Libertà, democrazia, laicità di M.Lanfranco

Monica Lanfranco
www.womenews.net

Appunti su “Secular conference”, convegno che si tiene a Londra dal 10 al 13 ottobre, per discutere di integralismi religiosi e diritti delle donneSecular Conference a Londra 2014 – primo giorno

Sarà che funziona il fattore ‘estero’, e forse anche un po’ la vacanza (dopo il disastro dell’alluvione di Genova che ha sabotato la nostra piccola delegazione la fortuna ha voluto che si liberasse un posto nello splendido hotel dove si svolge la Conference), ma questo appuntamento politico quasi ignorato dalla stampa e dall’attivismo italiano è fantastico.

In ogni intervento (oltre 30 persone nei vari panel tematici per due giorni, che esaminano i vari intrecci con la laicità, dal corpo alle istituzioni passando per l’educazione e le resistenze culturali e ideologiche) ci sono spunti di straordinario interesse, e anche se mi rendo conto che sto usando aggettivi iperbolici vorrei che mi credeste: è così, è un appuntamento d’eccezione.

Come per molti eventi esteri, (in particolare nella cultura anglosassone), le cose filano lisce nei tempi: non ci sono quarti d’ora accademici, le pause di dieci minuti sono di dieci minuti così come gli interventi non debordano. Ma questa, si potrebbe dire, è solo forma e, anche se non è male, è il contenuto che conta. E allora vediamo, in ordine sparso e per cenni (in attesa di poter rendere disponibili le interviste audio e video) cosa si è squadernato in questa prima giornata.

I venti minuti del filosofo scrittore e columnist del Guardian AC Graylins http://www.acgrayling.com sono un distillato di humor british sull’ossimorica tendenza di ogni religione a dirsi democratica, aperta e foriera di libertà. Ce né per tutti: ebrei, cattolici e islamici. Graylings ironizza, tra le risate crescenti e con un eloquio incalzante sulla ‘promessa’ che ogni fede baratta a danno del presente: la vita sulla terra è solo un soffio che si interpone tra te e il paradiso, e quindi a poco vale la fragile ricerca laica del benessere e della giustizia qui e ora. Poi il monito serio: il pericolo dell’educazione religiosa non sta nel voler educare, conclude Graylins, ma nel pretendere di educare a cosa pensare: l’educazione dovrebbe insegnare a pensare, punto. A quando, al posto dell’educazione religiosa, l’insegnamento della storia delle idee?

Marieme Helie Lucas , attivista e studiosa di origine algerina tra le organizzatrice dell’evento, più volte invitata e pubblicata da Marea in Italia ribadisce con forza l’uso dannoso dell’uso delle ‘differenze’ culturali per giustificare la negazione dell’universalismo dei diritti e il permesso di usare le leggi religiose, su richiesta delle parti fondamentaliste dell’Islam in Europa. “Siamo vittime dell’essenzialismo e del relativismo quando reclamiamo diritti diversi su base religiosa, anche quando vogliamo difendere ‘i diversi’ nel nome delle culture identitarie. Accade sempre più spesso che i governi occidentali si mettano in relazione con rappresentanti religiosi che non sono mai stati eletti e che parlano a nome di una parte precisa delle comunità (non certo per le donne), e portano avanti i diritti di una minoranza esclusiva. Spesso siamo forzati dentro categorie cristallizzate, a seconda della provenienza geografica e religiosa (che si presume che seguiamo): su questo si basa la visione multiculturale, – afferma Helie Lucas – : è una visione che garantisce l’esistenza di enclaves chiuse nella quali governano quasi sempre principi non democratici e comunque che pretendono di poter fare a meno dell’universalismo dei diritti”.

Taj Hargey, che dirige una moschea e un centro di studi più volte attaccato dagli islamistoi per la sua apertura all’occidenteva di corsa nel suo discorso perché è tardi e snocciola i vari motivi per i quali non ha senso invocare la fede nell’Islam per imporre alle donne velo, burka e altre forme di segregazione e negazioni di diritti. http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/southafrica/11097221/Muslim-academic-gets-death-threats-over-women-and-gay-friendly-mosque.html

Il suo non è il solito appello alla ‘buona’ fede, veicolo di pace e foriera di amore: in una democrazia, scandisce, non è ammissibile che esistano comunità o luoghi che attribuiscono doveri diversi per cittadinanza, sesso o orientamento su base identitaria e religiosa. Come permettere che un’idea che mortifica le donne e i loro corpi abbia spazio, e che si autorizzino, in nome della ‘tolleranza’, umiliazioni come il burka o il niquab? Il suo forte intervento termina con l’auspicio che si bandiscano in Europa, così come si aiutino i movimenti secolari nei paesi musulmani.

