Papa Francesco e i preti sposati, un confronto avviato di L.Kocci

Luca Kocci
Adista Notizie n. 9 del 07/03/2015

Che papa Francesco abbia la questione dei preti sposati nella sua «agenda» non può più sorprendere considerato che, il 4 aprile dello scorso anno, a mons. Erwin Kräutler che lo informava della difficoltà delle comunità amazzoniche di accedere ai sacramenti per la rimarchevole scarsità di sacerdoti, disse: “proponete qualche soluzione innovativa e poi si vedrà”; e che, a seguito di tale colloquio, la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) ha costituito una commissione per studiare la possibilità di ordinare sacerdoti dei viri probati (uomini sposati di provata fede e serietà) sotto la presidenza del card. Claudio Hummes, già vescovo di São Paulo e attualmente presidente della Commissione episcopale brasiliana per l’Amazzonia (v. Adista Notizie nn. 16 e 45/14; bisogna tuttavia sottolineare che su un siffatto “laboratorio” non ci sono state né conferme né smentite ufficiali).

Quanto ha detto Bergoglio nell’udienza ai parroci e i preti della diocesi di Roma – consueta ad inizio Quaresima – è la conferma di un processo di rinnovamento del ministero ordinato decisamente avviato nella riflessione della Chiesa.

Durante l’incontro, il 19 febbraio scorso, dopo il saluto del cardinal vicario Agostino Vallini e il discorso del pontefice dedicato alla celebrazione della messa e in particolare alle omelie dei preti – «quando troviamo i sacerdoti che celebrano in modo sofisticato, artificiale, o che abusano un po’ dei gesti non è facile che si dia stupore», e così «se io sono eccessivamente rigido non faccio entrare nel mistero» e «se io sono showman, protagonista della celebrazione, non faccio entrare nel mistero», ha ammonito Bergoglio –, si è aperto lo spazio per le domande dei presenti. Uno dei partecipanti, don Giovanni Cereti, già docente di teologia in numerosi atenei pontifici e da anni sostenitore dell’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati (v. Adista Notizie n. 44/13), ha sollevato il tema dei preti sposati. «Mi sono alzato per parlare e ho detto che questo incontro era “mutilato” perché mancavano tutti quei preti che sono stati dimessi dallo stato clericale e si sono sposati», racconta Cereti ad Adista. «Ho aggiunto che a questi fratelli è stata imposta la “pena accessoria” di non poter più esercitare il ministero. Ma molti di loro lo riprenderebbero volentieri, pur restando sposati. E allora ho chiesto al papa, come del resto avevo già fatto anni fa, alla vigilia del Giubileo del 2000: non sono forse maturi i tempi perché la Chiesa cattolica li riammetta?».

Alla domanda “fuori programma” – non era infatti fra quelle previste e preparate dall’organizzazione dell’incontro –, papa Francesco ha risposto in modo interlocutorio, ma senza chiudere porte: «Il problema è presente nella mia agenda», ha detto. E ha poi raccontato un episodio “complementare”, accaduto pochi giorni prima. Il 10 febbraio, nella consueta messa mattutina a Santa Marta in Vaticano, erano presenti 12 preti che festeggiavano i 50 anni di ordinazione sacerdotale, sette dei quali regolarmente in attività (fra cui il direttore della Caritas di Roma, mons. Enrico Feroci) e cinque invece dimessi dallo stato clericale e ora sposati (fra cui il giornalista di Avvenire Gianni Gennari, vedi Fuoritesto in questo numero). I sette “regolari” hanno concelebrato la messa, i cinque “ex” ovviamente no, ma già la loro presenza appare significativa. Al termine sono stati salutati personalmente e affettuosamente da Bergoglio, racconta chi era presente.

Due episodi – le parole all’incontro con il clero romano e l’invito a Santa Marta ai preti sposati – che sono sicuramente insufficienti ad avvalorare un dichiarato cambio di direzione, ma che denotano volontà di ascolto e intenzione di affrontare la questione, da sempre uno dei temi di riforma sostenuti dal movimento Noi Siamo Chiesa e dalla Chiesa di base.

