La mafia è «struttura di peccato». Nota pastorale sulla ‘ndrangheta dei vescovi calabri

Luca Kocci
Adista Notizie n. 2 del 17/01/2015

La Chiesa di Calabria ribadisce la scomunica agli appartenenti alla ‘ndrangheta già pronunciata da papa Francesco nella Piana di Sibari (Cs) lo scorso 21 giugno, durante la visita pastorale alla diocesi di Cassano allo Jonio (v. Adista Notizie n. 25/14).

«Nei confronti di chi, notoriamente e ostinatamente, nel corso della vita terrena abbia preso parte in prima persona, come mandante, come esecutore e collaboratore consapevole, ad organizzazioni criminali, come la ‘ndrangheta, la Conferenza episcopale calabra, pubblicamente e solennemente ribadisce che di fatto è fuori dalla comunione con la Chiesa», scrivono i vescovi. «Il mafioso, se non dimostra autentico pentimento, né volontà di uscire da una situazione di peccato, non può essere assolto sacramentalmente nel rito della confessione-riconciliazione, né può accedere alla comunione eucaristica; tantomeno può rivestire uffici e compiti all’interno della comunità ecclesiale. Nel cammino di conversione la Chiesa, però, non lo lascia solo, ma lo accompagna con pazienza e amore, come ci ha insegnato Gesù».

Le affermazioni, in linea con altri documenti della Conferenza episcopale calabra (Cec) – in particolare la Nota del 2007 “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”, ispirata da mons. Giancarlo Bregantini, allora vescovo di Locri-Gerace (Rc) – sono contenute nella Nota pastorale sulla ‘ndrangheta “Testimoniare la verità del Vangelo” emanata dalla Cec il 25 dicembre 2014 e resa nota lo scorso 2 gennaio. Un testo ampio (12 pagine) in cui è presente un’analisi complessiva della situazione nella regione, della posizione della Chiesa e delle istituzioni civili e un conclusivo «messaggio di speranza e invito alla conversione».

Un territorio e un popolo feriti

«La Calabria è una terra meravigliosa, ricca di uomini e donne dal cuore aperto ed accogliente, capaci di grandi sacrifici», scrivono i vescovi, che però rilevano anche una serie di problemi che affligge il territorio: la «disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente sono tra i mali più frequenti di questa nostra terra, segnata, anche per questo, dalla triste presenza della criminalità organizzata, che le fa pagare un prezzo durissimo in termini di sviluppo economico, di crisi della speranza e di prospettive per il futuro». Proseguono i vescovi: «La realtà criminale ha raggiunto ormai una dimensione “globalizzata”, in grado di aprire i propri spazi di “mercato di morte” oltre i confini nazionali ed europei, trovando in alcune frange della politica e dei poteri forti deviati connivenze e collusioni, che le permettono di piegare ai propri fini i suoi alleati, tante volte prezzolati in termini di denaro pulito e sporco, di tangenti, di favori e di raccolta di voti e consensi».

La ‘ndrangheta «struttura di peccato»

In questo contesto, «i pastori delle Chiese che sono in Calabria vogliono far riecheggiare l’indimenticabile grido contro la mafia, lanciato da san Giovanni Paolo II: “Convertitevi, verrà il giudizio di Dio”» (nella valle dei templi di Agrigento nel 1993, v. Adista Notizie n. 36/93).

«La ‘ndrangheta non ha nulla di cristiano», si legge nella Nota della Cec. «È altro dal cristianesimo, dalla Chiesa. Non è solo un’organizzazione criminale che, come tante altre, vuole realizzare i propri illeciti affari con mezzi altrettanto illeciti e illegali, ma, attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’unico vero Dio. L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale». La conseguenza è la «scomunica» di fatto e l’esclusione dall’accesso ai sacramenti, in mancanza di pentimento e ravvedimento concreto.

L’uso criminale di una «religiosità deviata»

«La ‘ndrangheta – scrivono ancora i vescovi calabri – è un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Essa si poggia su legami familiari che rendono più solidi sia l’omertà, sia i veli di copertura. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei “padrini”), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà. La ‘ndrangheta, lì dove attecchisce e prospera, svolge un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra. Con la forza del denaro e delle armi, esercita il suo potere e, come una piovra, stende i suoi tentacoli dove può, con affari illeciti, riciclando denaro, schiavizzando le persone, ritagliandosi spazi di potere. È l’antistato, con le sue forme di dipendenza, che essa crea nei paesi e nelle città. È l’anti-religione, insomma, con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso. È una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli. È contro la vita dell’uomo e contro la sua terra. È, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno».

«Irresponsabili connivenze»

«Nelle radici della ‘ndrangheta c’è, infatti, il concetto di un “assoluto”, sopra del quale non c’è alcun altro: ma solo il capo di turno e la “cupola” mafiosa», prosegue la Nota della Cec. «Un “assoluto” da cui si dipende, a cui bisogna sempre ubbidire e rendere conto di tutto; un “assoluto”, che ha l’ultima parola sulla vita stessa degli altri. Non ci vuol molto a capire che si è in una situazione diametralmente opposta a quella del Vangelo».