Parvez Hoodbhoy , scienziato pakistano con alle spalle una lunga storia di ribellione contro l’integralismo, analizza l’ascesa del concetto di stato islamico domandandosi se chi lo invoca abbia idea di cosa sia, e se questo concetto esista dentro ai testi considerati sacri e fonte di diritto dagli islamisti. “Credo che nessuno tra i fanatici sostenitori dello stato islamico sappia davvero quello di cui parla, perché non esiste evidenza storica dell’esistenza di uno stato di questa natura, esordisce. Nemmeno una parola in arabo indica il concetto di stato, solo quello di comunità. E siccome queste persone invocano il Corano per motivare il progetto di stato islamico evidentemente mentono”.

Il suo può sembrare un discorso di carattere teologico estremamente tecnico: in realtà è invece importante, perché significa stare sul terreno che queste forze tentano di accreditare, ovvero quello del consenso sulla base della ‘rivelazione’.

“Nei testi coranici non ci sono cenni a stato, esercito, tasse e altro che identifichi l’indicazione della possibilità di fare uno stato”. Dopo il suo intervento risulta più chiaro, (anche se non sempre è ben visto dai movimenti agnostici), come sia importante l’esegesi dei testi per creare una cultura laica e antifondamentalista nelle comunità musulmane.

Di grande impatto emotivo la scelta formale di Karima Bennoune, docente arabo americana di legislazione internazionale, di parlare delle vittime del fondamentalismo.

Sullo schermo dietro di lei scorrono le immagini e i volti di uomini e donne di varie provenienze geografiche, attiviste e attivisti per la laicità, che hanno trovato la morte negli ultimi anni per mano degli islamisti. Non c’è nulla di enfatico o di eroico nel suo breve racconto delle biografie: Karima chiede che si ricordino queste persone perchè fare memoria è un gesto politico prioritario per avere futuro e ricordare che la libertà di vivere senza il giogo della ‘ideologia religiosa non c’è ancora in molti luoghi del pianeta. “Non si tratta di fede, scandisce, ma di fanatismo, di politica, e di regime”.

Nella sessione dedicata al multiculturalismo sono durissime le parole nei confronti di quella parte della sinistra sinistra che, oggi, rischia di diventare la nuova destra quando nega l’universalismo. Un discorso piuttosto impensabile in Italia.

Hamid Taqvaee , attivista e docente iraniano comunista ribadisce che il pericolo reale con il quale abbiamo a che fare non è tanto, e solo, il fanatismo ‘esotico’ che prospera nei paesi dell’Asia e dell’Africa, quanto quello che si radica dentro ai paesi dell’occidente.

La seduzione del califfato presso i giovani occidentali si basa sulla contraddizione che da una parte vede l’attrazione dei giovani verso l’economia di mercato ma anche dall’orizzonte ideologico del fanatismo religioso, che promette valori antagonisti a quelli del materialismo.

Caroline Fourest , giornalista e scrittrice francese sceglie un titolo interessante per il suo intervento: secolarismo contro fanatismo. Anche nel suo paese esistono frange di sinistra che abbracciano il relativismo culturale per giustificare i crimini islamici come una difesa dal capitalismo. Il suo discorso chiama in causa anche la stampa, che spesso getta olio sul fuoco, dando voce ai fondamentalisti quando scoppiano i casi di ‘blasfemia’. “Spesso, sostiene, si confonde la critica con l’islamofobia, e si assimilano il femminismo e la lotta all’omofobia come contrari alla fede. La parola secolarismo è importante, in Francia e Italia si chiama laicità e significa vivere in paesi dove la religione non detta legge tra gli umani, e non entra nelle relazioni tra persone e nello spazio pubblico. Oggi, tra tutte le religioni rivelate quella più pericolosa è l’islam perché nei paesi dove è religione dominante non c’è mai stata una separazione tra stato e religione e quindi la legge è quella divina, mentre questa differenza è stata superata nei paesi cattolici”. Definisce ‘circo maledetto’ quello nel quale spesso l’occidente si trova a scegliere tra il ‘minore dei mali’ nei vari gruppi estremisti per ‘liberare’ i paesi oppressi dalle dittature, un altro problema politico ben presente anche in Europa.