Nelle Chiese orientali uomini sposati vengono regolarmente ordinati presbiteri. Nella Chiesa cattolica romana no, ma in molte parti del mondo, e anche in diverse diocesi italiane, i preti sposati celebrano la messa con una certa frequenza, con il silenzio-assenso dei propri vescovi, che si limitano a consigliare loro di non farsi vedere troppo in giro, ovvero di evitare le celebrazioni pubbliche e di limitarsi a farlo con gruppi ristretti. «Se un vescovo acconsente, perché Roma dovrebbe proibirlo?», spiega Cereti ad Adista, suggerendo una strada da percorrere: «Si potrebbero avviare delle sperimentazioni. Alcune diocesi potrebbero consentire ad alcuni preti sposati di celebrare l’eucaristia in determinati circostanze, con l’approvazione della Santa Sede. Non sarebbe quindi una regola universale, ma perlomeno l’avvio di un percorso, che poi potrebbe essere esteso». (luca kocci)

——————————————

PRETI SPOSATI E SACERDOTI DI COMUNITÀ: LE RIFLESSIONI DI ALCUNE PARROCCHIE DI MADRID

Eletta Cucuzza

La riflessione su nuove forme di ministero ordinato, al quale potrebbero accedere anche uomini sposati, se è stata sollecitata da papa Francesco nell’incontro con il vescovo brasiliano Erwin Kräutler nel 2014 e se è nell’«agenda» del pontefice secondo quanto da lui stesso dichiarato (v. notizia precedente), è tanto più viva nella base ecclesiale; non solo quella laica, che da anni propone di sopprimere l’obbligatorietà del celibato per i preti (un esempio per tutti, Noi Siamo Chiesa, a livello internazionale e nelle ramificazioni nazionali), ma anche quella più “istituzionale”, cioè movimenti e gruppi di sacerdoti (per esempio la Pfarrer Initiative in Austria o los Curas de Madrid in Spagna).Ed è proprio sul versante “istituzionale” che si registra l’iniziativa delle parrocchie dell’arcipretura di San Paolo, nel quartiere di Madrid denominato Vallecas: i sei parroci – cui poi se ne sono aggiunti altri – hanno inviato a papa Francesco una lettera nella quale hanno sintetizzato le riflessioni condotte per quattro mesi sul ministero ordinato. Il testo è giunto al pontefice pochissimi giorni dopo l’incontro avuto (il 4 aprile 2014, v. Adista Notizie n. 16/14) con mons. Erwin Kräutler proprio sull’ipotesi di nuove forme di sacerdozio. Al vescovo brasiliano, e indirettamente a tutte le Conferenze episcopali, il papa aveva detto qualcosa tipo “riflettete e fatemi conoscere le vostre proposte”. I parroci madrileni erano già in cammino su questa strada, non mancava loro che imbucare la lettera. La quale è stata diffusa solo in questi giorni (da “Proconcil”, fondazione della sezione iberica di Noi Siamo Chiesa), con la precisazione che non c’è stata risposta perché l’unico obiettivo era – è scritto nella lettera a Francesco – informarlo di un «processo concreto che da qualche anno si registra nelle nostre comunità, perché forse può risultare utile per una riflessione più generale, in chiave conciliare».

Infatti, da esperienze vissute partono i firmatari, che raccontano dei numerosi abbandoni del ministero, a partire dagli anni ’70: «Nella maggioranza dei casi non è successo perché non volevano continuare a servire la comunità, né per dubbi di fede, ma perché non avevano vocazione di celibi. Li abbiamo visti allontanarsi con un sentimento di perdita. Non abbiamo mai pensato che fossero disertori della Chiesa, ma che la vita li aveva chiamati su un altro cammino», quello del matrimonio, incompatibile attualmente – «ma non è sempre stato così e non lo è per altre Chiese cristiane» – con il sacerdozio. Alcuni hanno continuato a lavorare con la Chiesa in ruolo diverso dal ministero ordinato. I parroci raccontano al papa il lavoro prezioso svolto da un prete sposato e dalla moglie nella parrocchia madrilena Santi Cosma e Damiano: «Hanno condiviso pubblicamente con la gente del quartiere, con le comunità e con il vescovo l’impegno sociale, cristiano ed ecclesiale, senza creare problemi che potessero rompere l’ecclesialità o indebolire la disposizione del servizio del ministro alla comunità». «C’è stato un momento in cui il loro lavoro è stato richiesto da una certa comunità parrocchiale perché si incorporassero all’équipe presbiterale». E non perché la parrocchia mancasse di sacerdoti ma «perché la loro testimonianza era un servizio e una ricchezza da non perdere». «Quel che è certo – riassumono – è che, in una comunità parrocchiale “probata”, con un lungo percorso di condivisione di responsabilità con e tra i laici, dove la gente dibatte ma senza fratture, c’è stata una forte domanda di un sacerdote sposato e che continuasse come presbitero». «Non è stata dunque la decisione di una sola parrocchia, ma anche di altre limitrofe».

