La polemica sul matrimonio gay rivela i limiti della rivoluzione di papa Francesco di F.Peloso

Francesco Peloso
www.internazionale.it

La bomba del referendum irlandese ha mandato in frantumi gran parte della propaganda vaticana degli ultimi anni. L’omosessualità, del resto, sta diventando sempre di più una pietra d’inciampo insuperabile per la chiesa europea e di tutto l’occidente. Se il cattolicesimo parla infatti un linguaggio universale, indubbiamente la questione dell’estensione dei diritti civili come risposta positiva alle rivendicazioni dei movimenti gay, ha prodotto in molti paesi del Nord e Sudamerica e del vecchio continente (ma non in Italia), legislazioni che, con diverse varianti e sfumature, hanno riconosciuto le unioni civili o i matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Così tutta la normativa relativa ai coniugi o ai conviventi eterosessuali è stata progressivamente o parzialmente applicata alle coppie omosessuali. È un cambiamento profondo che rileva nella sessualità umana una varietà e una diversità di tendenze non coercibili o correggibili, ritenute invece pienamente parte dell’identità della persona.

Tuttavia il Vaticano in questi anni ha sostenuto una sua particolare teoria, secondo la quale una sorta di indottrinamento culturale proveniente da agenzie internazionali – quelle delle Nazioni Unite sotto la spinta dei paesi nordeuropei, o dell’Unione europea, sempre influenzata dagli eurocrati laicisti di Bruxelles – avrebbe di fatto imposto cambiamenti collettivi nell’idea di famiglia e nei comportamenti sessuali, modificando il dna culturale dei popoli in varie parti del mondo.

Insomma, una minoranza influente e ricca che controlla gli organismi internazionali ed è in grado di dettare le agende sociali e culturali, avrebbe scientemente messo in crisi la famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio e “aperta alla vita”, cioè pronta ad accogliere figli, in base a un’idea di uguaglianza pericolosa, tutto sommato consumistica e individualista, che annulla le differenze e sostiene una visione potenzialmente autoritaria della società. Un’accusa suggestiva e tutt’altro che di poco conto.

L’approvazione di leggi sui diritti delle coppie omosessuali da parte di diversi parlamenti nazionali, con orientamenti politici non omogenei, aveva già messo in crisi una simile lettura. Ma il caso irlandese è ancora diverso e in un certo senso fa cadere definitivamente la strategia della chiesa di Roma. Intanto si è trattato di un referendum popolare, vale a dire una consultazione generale che ha approvato le nozze omosessuali. Ma soprattutto l’Irlanda non può certo essere accusata di derive protestanti o anglicane sotto il profilo culturale, dato che anche se è stata oggetto di un processo di secolarizzazione e diffusione della laicità tipicamente moderno, le sue radici restano profondamente cattoliche.

Ma c’è ancora un altro particolare a fare del caso irlandese un unicum nel suo genere: l’istruzione pubblica è stata a lungo controllata da ordini e congregazioni religiose cattoliche.

È anche in base a quest’ultima considerazione che secondo l’arcivescovo di Dublino, monsignor Diarmuid Martin, il voto ha rappresentato una rivoluzione culturale e sociale. Martin – che in verità non aveva lanciato anatemi contro la consultazione – ha rotto un tabù quando ha detto che la “chiesa deve guardare in faccia la realtà, non c’è stato alcun complotto”, e anzi sono stati i vescovi a rifiutarsi di guardare da vicino quello che stava accadendo. L’arcivescovo è certamente un prelato di peso, che pure in passato aveva messo in guardia la chiesa del suo paese dal rischio di sottovalutare l’impatto sociale dello scandalo degli abusi sui minori commessi da religiosi che proprio in Irlanda ha avuto uno dei suoi epicentri più potenti.

La vicenda ha indubbiamente influito sulla trasformazione del paese: dei vescovi si sono dimessi, movimenti religiosi e diocesi sono finiti sotto accusa, una serie di inchieste governative ha illuminato pagine oscure e poco onorevoli della storia della chiesa in Irlanda. Il paese non è più cattolico come un tempo, e in questo allontanamento va letto l’indebolimento della chiesa nel vecchio continente in generale.