Altro tema fondamentale che nomina è la questione dei moderati: si tratta di un falso problema. Di fronte alla laicità non si può essere moderati o non moderati: o si è laici o non lo si è, perché essere per il secolarismo è essere per una legge umana uguale per ogni essere umano. “Promuoviamo una società moderna nella quale c’è un posto per ogni persona, e dove c’è posto anche per chi crede. Ricordiamoci che nelle società dominate dal fanatismo non c’è posto per chi non crede”- afferma.

Sue Cox attivista femminista inglese che si occupa di violenza domestica, apre una finestra sugli abusi dei sacerdoti cattolici. La sua presentazione è vivace e costellata da immagini e vignette (alcune anche satiriche) che illustrano la condizione arretrata dal punto di vista culturale dell’iconografia legata alla religione cattolica. “Quando vedete l’immagine sorridente del papa fate attenzione: non credete a quello che vedete, perché quello che vedete non è ciò che avrete”. La sua è l’esperienza forte di chi è sopravvissuto agli abusi, eppure è capace di fare ironia e sorridere quando parla della realtà oscurantista della chiesa cattolica in molti paesi del mondo, così come inquietante è l’appello della parlamentare turca Safak Pavey , che testimonia come nel suo paese si stia rinnovando con forza negli ultimi anni il revival del tradizionalismo religioso.

Sultana Kamal, avvocata del Bangladesh, racconta il difficile percorso del suo paese nel costruire la democrazia laica, fronteggiando il regimedel vicino Pakistan dominato dall’islamismo. “Non vogliamo essere identificati con la religione o l’ideologia, dice- Riconosciamo il secolarismo come una delle basi della costruzione della nostra cultura. Ma sappiamo bene che il patriarcato e il fondamentalismo lavorano insieme contro i diritti universali, in particolare contro le donne”.

Nadia El Fani, filmaker tunisina di Laicitè Inshalla critica il presidente Francoise Holland che, come primo atto nella visita al suo paese (la Tunisia ha di recente cambiato la Costituzione introducendo il nome di Dio) ebbe a dire che ‘l’islam è compatibile con la democrazia’, accreditando così una visione di tutti i Tunisini come fedeli e incapaci di scegliere la laicità come orizzonte necessario.

“Non serve affermare che l’islam è una fede democratica: sfortunatamente chi è laico e vive nei regimi islamici è sempre in svantaggio, perché rispetto ai credenti non ha credito presso chi propugna un mondo governato dalla fede in dio” – dice-. Negli spezzoni del suo film mostra le dispute nelle quali i fondamentalisti smettono di discutere e inneggiano ad allah e gli studenti islamici interrompono convegni, commedie e momenti artistici.

“I nostri sono islamisti intelligenti: hanno denaro, usano i social media e quindi raggiungono i giovani, per questo sono pericolosi e pervasivi. I fondamentalisti non vogliono la democrazia, io sono democratica, per me loro possono esistere, ma dobbiamo sapere che queste persone usano la democrazia per costruire la teocrazia. Dite ai giovani che possono credere nel paradiso, ma che è una menzogna se sulla terra c’è un mondo ineguale e ingiusto, come quello che chi crede nel paradiso realizza brandendo dio”.

Molto interessante la suggestione linguistica di Fariborz Pooya della Secular Iranian Society: il suo discorso riguarda il fatto che la religione è un fattore chiave nella costruzione dello stato, e che la religione spesso viene identificata, (come la ‘madre natura’), come la ‘madre religione’.

Fatou Sow (wluml) parla di ‘fattore bipolare’ dell’appartenenza religiosa e della difficoltà di svincolarsi degli stereotipi; per esempio secondo lo stereotipo sei femminista e quindi sei occidentale e bianca. Invece lei è africana (Senegal) , nera e però femminista. Il fatto è che molti usano l’islam come strumento di resistenza: contro l’integrazione, per la conservazione della cultura di provenienza, e quindi contro le idee diverse anche nelle relazioni personali. In molti paesi la religione non è dentro alle Costituzioni ma pesa nelle questioni che riguardano la famiglia. E spesso come la religione diventa politica (per esempio la richiesta della shaaria come base legale in alcuni stati (Nigeria ora ) ma anche in Europa, in Inghilterra e in Canada.

