Il Papa in Sud America nel segno dei beni comuni di A.Santagata

Alessandro Santagata
il manifesto 15 luglio 2015

«La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. È una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro».

Sono queste alcune delle parole più forti del discorso pronunciato da Papa Francesco al Secondo Incontro mondiale dei movimenti popolari in Bolivia.

Un appuntamento atteso da mesi dai cartoneros, dai senza terra e dai gruppi che hanno animato la rivolta dell’acqua di Cochabamba; un incontro che è stato preceduto da quello con il presidente Morales, simbolo della riscossa indios e interprete del «socialismo del XXI secolo».

Su questo giornale il viaggio di Bergoglio è stato raccontato e analizzato nelle sue implicazioni politiche latinoamericane. Allargando la prospettiva alla luce del successo planetario dell’ultima enciclica, la forza del messaggio del Papa sembra consistere nella capacità di andare ben oltre i confini della Chiesa e delle organizzazioni gravitanti attorno ad essa e di parlare all’intera società occidentale.

Quest’ultima, per dirla con Habermas e con il sociologo José Casanova, sta vivendo oggi la stagione del «post-secolare»: una sorta di seconda «età assiale», in cui il Religioso è tornato a fornire contenuti semantici al Politico.

In quest’ottica è possibile spiegare l’interesse crescente attorno alla figura dell’attuale pontefice: un religioso che predica il Cristo risorto a un mondo convinto di aver risolto da tempo la questione di Dio e che pure ai suoi rappresentanti sulla terra è tornato a rivolgersi in cerca d’identità.

A sinistra, in particolare, il vuoto lasciato dalla crisi del marxismo spinge ormai da decenni alla ricerca di un antidoto al pensiero debole e alla subalternità politica al neo-liberismo. Anche per questo, da più parti si guarda alla ribellione greca al diktat della troika come a una storia di riscatto entusiasmante per coloro che auspicano un «contagio politico» e una ripresa delle parole d’ordine di quel «movimento dei movimenti» da cui proviene anche il premier greco Tsipras.

Come è noto, Papa Francesco non è un teologo della liberazione, almeno non in senso tradizionale, ma come gli ha riconosciuto anche Leonardo Boff sembra collocarsi perfettamente in quel percorso che dal Forum sociale di Porto Alegre porta a Genova 2001 e alle lotte per i beni comuni.

Quando afferma che «la casa comune viene oggi saccheggiata, devastata, umiliata impunemente» e che «la codardia nel difenderla è un peccato grave», Bergoglio non si limita, si fa per dire, a riscrivere il catechismo della Chiesa cattolica secondo le priorità dell’eco-teologia di Moltmann, ma avanza in un terreno d’incontro con tutti gli uomini impegnati per il cambiamento.

Quando denuncia «alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri», si lascia alle spalle la tradizione della carità integrata nel sistema – quella che chiama con disprezzo «l’indignazione elegante» – e mette, nero su bianco, i problemi della «globalizzazione di mercati e dell’indifferenza».

No, non era mai successo di ascoltare un Papa attaccare la violenza delle banche, chiamare alla lotta sociale per il salario minimo e proporsi come un vettore del cambiamento sociale. Ecco allora che se davvero a sinistra si vuole una contaminazione politica e culturale costruttiva, questa non può passare per la ricerca di un generico senso di civiltà, come invece è accaduto negli anni della sposalizio con la campagna ratzingeriana contro la «deriva antropologica».

L’entusiasmo per la pastorale di Papa Francesco, per il suo discorso credibile e creduto, non deve neppure comportare la rimozione degli aspetti indigeribili della riflessione sull’«ecologia umana», sul gender e sulla laicità dello Stato in materia di biopolitica e diritti.

Per restare all’interno del ragionamento del pontefice, il cambiamento è nelle mani dei popoli, nelle lotte per l’acqua, nella disattivazione francescana dell’ingiustizia proprietaria e nelle pratiche di commoning.

La lezione più importante che Francesco ha impartito con quest’ultimo discorso ai movimenti sociali riguarda dunque soprattutto il metodo.

Anche il Papa, sua santità, sente oggi di dover scendere dal suo trono per «accompagnare i popoli nella loro capacità di organizzarsi», per mettersi dietro al proprio gregge come un compagno di viaggio prima ancora che come pastore.

***************************************

Francescano, ma non comunista

Roberto Toscano
La Stampa 11 luglio 2015

È dal momento della sua elezione al pontificato che Papa Bergoglio non lascia praticamente passare
un giorno senza ribadire con schietta essenzialità richiami morali che mettono in gioco la natura
stessa del nostro mondo globalizzato, il suo potere di esclusione, lo scandalo crescente della
disuguaglianza. Messo piede nella sua terra latino-americana, il suo messaggio si è fatto ancora più
esplicito e radicale.

La novità non è certo la preoccupazione della Chiesa per i poveri e le vittime dell’ingiustizia, e
nemmeno l’autocritica nei confronti delle troppe connivenze con le violenze della colonizzazione
dell’America Latina e dei troppi compromessi con poteri oligarchici – un’autocritica che aveva
ispirato sia Giovanni Paolo II nel suo forte discorso del 1992 a Santo Domingo sia Benedetto XVI,
che nel maggio del 2007 parlò delle «ombre» che accompagnarono l’evangelizzazione dell’America
Latina.

