Sinodo 2015: accogliere e accompagnare, non giudicare di ComunitàSanFrancescoSaverio

Comunità San Francesco Saverio
Adista Segni Nuovi n° 27 del 25/07/2015

Ci apprestiamo a rispondere al secondo questionario con diverse emozioni e qualche perplessità. Siamo contenti per la riproposizione di una consultazione che impegna tutta la Chiesa e non i soliti addetti ai lavori e che i temi affrontati si riferiscono a problematiche concrete che da tempo si preferiva non vedere. Qualche perplessità nasce invece, per esempio, dalla presenza nel testo introduttivo delle varie parti di espressioni quali «comprensione», «cura», «grande rispetto», «accoglienza»: parole che aprono alla “com-passione” smentite poi nella formulazione delle domande, dove coloro di cui si parla appaiono giudicati peccatori dimenticando la parola di Gesù che invita a non giudicare e quella più recente del Vescovo di Roma che chiede e si chiede: «Chi sono io per giudicare?». Piuttosto è sembrato più presente quell’atteggiamento “missionario” teso alla redenzione dal peccato nei confronti di persone che portano addosso la grande fatica del vivere quotidiano con dignità e coraggio. È sembrata prevalere più l’immagine del pastore che conduce il gregge e riporta le eventuali pecorelle smarrite all’ovile che quella dell’accompagnamento – termine anche questo più volte utilizzato nella formulazione delle domande –, dell’azione cioè di chi, incontrando gli esseri umani mentre percorrono le strade non facili della vita, voglia accompagnarli, sorreggerli e sostenerli «per dare al cammino il ritmo salutare della prossimità» (Evangeli Gaudium, 169).

Comunque riteniamo importante la presente consultazione perché ancora una volta essa chiama in causa la soggettualità dei laici in quanto essi sono i primi interpreti della loro condizione nel mondo. Sarebbe strano che un questionario sulla famiglia, che certamente va pensato alla luce dell’Evangelo, non accogliesse la voce di coloro che vivono in prima persona le gioie e i problemi, le speranze e le attese di quella vita familiare della quale, pur con tante difficoltà, i laici sono i titolari (…). Speriamo, quindi che il Sinodo straordinario veda presenti anche i rappresentanti di quel Popolo di Dio che hanno risposto al questionario da protagonisti: coppie sposate, conviventi, singoli, divorziati, omosessuali, tutti chiamati in causa nella discussione non affidata ai soli vertici ecclesiastici (…).

Auspichiamo quindi che le risposte ottenute da questa seconda consultazione siano tenute in debita considerazione nel corso del dibattito e ciò in vista della costruzione di una Chiesa più partecipativa, più inclusiva e più vicina «alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini e delle donne di oggi», ribadite dal Concilio Vaticano II.

Le questioni sono tante e complesse, per questo abbiamo riflettuto molto sulla opportunità di rispondere a tutte le domande poste dal questionario; alla fine abbiamo deciso di affrontare solo quelle che trattano argomenti di cui abbiamo fatto più diretta esperienza, esperienza maturata all’interno di una comunità che, aperta all’accoglienza senza discriminazioni, si è trovata negli anni ad affrontare situazioni diverse e che, scegliendo la metodologia della prossimità, ha incontrato innanzitutto la persona, cui non è mai stata chiesta la carta d’identità, lo stato civile, l’orientamento sessuale o la frequenza ai sacramenti, per allacciare soprattutto e subito un rapporto di autentica fratellanza (…).

Divorziati risposati

Dallo studio complessivo delle domande abbiamo riscontrato che, a differenza degli altri argomenti, per questo non c’è una proposizione di modelli ma un’effettiva ricerca di andare incontro al disagio di chi vive questa situazione. Forse si è aperta una breccia.