Homa Arjomad, iraniana/ canadese, attivista per la campagna di educazione laica per l’infanzia, quasi declama il suo discorso, cosciente che se non si comincia dalla prima età non ci sarà rifugio dall’integralismo e non ci può essere una crescita armoniosa e libera nel corpo e nella mente. “Sono stata testimone degli abusi su bambine e bambini nel nome della religione, non ne avete idea, – racconta -. Isolamento, discriminazione, matrimoni forzati: questo accade nelle scuole islamiche, in Canada, (non in Iran), e non è diverso spesso nelle scuole cattoliche. I piccoli e le piccole non hanno religione, è chi educa che li spinge a imparare i dettami religiosi che nel futuro potranno farli diventare fanatici. Il multiculturalismo e il relativismo lavorano perché le scuole religiose prosperino così da creare enclaves che tengano le popolazioni separate e sotto regole discriminatorie che escludono la diversità culturale e la democrazia. Le religioni hanno una cosa in comune: il controllo”.

Ed eccoci a Nina Sankari, dalla Polonia, dell’Atheist coalition. Racconta che “l’affrancamento dal totalitarismo comunista in Polonia non ha generato la democrazia che volevamo, perché la cosiddetta trasformazione democratica non si è accompagnata con la secolarizzazione della società, ma bensì come la trasformazione dello stato ateo non democratico in uno stato non democratico confessionale. Un articolo della nuova Costituzione protegge la religione e riesuma il reato di blasfemia, e in questo modo i fondamentalisti possono denunciare gli artisti e chi usa la religione per criticare e fare polemica contro di essa, così come sono combattute in modo oscurantismo le performance contro la religione o a sfondo religioso”.

Elham Manea, di One alla for all apre il discorso con l’affermazione che essere secolarista non significa essere atea, e questa è una affermazione importante perché evidenzia come il discorso sulla laicità sia usato politicamente dai fondamentalisti per dire che la laicità è violenta ed esclusiva nei confronti della fede. I suoi studi sul come anche la visione multiculturalista sia pericolosa nei confronti della laicità hanno messo in rilievo come le attuali richieste delle comunità musulmane in Europa per l’applicazione della sharia vanno nella direzione di identificare le minoranze come esclusive e necessitanti di leggi ad hoc, in questo modo dando diritti identitari e collettivi su base tradizionale ai danni della libertà e dei diritti individuali (Una legge per tutti non è solo uno slogan, è una difesa specialmente delle donne per l’applicazione dell’universalismo sui diritti individuali.

Kenan Malik,scrittore di origine indiana, sostiene che si deve distinguere di cosa abbiamo bisogno. Il multiculturalismo vede i bisogni delle persone come delle scatole nelle quali ogni comunità deve stare, e immagina che la diversità debba essere trattata a seconda delle provenienze, nel nome della tolleranza. Ma spesso difendere la diversità diventa difendere soprusi, e in questo modo il multiculturalismo diventa un processo politico. La diversità è importante ma non in assoluto. Spesso chi critica il fondamentalismo viene attaccato come non accogliente e persino razzista, e viene detto che solo chi fa parte delle comunità può eventualmente (secondo il politically correct della sinistra e dei ‘liberal’) criticare, ma nessuno al di fuori ha diritto di parola. “C’è molta nostalgia dentro la cultura musulmana- sostiene -: se si chiede ad alcuni musulmani se si vuole il califfato ci sono molte possibilità che la risposta maggioritaria sia sì. E’ un ritorno alle crociate, ed è un’affermazione che rivela come ci sia il desiderio di una verginità identitaria, che raccolga in uno stesso luogo la cultura originaria”. Kenan racconta di come in un gruppo di persone giovani di fede musulmana fosse stato chiesto se preferivano lo stato islamico o la democrazia occidentale, e la risposta era stata a fovore quasi unanime per lo stato islamico. L’altra domanda verteva su dove avessero voluto essere giudicati per un reato, e tranne una mano alzata a favore degli Emirati, tutti gli altri avevano risposto in Gran Bretagna. Questo evidenzia come ci sia una grande confusione tra politica, senso della collettività, e diritti individuali. “Lo stato islamico sarebbe un inferno non solo per le minoranze, ma anche per ogni musulmano- conclude. Uno stato islamico sarebbe la fine della democrazia come noi la conosciamo anche negli stati attualmente dove la religione dominante è l’islam: si tratta di uno stato dove chi ha denaro paga, e la giustizia è su base economica, e la pena si ‘compra’. Le donne, uccise mutilate o rilasciate dopo il matrimonio ovviamente costano meno”. Blood money, denaro insanguinato, definisce quello che viene in soccorso dei gruppi islamisti. Sarebbe la fine del progresso sociale, lontano nel tempo fino al secolo quindicesimo, come ora accade in Pakistan. Lì si può sposare una bambina di 5 anni, si può ripudiare la moglie quando vuoi, e il consiglio islamico ha persino cancellato l’evidenza nei processi contro lo stupro, quindi non ci sono possibilità di provare il reato perchè questo non esiste.

