Cristianesimo e violenza contro le donne di M.DAuria

Marta D’Auria
www.riforma.it

Giovedì 5 marzo presso la chiesa evangelica metodista di Novara si è tenuto un incontro con la teologa femminista Elizabeth E. Green sul tema «Donna, perché piangi (Gv 20, 13)? Cristianesimo, chiese e violenza contro le donne». Elizabeth E. Green, attualmente pastora della chiesa battista di Grosseto, già vice-presidente dell’Associazione europea delle donne per la ricerca teologica, ha pubblicato per l’Ed. Claudiana di Torino: Lacrime amare. Cristianesimo e violenza contro le donne (2000); Il Dio sconfinato. Teologia per donne e uomini (2007); Dal silenzio alla parola. Storie di donne nella Bibbia (2007); Il vangelo secondo Paolo. Spunti per una lettura al femminile (2009); Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista (2011). A lei abbiamo rivolto alcune domande.

«Donna, perché piangi?» sono – secondo l’evangelo di Giovanni – le prime parole pronunciate dal Cristo risorto. Cosa esprime questa domanda?

«Credo che l’evangelista Giovanni voglia sottolineare che Gesù rivolge quella domanda ad una donna perché egli stesso era capace di esprimere emozione e piangere. In un altro capitolo del quarto Vangelo, infatti, ci viene detto che Gesù pianse per la morte del caro amico Lazzaro. Le chiese, purtroppo, lungo i secoli non hanno mostrato la stessa sensibilità verso il pianto delle donne né verso una delle sue cause: la violenza maschile.»

Quando le donne hanno cominciato ad interrogarsi sul nesso tra violenza maschile e cristianesimo?

«La riflessione è cominciata durante il Decennio ecumenico di solidarietà con le donne (1985-1995), a conclusione del quale fu chiaro che ciò che univa le donne di tutte le regioni, le confessioni e i ceti sociali era la violenza maschile. La IV Conferenza mondiale sulla donna tenutasi a Pechino vent’anni fa ha dichiarato che “La violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni storicamente ineguali tra gli uomini e le donne che hanno condotto alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e costituisce un ostacolo al pieno progresso delle donne”. Dunque, per scoprire il nesso tra cristianesimo e violenza contro le donne bisogna vedere in che modo esso ha contribuito alla costruzione di tali relazioni ineguali. Non sto dicendo che il cristianesimo ha creato tale squilibrio, ma certamente ha veicolato idee le quali, costruendo potenti stereotipi di genere, hanno permesso la violenza contro le donne.»

In che modo il cristianesimo ha contribuito a rendere asimmetriche le relazioni tra uomini e donne all’interno delle quali accade la violenza?

«Nel mio libro Lacrime amare ho individuato alcuni aspetti del pensiero cristiano che hanno legittimato la violenza contro le donne, ad esempio: la sottomissione o subordinazione delle donne, la peccaminosità femminile, la sofferenza come fonte di salvezza, l’immagine di Dio Padre, un messaggio distorto dell’amore e del perdono cristiano veicolato da espressioni come “l’amore sopporta tutto”, “portare la propria croce”, e infine il silenzio. Riguardo a quest’ultimo aspetto, in particolare, le chiese, esortando le donne a tacere, non solo hanno contribuito a creare quella cultura del silenzio che circonda ogni forma di violenza contro le donne, non solo non sono riuscite a elaborare una visione del corpo e della sessualità che aiutasse ragazze e donne a essere più consapevoli di se stesse, più capaci di resistere alla violenza maschile, ma esse stesse hanno mantenuto il silenzio circa la violenza contro le donne, diventandone complici.Ecco nei secoli il cristianesimo ha contribuito, e contribuisce tuttora in alcuni contesti, a costruire il tipo di relazioni squilibrate tra i generi all’interno delle quali accade la violenza contro le donne. Però sono convinta che il cristianesimo possieda delle risorse importanti.»

Quale può essere dunque il compito delle chiese cristiane?

«Prima di tutto, tornando a quanto affermato dal Decennio ecumenico di solidarietà con le donne, occorre riconoscere che la violenza maschile è peccato, nominarlo, denunciarlo e parlarne. Poi bisogna impegnarsi affinché le parrocchie e le comunità diventino palestre di un nuovo modo di vivere le relazioni tra uomini e donne e siano sempre più “assemblea di uguali”, per riprendere un’immagine della teologa femminista cattolica Elisabeth Schüssler Fiorenza. È importante, infine, formare sacerdoti e pastori a riconoscere i segni e i sintomi della violenza maschile contro le donne, ed accompagnare le donne in un percorso di liberazione e di trasformazione.»

E gli uomini?

«In questi ultimi anni gli uomini sono diventati sempre più consapevoli che il problema riguarda loro in prima persona. Non solo ci sono gruppi di uomini, come le associazioni Maschile plurale e Uomini in cammino, che riflettono sulla propria maschilità ovvero sulle radici culturali della violenza, ma è nata un’attenzione ai maltrattanti, e l’elaborazione di un percorso che aiuti l’uomo a modificarsi, a riconoscere e a gestire le sue complesse sensazioni di dipendenza e di impotenza che possono sfociare nel bisogno di controllo. Anche su questo versante credo che le chiese possano fare la loro parte, accompagnando gli uomini in un percorso di maturazione e di consapevolezza all’insegna dell’esempio lasciatoci da Gesù il quale mai discriminò le donne, anzi le difese contro la prepotenza maschile, mise il servizio e non il dominio al centro delle relazioni umane, preferì subire la violenza anziché infliggerla. Sarebbe importante che le chiese, composte da uomini e da donne, si occupassero della violenza maschile contro le donne e si assumessero le loro responsabilità a riguardo, seguendo l’esempio di Gesù che seppe piangere egli stesso e le cui prime parole pronunciate da risorto furono “Donna, perché piangi?”.»