I 15 peccati della Chiesa secondo Francesco

Vito Mancuso
la Repubblica, 23 dicembre 2014

Viva il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso
che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi
ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono
l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le
altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il
potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli
organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in
Italia e ovunque nel mondo.

Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la “malattia del sentirsi immortale o indispensabile”, vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere. Seguono (2) “la malattia dell’eccessiva operosità” e (3) “l’impietrimento mentale e spirituale”,
intendendo con ciò l’atteggiamento di coloro che “perdono la vivacità e l’audacia e si nascondono
sotto le carte diventando macchine di pratiche”. Le altre malattie del potere, elencate dal Papa
spesso con termini colorati, sono: (4) l’eccessiva pianificazione, (5) il cattivo coordinamento che
trasforma una squadra in “un’orchestra che produce chiasso”, (6) “l’Alzheimer spirituale” che fa
perdere la memoria dell’incontro con il Signore e consegna in balìa delle passioni, (7) la rivalità e la
vanagloria, (8) la schizofrenia esistenziale che porta a vivere una doppia vita, di cui la seconda è
all’insegna della dissolutezza, (9) le chiacchiere e i pettegolezzi che arrivano a un vero e proprio
“terrorismo” delle parole, (10) la divinizzazione dei capi in funzione del carrierismo, (11)
l’indifferenza verso i colleghi che priva della solidarietà e del calore umano e che anzi fa gioire
delle difficoltà altrui, (12) la faccia funerea di chi è duro e arrogante e non sa che cosa siano
l’umorismo e l’autoironia, (13) il desiderio di accumulare ricchezze, (14) i circoli chiusi e infine
(15) l’esibizionismo.

Queste sono le numerose malattie che secondo il Papa aggrediscono la Curia romana e i suoi
responsabili. Ma una domanda s’impone: è davvero così semplice separare il Pontefice dalla sua
amministrazione? La Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione di ciò che per secoli è
stato il Papato, governata dagli infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro
che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso
di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da
loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da
loro direttamente e che è così tanto malata?

La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato
straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del
Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa
Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento, indispensabile alla coerenza della vita
giustamente tanto cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non
possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio.

Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma
di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa impostazione in precisi
segni di spettacolare effetto quali il bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia
detta anche triregno tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente
quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la
logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È stato così per secoli e, come fa intendere il
discorso di papa Francesco, è così ancora oggi. Emblematico è il caso del cardinal Bertone, per anni
a capo della Curia romana e ora autopremiatosi con un lussuoso superattico nel quale probabilmente
si aggira fiero contemplando i frutti di un fedele servizio alla logica del potere.

L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è altro
che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del successore di Pietro. Quindi
la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco
per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì.

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Sono parole rivolte a tutti noi

Massimo Gramellini
La Stampa, 23.12.2014

Uno dei vantaggi del diventare anziani consiste nel potersi concedere lo sfizio di essere sinceri, a costo di apparire brutali. Il discorso di auguri, si fa per dire, nel quale Bergoglio ha mazzolato senza ritegno la Curia vaticana ricorda nei toni quello con cui Napolitano ringraziò, si fa sempre per dire, i parlamentari che lo avevano rieletto al Quirinale. Una sequela di giudizi sprezzanti e drammaticamente veri a cui i politici reagirono da par loro, spellandosi le mani nell’applaudire colui che li andava definendo inetti e incapaci.

Poiché vantano un tasso lievemente inferiore di faccia tosta e di masochismo, cardinali e prelati si sono limitati a ostentare maschere impassibili e sguardi terrei. Del resto il Papa è andato molto oltre Napolitano, rinfacciando ai suoi sottoposti ogni malattia etica concepibile, dalla freddezza di cuore alla brama di potere, con un linguaggio insolito in quegli ambienti felpati, abituati a esprimersi per allusioni.

Tanto per gradire, Bergoglio ha accusato gli interlocutori di «Alzheimer spirituale» e «schizofrenia esistenziale». E ha definito la Curia «un’orchestra che produce chiasso», infestata di «esibizionisti, calunniatori, diffamatori, terroristi delle chiacchiere e omicidi a sangue freddo della fama dei propri colleghi».

Dietro l’impassibilità delle vittime di tanta furia verbale si può leggere un’antica abitudine all’autocontrollo e alla dissimulazione, o forse la propensione umana a considerare le critiche come rivolte al vicino di banco e mai a se stessi. Finché a un certo punto Bergoglio se l’è presa con i traslochi sontuosi e lì nessuno – nemmeno l’interessato – ha potuto fare a meno di pensare a un nome e a un cognome. Quelli del cardinal Tarcisio Bertone, ratzingeriano in disgrazia prelatizia ma non edilizia, che si è da poco installato in un superattico con vista sulle due stanzette francescane del Papa.

Scorrendo la lista delle reprimende pontificali, si avverte un confortante senso di appartenenza, quasi di familiarità. Quando condanna l’invidia, la pigrizia mentale e il servilismo, il Papa sta parlando anche a noi, peccatori laici. Ma che a esserne così pesantemente afflitti siano gli uomini di Chiesa induce a nutrire qualche perplessità sull’efficacia della religione (almeno di quella che si trasforma in una professione) come ispiratrice di condotte morali, nonché sulle difficoltà che ogni istituzione umana incontra nel selezionare i migliori anziché i più ammanicati.

Lo sfogo del Papa voleva essere una sferzata, ma si è rivelato anche una confessione di impotenza. Se il leader di una organizzazione parla male dei collaboratori il giorno della sua nomina, si presume stia annunciando una rivoluzione. Se lo fa dopo che ha cominciato a comandare già da un pezzo, il suo lamento sa un po’ di resa. Come quando i nostri presidenti del Consiglio in carica da mesi o addirittura da anni si indignano per l’eccesso di tasse e di burocrazia.

Nella mia ingenuità mi domando: dopo averli presi a male parole, perché un Papa libero e forte come Bergoglio non può spedire i pretoni di curia a ripassare le ragioni della loro fede in qualche lontana e disagiata missione, sostituendoli con quei pretini di periferia intrisi di amore e tenacia che tengono in piedi le parrocchie e la Chiesa?