Per staccare dall’intensità degli interventi la brillante attrice e attivista Kate Smurthwait http://www.katesmurthwaite.co.uk/Aboutme.html descrive in modo comico le minacce che riceve per la sua attività femminista a favore dei diritti riproduttivi: “C’è chi dice che non gli interessa cosa faccio, ma provvederà a togliermi la carne dalle ossa. Bè, mi sa che invece gli interessa, credo.” Alla fine del suo momento teatrale e di alleggerimento, in barba ai fondamentalismi sessuofobi, eleva il piccolo pamplet ‘enjoy your genitals’.

Si arriva alla sera, con la cena servita in modo impeccabile, l’intervista di Gita Sahgal alla scrittice Taslima Nasreen, e il concerto di piano.

Quello che colpisce è l’attenzione creativa delle organizzatrici nell’avere pensato un evento multimediale, multisensoriale e nel quale corpo e mente si nutrono in modo puntale e dove il concetto chiave è lo stare il più possibile insieme nel modo più accogliente possibile.

Circolano teoria, politica, attivismo, teatro, ironia, buon cibo, ospitalità, una lotteria di autofinanziamento con libri sull’argomento (non siamo in una sala con palco e platea, ma ci sono 60 tavoli rotondi e si sta in 8 con pause per bere e mangiare).

Last but not least: io sono qui non perché qualche giornale italiano (ne ho contattato un bel pò) si sia detto interessato a pubblicare un reportage dall’evento (e quindi a pagare almeno il ticket di ingresso alla due giorni, circa 180 euro): questa spesa se l’è accollata la Consulta per la laicità di Torino e il documento finale, il Manifesto for Secularism sarà firmato dal Coordinamento Nazionale delle Consulta per la Laicità delle Istituzioni. Anche questo fa pensare.

12 ottobre

Due panel eccezionali quelli di domenica pomeriggio (al mattino resto bloccata da un virus intestinale e quindi non sto in sala): il primo su religione e blasfemia e il secondo sull’universalismo, le leggi internazionali per i diritti umani e la shaaria.

Ciò che colpisce è che la stampa inglese intervenuta non intervista solo Inna Shevchenko, l’attivista Femen che interverrà nella sessione dedicata all’apostasia e blasfemia, ma anche altre e altri relatrici e relatori. La Femen intitola il suo intervento Girsl against God e parla della blasfemia, reato nel quale il loro gruppo incorre spesso. In Russia, racconta, la stampa è quasi del tutto alleata di Putin e il più delle volte riporta notizie completamente false circa le loro azioni, anche quando la documentazione che loro portano a prova delle menzogne esiste, e non viene presa in alcuna considerazione. Si rivolge ai maschi in sala, (tanti e attenti), ricordando loro che la blasfemia delle donne è molto più pericolosa per il potere, e che per questo va sostenuta, perché le donne sono le prime vittime dell’ oppressione e l’oppressione religiosa è una delle manifestazioni più evidenti dell’oppressione maschile.

“La blasfemia distrugge il potere maschile da dentro,- scandisce- e per questo credo che gli atti di resistenza delle donne contro le istituzioni maschiliste fanno paura, sono ritenute pericolose e quindi represse in modo violento nonostante siano gesti nonviolenti. Qui siamo in mezzo all’intelligenza e alla bellezza delle nostre idee e condivisione, ma il mondo là fuori è terribile. Io ho un grido dentro che porto qui, ed è il grido di chi vuole contestare la religione e dice che bisogna attaccare la religione e criticarla perché fino a che si può essere incarcerate e uccise per un pensiero antireligioso vuol dire che non c’è stessa libertà. La religione è un pensiero, e come tale deve poter essere criticato, come altri pensieri e visioni.

