Matrimoni gay, la Chiesa cattolica litiga… finalmente! di ilgrandecolibrì

ilgrandecolibrì
www.ilgrandecolibri.com

Le dichiarazioni del cardinal Kasper (“Se c’è un’unione stabile, degli elementi di bene esistono senz’altro, li dobbiamo riconoscere, però non possiamo equiparare al matrimonio”), che correggono le parole estemporanee (“Credo che si possa parlare non soltanto di una sconfitta dei principi cristiani ma di una sconfitta dell’umanità”; avvenire.it) con cui il Segretario di Stato Pietro Parolin ha corretto le dichiarazioni fatte dal primate delle chiesa d’Irlanda Diarmuid Martin (“La Chiesa deve fare i conti con la realtà”; rte.ie) dopo il risultato del referendum che ha visto gli irlandesi dire sì ai matrimoni omosessuali, mi spingono a pensare che la Chiesa cattolica stia vivendo un passaggio simile a quello che, verso la fine del XX secolo, ha vissuto la Comunione anglicana quando, negli anni Novanta, ha dovuto affrontare il tema dell’accoglienza degli omosessuali dichiarati.

Da un lato ci sono le chiese europee, quelle di molti stati americani e quelle di Australia e Nuova Zelanda che si rendono conto che l’approccio tradizionale al tema dell’omosessualità va superato se si vuol vivere con fedeltà quanto Gesù aveva chiesto quando ha detto di “predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (Vangelo di Luca 24, 47). Dall’altro ci sono le chiese del sud del mondo che hanno a che fare con società in cui un’apertura su questo tema non verrebbe capita e, quasi sicuramente, le metterebbe in gravi difficoltà rispetto alla concorrenza che subiscono dalle chiese fondamentaliste evangelicali e dall’islam radicale che hanno fatto del disprezzo per l’omosessualità uno strumento per raccogliere il consenso dei fedeli.

Fino ad ora le gerarchie cattoliche hanno fatto proprie le istanze di queste ultime chiese sdoganando nei suoi documenti, man mano che il tempo passava, affermazioni sempre più pesanti sull’omosessualità e sugli omosessuali: se si confrontano tra loro la dichiarazione “Persona Humana” del 1975, la lettera “Homosexualitatis Problema” del 1986 e le “Considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” del 1992, questo percorso emerge molto chiaramente.

Gli episcopati delle chiese che vivevano con disagio questo progressivo inasprimento, quando non si sono allineati alle posizioni della Santa Sede scontrandosi con la società e con la base ecclesiale dei loro paesi, hanno mantenuto un profilo molto basso evitando di dire chiaramente che, andando avanti su quella strada, le loro comunità correvano il rischio di diventare delle conventicole di fanatici.

Con l’arrivo di papa Francesco, che ha chiaramente invitato i vescovi alla “parresia” (li ha cioè invitati a parlare chiaro e a dirsi tutto), il clima è cambiato e gli episcopati delle chiese che vivevano con disagio la linea seguita dalla Santa Sede, hanno iniziato a dare voce alle istanze di queste chiese. Era naturale che ci fosse una reazione da parte di chi la linea di progressiva chiusura agli omosessuali l’aveva elaborata e l’aveva difesa con convinzione e da parte dei vescovi delle chiese del sud del mondo alle cui chiese, quella linea, andava benissimo.

In una situazione del genere io credo che la preoccupazione principale di papa Francesco e dei suoi collaboratori più fedeli (tra cui c’è senz’altro anche il cardinal Parolin) sia quella di evitare alla Chiesa cattolica le stesse spaccature tra gli episcopati già vissute dalla Comunione anglicana (dove si era arrivati all’assurdità di vedere gli episcopati di alcune chiese del Sud del mondo consacrare vescovi che avevano come unico incarico quello di raccogliere e organizzare i fedeli che non condividevano le aperture della Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti sul tema dell’omosessualità).

Probabilmente il Sinodo straordinario dell’anno scorso è stata l’occasione per valutare le forze in campo e per tracciare una strada capace di evitare questa rottura, e non è infondata l’impressione di chi parla di una marcia indietro rispetto alle aperture che erano scaturite da quel famoso “Chi son io per giudicare?” pronunciato dal papa in occasione del suo viaggio di ritorno da Rio de Janeiro: le reazioni duramente negative di una buna parte dei vescovi a una “relatio post disceptationem” che recepiva queste aperture, hanno suggerito una correzione di rotta che, secondo me, almeno in tempi brevi non ci deve far sperare in nessuna novità significativa sul tema dell’accoglienza delle persone omosessuali da parte dei vertici della Chiesa cattolica…

E allora cosa resta – ci si può chiedere a questo punto – delle aperture che papa Francesco aveva fatto due anni fa? Da un lato ci potranno essere alcuni gesti che la Santa Sede potrà fare per far capire che, comunque, c’è una inversione di rotta. Se, come credo succederà, la Segreteria dei Stato vaticana darà il suo gradimento all’ambasciatore francese Laurent Stefanini, dichiaratamente gay, alcune cose scritte nelle “Considerazioni” del 1992, verrebbero smentite – in particolare quelle in cui si afferma che “non vi è alcun diritto all’omosessualità” (punto 13), o quelle in cui si stigmatizzano “le persone omosessuali che dichiarano la loro omosessualità” (punto 14).