Una sconfitta per l’umanità

Se Martin ha detto come stanno le cose, il segretario di stato Pietro Parolin, di solito molto attento a misurare le parole, ha definito l’esito del referendum “una sconfitta per l’umanità”, suscitando com’era ovvio critiche e sarcasmi per la sproporzione dei termini usati. Ma perché lo ha fatto? Naturalmente c’è una spiegazione elementare: la chiesa non intende recedere dalla propria visione della famiglia. Eppure anche messa così l’affermazione del cardinale è sembrata troppo forte. Vari problemi s’intrecciano in questo frangente. Papa Francesco ha provato fino dall’inizio del pontificato a rendere la chiesa meno rigida, più aperta al confronto con gli altri e capace di accettare la complessità umana senza giudicarla e senza però cambiare la dottrina. Un cammino incerto, che sta cominciando forse a rivelare i suoi limiti.

La componente “liberal” dei quadri ecclesiali – che pure si sono riuniti a Roma in questi giorni e hanno parlato anche di omosessualità lontano dai riflettori – a questo punto vuole rompere gli indugi, dare qualche segno di novità reale e non solo accennato nel metodo. I tradizionalisti – gruppo nel quale s’inscrive una parte del cattolicesimo statunitense, particolarmente forte anche sotto il profilo economico e lobbistico – non hanno intenzione di mollare di un centimetro sui propri princìpi. Sotto traccia questi ultimi minacciano uno scisma che non sono in grado di produrre, ma fanno intravedere il rischio di un conflitto interno ad alta intensità.

In questo quadro s’inseriscono i due sinodi sulla famiglia convocati da Francesco, di cui il secondo è in programma il prossimo ottobre. La doppia assise nata con l’idea di riaprire il dialogo tra chiesa e modernità anche sui temi più delicati, ha mostrato di fatto uno stallo e ormai una differenza non più colmabile tra le chiese dell’Europa centrale e settentrionale e alcune componenti delle chiese africane o nordamericane. Ma la frattura è anche più trasversale, e passa all’interno di ciascun episcopato. Forse nel progetto iniziale di Francesco c’era un eccesso di fiducia nella capacità della chiesa di cambiare, o forse un eccesso di tatticismo: apriamo le porte, ma non esageriamo.

L’intervento di Parolin chiude precipitosamente ogni spiraglio sul tema più controverso, quello della coppia omosessuale – e in questo modo evita di spaccare la chiesa, almeno per il momento – ma delude chi sperava in cambiamenti più rapidi e profondi anche nel corpo ecclesiale. Soprattutto, l’intervento del segretario di stato è un’ipoteca sul sinodo, forse l’inizio di un negoziato interno su varie questioni aperte. Tuttavia un dato è ormai assodato: esistono più chiese dentro la chiesa di Roma, e la loro convivenza è sempre più ardua.

Il tabù omosessuale

Infine, sembra che si stia risolvendo positivamente il caso dell’ambasciatore omosessuale (e credente) nominato da Parigi in Vaticano. Laurent Stefanini, prima respinto dalla Santa sede – probabilmente in base a una serie di colpi bassi tra apparati ecclesiali con l’obiettivo di mettere in crisi Bergoglio e la sua cerchia – sembra poter ottenere il suo incarico, ma la vicenda non è ancora conclusa. Al di là degli intrighi di corte, la storia dimostra come proprio l’orientamento sessuale possa rappresentare l’elemento critico che mette in difficoltà il pontificato. Anche perché, come ha detto di recente con battuta riuscita l’ex ministro degli esteri francese Bernard Kouchner, “il Vaticano non sembra il soggetto più indicato a rifiutare un omosessuale”.

Già, perché il capitolo dell’omosessualità nella chiesa – non solo nella cittadella d’Oltretevere – attende ancora di essere affrontato e non più nascosto o negato, così come quello del celibato dei sacerdoti che ormai mostra la corda in tutti i paesi in cui è presente la chiesa. Sono temi che, in una chiave ecumenica, di dialogo con ortodossi, anglicani e protestanti – e dunque con le culture d’oriente e d’occidente – il cattolicesimo dovrà affrontare se non vorrà incamminarsi sulla strada di un inevitabile declino.