La regista Nadia El Fani, filmaker tunisina di Laicitè Inshalla intervenuta sabato, esprime perplessità verso l’uso della parola ‘blasfemia’: se la usiamo, dice, restiamo nell’orizzonte della fede, quindi consiglia di non adoperarla. Inna insiste: “Noi vogliamo essere considerate apostate e blasfeme, perché solo così evidenziamo che ancora non c’è libertà di pensieri e di critica sulla religione. Una polemica interessante.

Kiran Opal, blogger di origine pakistana http://kiranopal.com si definisce ex muslim, e sostiene (come per lo sbattezzo nel caso di molti ex cattolici) la necessità che i musulmani si sottraggano alla definizione religiosa per rientrare nell’umanità. Insiste sul fatto che la paura dei musulmani di uscire dal giogo islamico sia la benzina che accende il fuoco degli islamisti, perché offre loro potere sulle persone. “Chi non sta dentro le regole viene isolato e reso invisibile – informa; – ci sono delle vere e proprie scuole per ‘guardiani’ delle regole dentro alle comunità islamiche. L’islamizzazione è un fenomeno disumanizzante”.

Maha Kamal, anche lei ex muslim, si domanda (e domanda alla platea) se sia chiaro cosa è la legge internazionale, e cioè il frutto del lavoro della storia del pensiero umano verso l’universalità dei diritti per ogni persona. Nonostante nel 1990 e 2004 ci siano state due dichiarazioni per l’estensione dei diritti umani universali nel mondo arabo anche in occidente c’è chi (pezzi di sinistra e liberali) rifiutano di criticare l’islam per paura di essere tacciati di islamofobia..

Nahla Mahmoud è la terza ex muslim, originaria del Sudan e il suo intervento nervoso e concitato è un pugno nello stomaco. “Sappiamo molto sulle leggi che puniscono l’omofobia e la repressione dei diritti civili e delle donne nei paesi islamici, facciamo molto per denunciare e vogliamo aiutare. Ma dobbiamo sapere che il problema lo abbiamo anche qui, non in Siria o in Iran, qui in UK. Se incrementiamo la visione multiculturale che consente per esempio il doppio registro legale (Inghilterra e Canada sono due luoghi dove sono già stati autorizzati tribunali della shaaria quando c’è stata richiesta) perderemo una e poi due generazioni di ragazzi e ragazze che sono cittadini e cittadine inglesi, e che rischiano di essere manipolati e attratti nelle spire della violenza islamista. C’è chi parla di ‘scelta’ per il velo o per i matrimoni combinati o per il divieto di insegnamento per paura di essere tacciati di islamofobia, ma la verità è che i giovani di origine musulmana il 40% interrogato sulla pena da attribuire al reato di blasfemia è la pena di morte, qui, non in Pakistan”. Torna anche nel suo discorso l’immagine delle ‘scatole’ nelle quali la visione multiculturale infila le persone. Nahla Indica tre strade per combattere l’islamismo in Europa: educazione alla laicità, controllo delle attività svolte nelle scuole religiose e maggiore visibilità dei e delle ‘debaters’: abbiamo lo stesso problema anche noi in Italia, dove la voce quasi unica delle persone di che vengino dai paesi muslmani è quella degli Imam e delle donne velate.

Nel suo intervento conclusivo, prima delle lettura e dell’acclamazione del Secular Manifesto Bahram Soroush fotografa in questo modo lo stato dell’arte della funzione politice delle religione usata come strumento politico di coercizione del mondo, in particolare nell’Islam ma non solo: “Karl Marx aveva definito la religione ‘oppio dei popoli’: oggi la definirebbe un business. La religione è infatti un potente soggetto che veicola, nel mercato globale, potere economico, sociale, militare e politico”.

Maryam Namazie e Marieme Helie Lucas, due tra le maggiori supporter dell’incontro, sono commosse alla fine della due giorni, e acclamate dalla sala. Un incontro straordinario. A breve le interviste che ho raccolto saranno su www.radiodelledonne.org, twitter e facebook