Ma il messaggio latino-americano di Papa Francesco va ben oltre, nella misura in cui non si limita a
denunciare la malvagità umana e il sordo egoismo che ispira i potenti e i privilegiati, non si limita a
riprendere il discorso della Chiesa sui diritti umani, ma attacca esplicitamente le strutture, il
sistema. E lo fa sottoponendo l’economia globale a un vaglio morale senza sconti e senza
eufemismi. Addirittura – e immaginiamo lo sconcerto che questo sta producendo negli ambienti del
cattolicesimo conservatore – Bergoglio sembra echeggiare il radicalismo francescano quando
denuncia il culto al denaro, che definisce, citando la famosa condanna di Basilio di Cesarea, padre
della Chiesa, «sterco del diavolo»: «Quando il capitale si converte in un idolo, quando l’avidità per
il denaro subordina tutto il sistema socioeconomico, rovina la società, rende l’uomo schiavo,
distrugge la fraternità fra gli esseri umani».

Si conferma qui il senso profondo (per i credenti, provvidenziale) dell’elezione al soglio pontificio
di un cardinale proveniente dall’America Latina, per la Chiesa serbatoio di fedeli – il 40 per cento
dei cattolici nel mondo – fondamentale ma negli ultimi decenni minacciato da una forte offensiva
protestante, resa possibile non solo dalle grandi risorse economiche dei missionari evangelici
statunitensi, ma anche dalla diffusa percezione di una Chiesa conservatrice e non sufficientemente
solidale con i poveri.

Anche per quanto riguarda la rivisitazione critica della conquista ed evangelizzazione cristiana
dell’America Latina le parole del Papa si muovono su un terreno d’inequivoca radicalità. Sono
parole in cui sembra di sentire un eco del drammatico scontro, rappresentato nel famoso film
«Mission», fra la Chiesa del gesuita Padre Gabriel, schierato fino all’estremo sacrificio dalla parte
degli indios contro il potere coloniale e gli schiavisti, e quella del Cardinale Altamirano, intelligente
e in fin dei conti anche sensibile, ma che finisce per piegarsi alle esigenze della realpolitik,
autorizzando la violenza del potere contro la ribellione degli indios. Oggi Bergoglio esalta la Chiesa
di Padre Gabriel, quella dei sacerdoti «che si opposero alla logica della spada con la logica della
croce».

Il rischio a questo punto è quello di semplificare e appiattire, ripercorrendo i polverosi sentieri delle
ideologie del XX secolo, una svolta che è significativa nella misura in cui è nuova, e descrivere il
messaggio di Papa Bergoglio come un trionfo tardivo dei movimenti rivoluzionari cui la Chiesa,
nella sua maggioranza e soprattutto nelle sue gerarchie, si era sistematicamente opposta a patto di
indecenti connivenze con poteri non democratici e antipopolari.
Teologia della Liberazione
No, Papa Francesco non si è convertito alla Teologia della liberazione, ma si rende conto del prezzo
pagato dalla Chiesa nel rigetto conservatore delle istanze di cui quei movimenti erano generosi
anche se spesso confusi portatori. E senz’altro ricorda come la Chiesa riuscì a riassorbire, non con
la condanna ma con la cooptazione, la spinta potenzialmente eversiva del primo francescanesimo.

Quello che è certo è che non siamo di fronte a un «Papa comunista», come alcuni inguaribili
nostalgici della Guerra Fredda cominciano anche da noi a mormorare. Il bizzarro dono del
crocifisso/falce e martello del Presidente boliviano Morales ha suscitato nel Papa un’evidente
perplessità, ma certo non un «vade retro» scandalizzato. Il fatto è che per Bergoglio il comunismo è
morto e sepolto, anche se rimangono aperti i grandi quesiti sociali da esso sollevati, ai quali non ha
saputo rispondere per le sue contraddizioni, il suo dogmatismo ideologico e la sua deriva autoritaria
e violenta. Quesiti che, contrariamente a quanto sostenuto dall’ideologia neoliberale, non si possono
ignorare, ma ai quali il messaggio cristiano dovrebbe avere l’ambizione di rispondere in modo
diverso, autentico, sostenibile e basato sulla fede. Si tratta di un pontefice, inoltre, che non sembra
certo intenzionato a essere indulgente nei confronti di chi «vuole cancellare Cristo dalla società», e
che anche in Bolivia ha detto parole forti contro «la persecuzione genocida» dei cristiani in Medio
Oriente.

Nel momento in cui il comunismo è davvero morto, e in cui anche la socialdemocrazia non sta
molto bene di salute, il disegno di Bergoglio risulta quindi evidente. È quello di rendere il
messaggio della Chiesa egemonico sotto il profilo dei valori che dovrebbero ispirare una società più
umana. Un disegno ambizioso, che dovrà fare i conti con le infinite contraddizioni esistenti
all’interno stesso di una Chiesa certo tutt’altro che compatta, oltre che marcata da secoli dai troppi
prezzi pagati al realismo, nonchè con le prevedibili controspinte che, in America Latina ma non
solo, verranno messe in atto da chi ritiene che si tratti di un messaggio puramente retorico o
addirittura destabilizzante, soprattutto in un momento in cui sempre più inquietante è la sfida di un
Islam militante che si colloca agli antipodi dell’umanesimo cristiano di cui Bergoglio è il
coraggioso paladino.

Credenti o non credenti, entusiasti o critici – ma in ogni caso tutti disorientati dopo la scomparsa dei
solidi, anche se spesso micidiali, riferimenti del XX secolo -, faremmo bene comunque a prendere
sul serio la non superficiale sfida di Papa Francesco, il primo Papa del XXI secolo.