Arriva poi il riferimento ai legami fra boss e religiosità popolare – dalle processioni con gli “inchini” delle statue della Madonna e dei santi davanti alle abitazioni dei capi mafia, alla frequentazione assidua di alcuni santuari da parte di ‘ndranghetisti, come quello della Madonna di Polsi in Aspromonte (v. Adista Notizie nn. 64/10 e 65/11) –, da sempre usata come strumento di consenso e legittimazione popolare, con la benedizioni ecclesiastica. Secondo i vescovi calabresi, «scandalosa è l’assimilazione tra certe forme di manifestazione della pietà e della devozione, da una parte; e certi riti pagani e mafiosi di affiliazione ai clan, dall’altra. È vero che le radici del fenomeno vanno inquadrate in una “questione meridionale” ancora irrisolta e in una cultura deviata, che vuole esercitare una supplenza alle deficienze e assenze dello Stato, ai suoi ritardi, e alla sua stessa impostazione sociale, ma è anche vero, lo ribadiamo, che questa forma di criminalità si è trasformata in una piovra, che cerca di sostituirsi allo Stato e vuole dominare il territorio fino a impadronirsene con la forza. Tale deleterio fenomeno ha infestato la nostra vita sociale ed è penetrato anche in certi scenari religiosi di alcune comunità ecclesiali locali. Possiamo affermare che lo stravolgimento subìto dalle devozioni e dalle pratiche di culto della Chiesa ha portato, a volte, alcune belle forme di pietà popolare a diventare autentiche manifestazioni di idolatria, mascherata di religiosità».

E infatti, segnalano i vescovi in un passaggio in cui è possibile leggere un’autocritica dell’operato di alcuni uomini di Chiesa – non della struttura ecclesiastica però –, «non sono mancate irresponsabili connivenze di pochi, nonché silenzi omertosi: e di questo i credenti sanno e vogliono chiedere perdono».

Ma i vescovi non sono poliziotti o magistrati

Contro la ‘ndrangheta, la Chiesa «conferma di non poter tacere o restare indifferente», afferma la nota della Cec, nella quale tuttavia si puntualizza che «la Chiesa non è la magistratura e non è la polizia e non è neppure un tribunale civile, chiamato a distribuire patenti di mafiosità». E, nell’ambito della «necessaria collaborazione» con la magistratura, si ribadisce l’inviolabilità del segreto confessionale che mai «nessun ministro di Dio può tradire».

Una precisazione superflua – perché è fin troppo ovvio che la Chiesa non può essere confusa con magistratura e polizia –, che sembra quasi voler attenuare la nettezza della Nota pastorale. Oppure mettere i puntini sulle i nelle recenti polemiche a mezzo stampa che hanno contrapposto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri – che aveva imputato alla Chiesa omissioni e talvolta collusioni con la ‘ndrangheta – e alcuni vescovi calabri (v. Adista Notizie n. 42/13).

Meta finale: la conversione

Nessuna commistione è possibile fra «fede» e appartenenza alla ‘ndrangheta, conclude la Nota della Cec, «la Chiesa sente di dover essere consequenziale, marcando la differenza tra il bene e il male, per non trasmettere messaggi ambigui e ricordare invece, ancora una volta, che chi sceglie la mafia si pone al di fuori del Vangelo; e, quindi, morirà senza la consolazione che lo Spirito offre a chi sceglie la vita vera». Ma l’obiettivo ultimo resta la «conversione», perché «anche il più incallito dei peccatori, giustamente condannato dalla magistratura, ha ancora la possibilità di ravvedersi e di riparare».

Una conversione che però, precisano i vescovi, non può essere “a costo zero”. «Riconoscere di non essere in comunione con Dio è un appello a intraprendere un cammino di redenzione umana e di reinserimento sociale, ovvero di conversione, non come atto intimistico, ma come proiezione sul piano storico di un’avvenuta trasformazione esistenziale; tale cammino esige, comunque, la riparazione per il male inferto agli altri e al corpo sociale, nonché per le ingiustizie commesse a danno delle persone e della società. Nel caso specifico dello ‘ndranghetista, l’espiazione-riparazione non potrà certo ridare vita agli uccisi, o alle vittime dei reati e degli atteggiamenti mafiosi, ma potrà almeno contribuire alla ricostruzione personale e spirituale e, soprattutto, potrà, con una vita diversa, attaccare il male alla radice, per demolire le fondamenta stesse dell’organizzazione mafiosa». Insomma pentimento, ma anche collaborazione fattiva con le istituzioni.

Ad un prossimo Direttorio dei vescovi «su aspetti della celebrazione dei sacramenti e della pietà popolare» è affidata l’elaborazione e la redazioni di alcuni «principi e linee guida a cui ispirarsi e attenersi nelle nostre diocesi di Calabria». Intanto ora, oltre alla parole del papa a Sibari, c’è anche questo documento ufficiale della Conferenza episcopale calabra che, al di là delle necessarie e sicuramente opportune dichiarazioni di principio, andrà applicato nelle singole diocesi e comunità della regione.