Dall’altro c’è il riconoscimento ufficiale del fatto che, su certi temi (come l’atteggiamento da tenere nei confronti delle persone omosessuali e dei loro diritti), quello che la Chiesa insegna non è vincolante né per la coscienza dei fedeli né per i vescovi, il cui compito di operare “in comunione e sotto l’autorità del Sommo Pontefice” (Decreto Christus Dominus sulla missione pastorale dei vescovi, punto 3) non li obbliga a non intervenire quando, su un tema come questo, sentono il dovere di fare presenti alcune istanze particolari.

Una chiesa in cui finalmente si parla chiaro è magari una chiesa in cui si litiga di più, ma è anche una chiesa che inizia a superare l’ipocrisia che l’avvelena.

———————————————————————

Il divario tra popolo e chiese: la lezione del referendum irlandese

Peter Ciaccio
www.riforma.it

Il referendum irlandese del 22 maggio ha concesso alle coppie dello stesso sesso il diritto di sposarsi con un’ampia e significativa maggioranza, sia in senso assoluto sia nella distribuzione geografica del voto. Su 43 collegi solo uno si è opposto al quesito referendario, tra l’altro con uno scarto molto ridotto.

Il referendum pone anzitutto una questione di forma: si possono concedere i diritti con voto popolare? In altre parole, può un diritto essere negato o concesso a un cittadino perché la maggioranza dei suoi concittadini decidono così? L’emancipazione degli afroamericani, per fare un esempio, avvenne per intervento del presidente degli Usa e molti dubitano che sacrosanti diritti di uguaglianza sarebbero stati concessi con un referendum.

Questo ragionamento ha però due difetti. Il primo è la mancanza di fiducia nel popolo. Senza fiducia nel popolo non c’è democrazia: non si può non votare perché il popolo vota male. Il secondo è che, per quanto i diritti umani si presentino nella forma come qualcosa di trascendentale (l’art.1 della Dichiarazione universale ne è un chiaro esempio: «Tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità e diritti»), questi sono il frutto di un’evoluzione giuridica. Non è un caso che i maggiori avanzamenti in Italia siano stati ottenuti per referendum. Il disamore italiano per i referendum deriva non dalla loro inefficacia, ma da come i partiti li hanno svuotati di senso — basti pensare a come i referendum su responsabilità civile dei giudici e legalizzazione delle droghe leggere non siano stati applicati.

In concreto, poi, il referendum irlandese ha colpito per la distanza tra l’elettorato irlandese e le indicazioni delle chiese cristiane (cattolica, presbiteriana, metodista, anglicana) e di altre comunità religiose (musulmani), che con ecumenica sintonia si sono schierate per il «no».

L’Irlanda è sempre stata considerata una terra molto religiosa: perché ha scelto in maniera convinta contro le indicazioni delle chiese? Possiamo individuare due elementi importanti.

Per primo c’è il tradimento della chiesa cattolica nei confronti del popolo. Sin dalla Riforma anglicana, il popolo ha sposato il cattolicesimo come elemento identitario e di resistenza anti-britannica: per questo i cattolici irlandesi hanno pagato un prezzo carissimo. Se era comprensibile che gli «inglesi» si comportassero male, lo scandalo degli abusi sessuali perpetrati in chiese, conventi, scuole cattoliche e insabbiati dal clero irlandese è stato vissuto come un vero tradimento, come la rottura di un patto secolare tra popolo e chiesa.

Il secondo elemento, meno esplorato dai giornali in questi giorni, è la crescita economica e civile della Repubblica d’Irlanda, che è andata di pari passo con la sua secolarizzazione. In altre parole, le chiese non hanno favorito il benessere della popolazione, quando non l’hanno proprio ostacolato. L’esempio nord-irlandese ha confermato questa impressione.

Nelle sei contee irlandesi facenti parte del Regno Unito, infatti, la radicalizzazione religiosa tra le opposte fazioni e il sostegno della maggior parte delle chiese ai vari gruppi terroristi paramilitari ha creato un’identificazione tra fede e bigottismo, che nel lungo termine ha desertificato culturalmente ed economicamente la parte un tempo più moderna dell’isola. Nel Sud pacificato, invece, dove i cattolici hanno accettato l’apporto dei protestanti nell’economia, nella cultura e nella politica, si è arrivati piano piano alla costituzione di un paese più moderno di altri, pur essendo uno stato relativamente giovane.

La lezione irlandese per le chiese è che, se vogliono avere pubblica rilevanza, non possono lavorare contro il diritto (caso pedofilia) e i diritti (matrimonio egualitario), in particolare contro il diritto dei cittadini a costruirsi una vita dignitosa nel rispetto delle leggi. Questo non vale solo per l’Irlanda, ma per tutti i paesi. Una chiesa che non ha a cuore i diritti di tutti gli uomini e le donne potrà anche dominare per un certo tempo, ma è destinata a soccombere, portando con sé anche quel tesoro che è la buona notizia di Gesù, che aveva già oscurato con la sua ossessione di controllare il corpo delle persone.