Al Sinodo vince la dottrina. Ma la breccia è ormai aperta

Eletta Cucuzza
Adista Notizie n. 38 del 01/11/2014

Per un verso, con il Sinodo conclusosi il 19 ottobre papa Francesco ha messo a segno un colpaccio: è riuscito a fare la conta alla luce del sole di quanto episcopato mondiale è sulla sua lunghezza d’onda. Avendo, ad inizio dei lavori, “costretto” i padri sinodali ad esprimersi con franchezza e stabilendo poi che fosse reso pubblico il numero dei voti raccolti paragrafo per paragrafo la Relatio Synodi (documento conclusivo in realtà a lui indirizzato) ha certificato urbi et orbi di essere in sintonia con un buon 64% dei sinodali presenti (molto rappresentativi: in gran parte presidenti delle Conferenze episcopali, ma anche diversi curiali).

Cosa c’era di meglio per prendere le misure sulle sue mosse future, sia nel merito che nel metodo? Tanto più che è stato un Sinodo consultivo “al quadrato”: non solo, come da statuto, aveva “l’onere e l’onore” di consigliare il papa, ma doveva servire da canovaccio per la prossima assise sinodale (ordinaria) sulla famiglia che si svolgerà nel 2015 (4-25/10), insomma una sorta di pre-consultazione. Lo stesso papa ha annunciato che la Relazione finale di questo sinodo straordinario sarà considerata il testo (i Lineamenta) sul quale i vescovi di tutto il mondo formuleranno le loro osservazioni che andranno ad arricchire l’Instrumentum laboris per l’assise sinodale 2015. Ma è ancora poco considerare l’assise appena chiusa solo un test: vuole essere alimento che dovrà e potrà nutrire cuori e menti grazie allo scambio di pareri avvenuto nei quindici giorni di lavoro. C’è un anno di tempo per digerire e maturare altre convinzioni.

Sì, ma in quale direzione? Qual è la “lunghezza d’onda”, la nota “francescana” che sembra risuonare in questa maggioranza sinodale?

La si potrebbe dedurre da quello che ha detto il 19 ottobre chiudendo il Sinodo e beatificando Paolo VI: «Dio non ha paura delle novità!». Concetto che aveva già espresso il giorno prima, nel discorso di ringraziamento ai padri sinodali, quando ha messo in guardia dalla «tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora imparare e raggiungere». Se però da queste parole si evince che il cambiamento sia la strada che sta a cuore a papa Francesco, ecco che quelle che seguono immediatamente erigono significative barriere all’accoglienza delle novità: fra le altre tentazioni, Francesco annovera quella di «trascurare il depositum fidei, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni o, dall’altra parte, la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente»; il «buonismo distruttivo che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle»; il «piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio».

La Chiesa, una e divisa

Forse più che un colpo al cerchio e uno alla botte, come verrebbe da pensare, il suggerimento del papa è in medio stat virtus. Strada difficilissima da percorrere, per la quale occorre molto discernimento; ed è a questo che Francesco invita i vescovi, e questo ha ottenuto dal Sinodo, come si vede dalla Relatio Synodi. Dove non si trova scritto nulla di definitivo, nulla che possa sconvolgere chicchessia o cassare chissà quale dottrina; si ammette solo la necessità di discutere ancora e ancora, di approfondire se e quale soluzione si possa intravvedere, tenendo saldo un principio basilare in un certo senso minimo: la misericordia (che rischia l’evaporazione dovendo piegarsi alla legge).

Ha ottenuto però anche di far emergere che la compagine ecclesiale è spaccata – ed è questo l’altro verso, forse meno positivo, del suo colpaccio – perché è stata ben numerosa la minoranza che ha votato contro i paragrafi della Relatio Synodi sui due temi più controversi presi in esame dall’assemblea sinodale: la comunione ai divorziati risposati e il come rapportarsi con gli omosessuali. La minoranza non ne vuole neanche discutere, quasi fosse, solo questo, un tradimento della tradizione.

Questi gli ormai ben noti paragrafi che non hanno raggiunto la maggioranza qualificata dei due terzi (erano 183 i votanti) richiesta – e sempre raggiunta in passato – per definirli “espressione del Sinodo” (voti in parentesi):

«52. Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia. Diversi padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale, in forza del rapporto costitutivo fra la partecipazione all’Eucarestia e la comunione con la Chiesa ed il suo insegnamento sul matrimonio indissolubile. Altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste. L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che “l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate” da diversi “fattori psichici oppure sociali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735)» (104 placet, 24 non placet);

«53. Alcuni Padri hanno sostenuto che le persone divorziate e risposate o conviventi possono ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale. Altri Padri si sono domandati perché allora non possano accedere a quella sacramentale. Viene quindi sollecitato un approfondimento della tematica in grado di far emergere la peculiarità delle due forme e la loro connessione con la teologia del matrimonio» (112 placet, 64 non placet);

«55. Alcune famiglie vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. Al riguardo ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. “A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4)» (118 placet, 62 non placet).

E ora, Francesco?

Bene, ora il papa ha constatato e, soprattutto, portato alla luce del sole che nella Chiesa non c’è unanimità in questioni essenziali per la vita dei fedeli.

Quali saranno le conseguenze di questa consapevolezza? Assunto come proprio il metodo dell’ascolto dei “collaboratori”, ha davanti a sé due scelte: continuare a decidere “in solitaria” in quanto “capo visibile” e assoluto (caso arcinoto quello del neo-beato Paolo VI, che sposò il parere minoritario della commissione istituita per lo studio degli strumenti atti al controllo della procreazione e con l’enciclica Humanae vitae proibì ai cattolici gli anticoncezionali artificiali); o decidere a partire dal sentire maggioritario, magari spingendolo un po’ (è il capo o no?) con diversificate strategie verso soluzioni che egli reputa più opportune o condivisibili. E chi non è in sintonia ora ha un nome e una faccia, e se ne assuma apertamente la responsabilità.

Forse, come scrive Alberto Melloni in un commento sul Corriere della Sera (21/10), obiettivo di Francesco «non è far “passare” una sua teologia, ma restaurare una sinodalità alla quale tutti si devono abituare. I padri più conservatori, che non devono affidare le loro ragioni a libri e manovre spericolate come quelle viste prima del Sinodo. I padri più aperti, che devono accettare la fatica di spiegarsi (la expensio) rispetto al Vangelo e non rispetto ai “brodini” teologici e sociologici di cui s’è sentito spesso il profumo. E tutti gli altri — popolo di Dio e dei media — a partecipare come soggetti e non come tifosi. Il futuro della sinodalità cattolica è dunque iniziato. Forse dovrà essere regolato da norme. Però anche così, normato dalla prassi evangelica della povertà e da una teologia rigorosa sul Cristo pastore, ha prodotto un risultato sorprendente».

«Il compito del papa è quello di garantire l’unità della Chiesa», ha ricordato papa Francesco nel discorso di chiusura del Sinodo. Certo è che, da qui in poi, il suo lavoro sarà ancor meno una passeggiata.