La mamma, Dio e la nonviolenza di M.Lanfranco

Monica Lanfranco
www.ilfattoquotidiano.it

Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere? No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.

Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.

Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede.

Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso?

Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.

I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.

Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?

Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.

Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita.

Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella?

Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).

Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione. Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde.

O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.

Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.

I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.

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Charlie Hebdo e la chiesa ‘giocattolica’

Emanuele Fucecchi
Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015

Il ‘giocattolizza’ che ha usato il Papa testimonia la sua fantasia linguistica, la voglia di capire e di cercare. Il coraggio di esporsi. Come fa chiunque altro su twitter, sui social, in un blog. In questo modo è più facile dire baggianate. Questa del pugno se offendi mia mamma lo è.

Inopportuna nel linguaggio, nello spazio e nel tempo. Sgraziata in relazione alla gravità del momento e sbagliata nel merito, da un punto di vista cristiano e laico. Sul versante religioso è il contrario esatto di “porgi l’altra guancia”, non c’è bisogno di dirlo.

Cristo diceva di non reagire di fronte ad un’offesa fisica, il papa ritiene addirittura plausibile farlo di fronte ad un’offesa verbale. Le parole di Gesù sono utopiche ma non impossibili: se le riteniamo tali allora sbaracchiamo tutta la santeria.

Ma quello che più interessa è il versante delle regole del vivere comune nelle società aperte. C’è un confine su cui il Papa e in parte anche “il cosiddetto occidente” va facendo slalom da tempo sotto l’assedio fondamentalista.

Il confine è questo: Dio ha un solo vero tempio, ed è la coscienza e la persona. Tutto il resto sono immagini, parole, oggetti che discendono da questo luogo sacro. Si può offendere la religione? Come qualsiasi altro fenomeno intellettuale o culturale se siamo in una società libera.

Dio è tua mamma ma solo per te. Se ne parlo male non sto offendendo una persona. Quello è il vero limite. Possiamo far equivalere l’offesa del pensiero all’offesa dell’individuo che lo esprime? No, possiamo cercare delle mediazioni che valgono per tutti e non solo per le religioni.

Se scegliessimo la strada dell’equiparazione finirebbe tutto, a partire dalla libertà di espressione. Puoi dire quello che vuoi, puoi mettere un Cristo gigante su un palazzo se tutti i condomini lo vogliono e l’urbanistica non lo vieta.

Il rovescio di questa libertà è esattamente questo: ritenere quell’immagine stupida e avere la libertà di poterlo dire a voce alta.

É un punto cruciale: la risposta non può essere diminuire la libertà per paura. Avrebbe ragione chi dice che i nostri tremebondi valori sono più deboli di Maometto