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Fuori la Chiesa dalle lenzuola d’Irlanda

Deborah Dirani
www.huffingtonpost.it

Che enorme occasione di evangelizzazione ha perso, ancora una volta, la Chiesa di Roma definendo la vittoria dell’amore irlandese una sconfitta per l’umanità. E che infinita tristezza racchiudono le parole del suo Segretario di Stato, un servo di Dio, in teoria. Un servo di quel Dio che raccontano essere buono e misericordioso, incline al perdono e dispensatore di infinito amore. Così lo raccontano, così ce lo propongono dal giorno in cui veniamo al mondo in quella parte di mondo in cui quel Dio lì ancora resiste. Per quanto? Per quanto potrà resistere l’incoerenza di questa chiesa che si riempie la bocca della necessità dell’amore e si chiude gli occhi davanti a una sua umana forma?

L’umanità non è sconfitta per il riconoscimento del diritto di sposarsi tra persone dello stesso sesso, l’umanità è sconfitta ogni volta che non accetta se stessa, in tutte le sue infinite sfumature. L’umanità è sconfitta ogni volta che si ostina, granitica, a non accettare la propria evoluzione. Lo chiamano oscurantismo, io necessità di controllo sociale. Del resto non sono certo la prima a identificare nelle religioni la beatificazione di questa umanissima esigenza: l’ordine sociale va mantenuto, ad ogni costo. Anche se questo costo sono donne ammalate bruciate su un rogo, infedeli trapassati da una spada, miscredenti infiammati o ostracizzati. Il rogo e la spada sono memoria lontana (mai abbastanza), l’ostracismo è il presente di una congregazione di anziani incapaci di mettere in pratica ciò di cui parlano.

Non sono cattolica, non lo sono per la mia impossibilità di accettare l’ineluttabilità di un destino che non mi posso scegliere, innanzitutto. Non lo sono per la poca misericordia nella quale continuo a imbattermi tra i massimi rappresentanti di questa vecchia Chiesa. No, non parlo dei preti di periferia, di quelli che si preoccupano più della vita che del suo ordine: quelli so che ci sono e a loro destino la mia più profonda e sincera ammirazione. Parlo di quei pii uomini ostinati a confondere la salvezza delle anime devote con la quotidianità della vita, con la necessità inviolabile che ogni essere umano ha di amare e di vedere legittimamente riconosciuto il suo amore.

Sotto le lenzuola la Chiesa, lo Stato e la politica non hanno il diritto di entrare: nessuno può decidere sulla liceità di un amplesso, nessuno può definire giusto un sentimento stigmatizzandone al contempo una delle sue possibili sfumature. L’omosessualità è vita, nonostante non sia in grado di generarne. Continuare a negarne la dignità è un errore talmente colossale da meritare, questo sì, le fiamme dell’inferno. Pietro Parolin, portavoce del pensiero della Chiesa di Cristo, è molto triste per la vittoria del referendum sulle unioni gay avvenuta in un pio Stato quale è l’Irlanda. Ad avercelo vicino mi premurerei di passargli un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, quindi gli consiglierei di essere molto felice perché quella che lo rattrista in realtà è la vittoria del principe dei suoi valori: l’amore. Non mi preoccuperei di snocciolargli il rosario delle empietà di cui la sua Chiesa continua a macchiarsi, tra preti che amano un po’ troppo i bambini e cercano di soffiare a Robert Mapplethorpe un posto nell’Olimpo dei fotografi del nudo.

Non mi preoccuperei neanche di ricordargli che tanti di quei bambini troppo amati sono diventati degli adulti incapaci di amare a causa di qualche innamorato con la tonaca. A che serve rinfacciare gli orrori commessi a chi ne è ben consapevole, nonostante l’omertoso silenzio dietro il quale per tanto tempo ha trovato un sicuro rifugio? Com’è, pure che diceva il Figlio di Dio? Ah, ecco: “Chi è senza peccato…”. No, a Pietro Parolin offrirei una birretta, gli proporrei un brindisi: “Alla salute dell’amore, Monsignore!”. Perché nonostante lei e quelli come lei alla fine vince lui, non dovunque, ma non dispero. Il tempo e la storia sono dalla mia parte.

Anche lei, o chi verrà dopo di lei, Monsignore, sarà costretto a piegare il capo davanti alla meravigliosa realtà della natura umana che ama. Non importa chi e non importa come: anche lei piegherà il capo e onorerà chi mette in pratica nella sua vita la parola di quel Dio di cui lei è devoto. Nel frattempo, Monsignore, mi premurerò di farle arrivare una buona scorta di fazzolettini, prevedo che in futuro gliene serviranno molti, moltissimi. E meno male!