“San Romero d’America” sugli altari di Roma. Con qualche rischio di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Notizie n. 6 del 14/02/2015

Per prima è arrivata la santificazione decisa dal popolo, la cui eco dom Pedro Casaldàliga ha raccolto nel suo indimenticato poema “San Romero d’America, Pastore e Martire nostro”. Ed è, secondo il vescovo brasiliano, quella che conta davvero: «Che non canonizzino mai san Romero d’America – scriveva nel suo libro Il volo del quetzal – perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in un modo del tutto particolare. È già stato canonizzato dal popolo. Non occorre altro». Ma altri riconoscimenti sono seguiti: dalla “canonizzazione cristiana”, per usare l’espressione del teologo Jon Sobrino, rappresentata dall’immagine di Oscar Romero (accanto ad altre nove immagini di martiri cristiani del XX secolo) sulla facciata della cattedrale anglicana di Westminster, fino alla “canonizzazione laica” costituita dalla proclamazione, da parte del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, del 24 marzo come “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e la dignità delle vittime”. Infine, a 35 anni dall’assassinio sull’altare dell’arcivescovo salvadoregno, è arrivato – dopo il riconoscimento unanime del martirio di mons. Romero in odium fidei da parte tanto della commissione teologica quanto di quella cardinalizia della Congregazione per le Cause dei Santi – il decreto di beatificazione firmato il 3 febbraio da papa Francesco. Si conclude così la lunga, complessa e travagliata vicenda della causa “ufficiale”, trascinatasi a Roma per 19 anni (dalla chiusura della fase diocesana nel 1996), restata a lungo bloccata malgrado l’esame dettagliato delle omelie e degli scritti dell’arcivescovo non avesse evidenziato alcuna ombra, né a livello di ortodossia né a quello di ortoprassi.

Ragioni di “convenienza”, si diceva: perché un santo non doveva alimentare divisioni, ma essere segno di unità – dunque associare in un unico applauso vittime e carnefici, contadini massacrati e oligarchi in festa alla notizia dell’assassinio – e perché, si diceva ancora, la sinistra, locale e mondiale, aveva ostacolato la causa manipolando, politicizzando e strumentalizzando la figura di Romero, nel tentativo di sottrarre alla Chiesa il “suo” santo, il “suo” martire, il “suo” vescovo. «Romero è nostro», proclamava orgogliosamente Giovanni Paolo II (secondo la testimonianza di mons. Vincenzo Paglia), in un’operazione – peraltro ancora in corso (v. notizia successiva) – diretta a trasformare in santo dell’istituzione quello che è e resta il santo del popolo (quel popolo che egli chiamò suo maestro – «il vescovo ha sempre molto da imparare dal suo popolo» – e suo profeta – «il popolo è il mio profeta»).

Cercando ovviamente di minimizzare, rileggere, ridimensionare l’ostilità a lungo manifestata nei confronti di Romero dal papa polacco (se non bastasse il racconto offerto da María López Vigil – autrice dell’indimenticabile biografia di mons. Romero Piezas para un retrato – sul drammatico incontro, nel marzo del 1979, tra mons. Oscar Romero e Giovanni Paolo II, di cui l’arcivescovo stesso le parlò «quasi piangendo», vanno perlomeno ricordate le tre visite apostoliche in appena 12 mesi riservategli dal Vaticano).

La svolta, per la causa di beatificazione, è arrivata con l’avvento al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio, il cui convinto auspicio che Romero fosse al più presto proclamato santo (fino ad affermare, lo scorso agosto: «Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti) ha impresso una spinta decisiva alla causa di beatificazione. «Tutto è cambiato con papa Francesco», aveva scritto non a caso il teologo gesuita Jon Sobrino all’inizio di novembre, evidenziando come i due pontefici precedenti, Wojtyla e Ratzinger, avessero parlato anch’essi della canonizzazione di Romero, «ma senza grande convinzione e decisione». E con «il timore di infastidire i potenti: “Non è ancora il momento opportuno”» (v. Adista Notizie n. 41/14).

Ma se, come ha riconosciuto mons. Vincenzo Paglia, postulatore della causa di beatificazione, nel briefing che si è tenuto il 4 febbraio presso la Sala Stampa della Santa Sede (v. notizia successiva), è stata di sicuro rilevante l’opposizione nei confronti del pensiero e dell’azione pastorale dell’arcivescovo, «non è senza significato – ha detto – che la sua beatificazione avvenga proprio mentre sulla cattedra di Pietro vi è, per la prima volta nella storia, un papa latinoamericano che vuole una “Chiesa povera e per i poveri”. Una coincidenza provvidenziale». E ugualmente significativo è, secondo Paglia, il ruolo di Romero come novello protomartire, «il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei», tra i quali un posto di rilievo spetta sicuramente al gesuita Rutilio Grande, il cui assassinio, a poco più di un mese dalla nomina di Romero ad arcivescovo, gli avrebbe dato la forza di ergersi a difensore delle vittime anche a costo della vita (ed è sicuramente una bella notizia l’apertura, annunciata da Paglia, della fase diocesana della causa di beatificazione del gesuita). Tuttavia, se mons. Paglia ha evidenziato, durante il briefing, il cambiamento intervenuto nella concezione del martirio – oggi, spesso e volentieri, inflitto ai credenti da carnefici che si professano anch’essi cattolici – tale novità non viene adeguatamente rispecchiata dalla formula dell’odium fidei, essendo assai più pertinente, nel caso di Romero, come sottolineato tante volte e da più parti, quella dell’odium justitiae, la morte per la causa della giustizia. Con la speranza, recentemente espressa da Sobrino, che il nome dell’arcivescovo «dia un nome a tanti che sono rimasti senza nome», come pure dia «un nome a tanti popoli crocifissi, innocenti e indifesi» (v. Adista Documenti n. 20/13).

Ad oggi, non si conosce ancora la data in cui verrà celebrata la beatificazione di mons. Romero: di certo, ha affermato mons. Vincenzo Paglia, si terrà entro l’anno, «tra non molti mesi». A celebrarla sarà il prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, il card. Angelo Amato (secondo quanto Paglia ha dichiarato ad Avvenire, nell’intervista pubblicata il 4/2). E anche il luogo è già noto: sarà a San Salvador, tra il popolo che, da subito, lo ha dichiarato santo. E sarà, ha assicurato il presidente salvadoregno Salvador Sánchez Cerén, un «evento storico, di livello mondiale, come merita la figura di monsignor Romero».