Negli anni, continuano a raccontare i parroci firmatari, altri sacerdoti che sono rimasti nel loro ufficio hanno riflettuto sulla «via del celibato opzionale», quale «cammino sul quale avanzare per il bene delle comunità dei sacerdoti e della stessa Chiesa» che si «arricchirebbe con questo doppio ministero». Proposta che «ora molte comunità e preti condividono, e quelli che non la vedono chiara almeno non si scandalizzano». «Anche molti vescovi con grande coscienza missionaria – aggiungono i firmatari – cercano diverse alternative ministeriali, specialmente ad altre latitudini», sia perché la scarsità di sacerdoti è un problema, sia «perché vogliono rivitalizzare le comunità e sviluppare i carismi presenti in esse». E allora, «non passerà molto – considerano – che questo tema sarà ampiamente trattato nella Chiesa; e speriamo che ci siano presto diversi cambiamenti nella “forma di essere preti” che ci allontanino dal clericalismo, restituendo maggiore centralità alle comunità e chiamando tutti a maggiore corresponsabilità; cambiamenti che ci aiutino a percorrere il cammino ecumenico». Portano poi ad esempio di modalità sacerdotali degne di riflessione il diaconato sposato di San Cristóbal de las Casas, in Messico, nella speranza di poter essere ordinato per il servizio eucaristico nelle comunità, e il presbiterato di comunità proposto da mons. Fritz Lobinger, vescovo emerito di Aliwal, in Sudafrica (v. Adista nn. 37/11 e 40/14), due modalità di cui lo stesso Francesco, ricordano i firmatari, ha parlato con mons. Kräutler.

La proposta Lobinger

Proprio in Brasile, dove lo studio di nuove forme di presbiterato è all’attenzione della Conferenza episcopale (v. notizia precedente), è uscito a gennaio il libro “Nuovi ministeri. Vocazione, carisma e servizio nella comunità” (Herder Editorial, 2015, ma di prossima uscita anche in Spagna) a firma del teologo e pastoralista brasiliano Antonio José de Almeida, che il settimanale cattolico spagnolo Vida nueva, nel pubblicare una sua intervista (30/1), definisce «profondo conoscitore di numerose formule sorte negli ultimi decenni in America Latina, dove alcuni servizi evangelici sono assunti da persone che non sono sacerdoti». Almeida, docente presso la Pontificia Università cattolica del Paraná e presso l’Istituto Teologico-pastorale per l’America Latina in Colombia, rilancia, fra le altre cose (molti e tutti da approfondire e vivificare sono i carismi ecclesiali di cui ha avuto esperienza e che tratta nel libro, al di là de ministero ordinato), la “proposta Lobinger”. Perché, spiega, «quello che manca in moltissime comunità – solo in Brasile sono più di 70mila le comunità senza la possibilità di celebrare regolarmente l’eucarestia – sono, come vertice di un ampio processo, ministri eletti dalla comunità e ordinati come presbiteri per presiedere l’eucarestia nella loro comunità».

«Molto concretamente», aggiunge, Lobinger «propone che i nuovi ministri siano della loro stessa comunità, da questa direttamente eletti, e che non ce ne sia uno solo per comunità, ma una piccola équipe (due o tre), single o sposati, e che continuino ad essere inseriti nella vita civile, con la loro famiglia, il loro lavoro professionale, la loro vita normale. Dato che la comunità è piccola, la loro partecipazione in essa sarà vicina, forte, calda, ma il loro servizio come ministri ordinati sarebbe a tempo parziale. In questo modo si ottengono due cose: maggiore partecipazione, che porta a mettere in luce doni e carismi specifici (capacità di lavorare con bambini, con persone anziane, con coppie o con immigrati…) e minore sovraccarico di lavoro per una sola persona. Il modello non è la grande parrocchia, territoriale anonima, sacrale, totalmente centrata sul parroco e da lui dipendente in tutto, ma la comunità “a misura di persona”, di gente che si conosce: una comunità accogliente, aperta, partecipativa, missionaria».