedue i coniugi o almeno a quello innocente, che non ha causato l’adulterio, sia lecito contrarre nuove nozze, e non commette adulterio chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera, né la donna che, ripudiato l’uomo adultero, ne sposi un altro».

Dopo la discussione, 97 padri conciliari votarono favorevoli e la approvarono, mentre altri 80 risultarono contrari a questa prassi orientale. «Ciò non significa – scrive Civiltà Cattolica – che la maggioranza dei padri voleva mettere in questione l’indissolubilità del matrimonio: si intendeva solo discutere la forma della condanna. Rimaneva fermo il canone quinto, con le ragioni contro il divorzio». Insomma, uno spiraglio anche per quei divorziati risposati che hanno subìto, non per loro scelta, né colpa, la rottura di un matrimonio e si sono formati una nuova famiglia.

Si tratta di una pagina di storia poco conosciuta che «La Civiltà Cattolica», l’autorevole rivista dei gesuiti le cui bozze sono riviste dalla Segreteria di Stato, ha appena pubblicato. Un assist ai progressisti? Piuttosto un elemento che potrebbe aiutare a fare chiarezza in un dibattito – quello sinodale – che dalla prossima settimana si prevede scottante. L’articolo di padre Giancarlo Pani s’intitola «Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento», e racconta quanto avvenne nel 1563.

L’autore scrive che la Chiesa, «radicata nella fede ricevuta dagli apostoli, deve saper guardare il presente e proiettarsi nel futuro, per aggiornarsi, per essere vicina agli uomini e rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito.

Per i cattolici orientali era usuale, nel caso di adulterio della moglie, sciogliere il matrimonio e risposarsi, anche perchè esisteva un rito antichissimo dei loro Padri per la celebrazione delle nuove nozze. «Tale consuetudine – ricorda l’articolo di Civiltà Cattolica – non è stata mai condannata da nessun Concilio ecumenico, né essi sono stati colpiti da alcun anatema, benché quel rito sia stato sempre ben noto alla Chiesa cattolica romana».

I Padri della Chiesa tra cui Cirillo di Alessandria, a proposito delle cause di divorzio, affermava che «non sono le lettere di divorzio che sciolgono il matrimonio di fronte a Dio, ma la cattiva condotta dell’uomo». Giovanni Crisostomo, invece, giudicava l’adulterio la ragione della morte reale del matrimonio. Infine Basilio, quando parlava del marito abbandonato dalla moglie, riconosceva che egli può essere in comunione con la Chiesa (il testo presupponeva che il marito si fosse risposato).