Per quanto ci riguarda, non possiamo ignorare che in vari casi il matrimonio sacramentale, frutto di una decisione consapevole e vissuta originariamente come impegno definitivo, può subire una crisi lacerante tale da portare i coniugi a separarsi. Per alcuni di loro la nuova condizione può risultare umanamente molto gravosa e determinare la decisione di stabilire un nuovo legame affettivo, desiderando di continuare a vivere in modo pieno l’appartenenza alla Chiesa. La Chiesa dovrebbe prendere atto della caducità umana riconoscendo che il matrimonio, in quanto relazione fra persone, può, purtroppo, chiudersi.

Nella nostra esperienza avvertiamo che i battezzati divorziati e risposati sono bisognosi di attenzione per la propria storia di sofferenza e desiderosi di rispetto per il fallimento della loro storia coniugale e chiedono di poter partecipare pienamente alla vita della Chiesa, e quindi di accedere ai sacramenti, che la Chiesa stessa indica come nutrimento indispensabile di una fede e di una vita cristiane.

È certamente molto importante che essi vengano accolti senza alcuna discriminazione all’interno della comunità cristiana in cui vivono, che di loro si prenderà cura (n. 35). A tal proposito, sembrerebbe opportuno considerare le diverse tipologie di separazioni. La separazione maturata all’interno del rapporto della coppia e condivisa dai due coniugi è cosa diversa dalla separazione sbilanciata verso uno dei due, e diversa ancora da quella unilaterale, con la quale uno dei due, spesso già infedele verso l’altra/o, porta a conoscenza la sua decisione, prescindendo da qualsiasi considerazione del/della partner e, nel caso più grave, incurante degli effetti sui figli. Sarebbe bene che in ognuno di questi casi ci si renda disponibili a riconoscere eventuali errori personali e, soprattutto negli ultimi due casi, nel percorso di accesso ai sacramenti, ci si apra alla riconciliazione, rendendosi disponibili a chiedere perdono sia al coniuge offeso sia ai figli; in questi casi è segno di maturità prendersi in carico la sofferenza arrecata e tentare di alleviarla.

L’accoglienza, l’inclusione e l’amore di Dio uguale per tutti i figli dovrebbe essere l’unico metro per lenire sofferenze, rimarginare ferite per riscoprire e vivere la gioia del Vangelo. “L’arte dell’accompagnamento” è una necessità messa in evidenza nel dibattito sinodale con particolare riferimento alle famiglie ferite. Riteniamo che l’accompagnamento rispettoso e pieno di compassione dovrebbe essere una prerogativa imprescindibile non solo della Chiesa ma di ogni essere umano credente e non credente. È doloroso e sconfortante lo sguardo giudicante e punitivo di quella parte della Chiesa che si ritiene detentrice di un potere assoluto e discrezionale sull’accesso al Sacramento dell’Eucaristia per i divorziati risposati (obbligati però ad un cammino penitenziale sotto la responsabilità di un vescovo diocesano). Si è dibattuto sull’accesso al Sacramento spirituale. Però non è spirituale il Sacramento offerto ad assassini, stupratori, corrotti, pedofili e, fino a qualche tempo fa, ai mafiosi. È difficile ritenere peccato l’amore per la vita, per i figli, per se stessi, il bisogno di chiarezza, di trasparenza, di autenticità, di uscire dall’ipocrisia, dalla menzogna, dalla falsità. Il nostro Padre, che legge nei loro cuori, perché non dovrebbe considerarli suoi figli e non accettare il loro desiderio di Comunione?

Occorre abbandonare, inoltre, la visione aprioristica di condanna delle convivenze, condanna che non tiene conto delle motivazioni della scelta che potrebbe essere obbligata, opportuna, condivisibile per varie motivazioni e comunque ugualmente piena di rispetto. È la coscienza dei conviventi l’unica responsabile e titolare della decisione circa l’accesso al Sacramento dell’Eucaristia.

L’attenzione pastorale verso le persone omosessuali

I Lineamenta dimostrano una particolare timidezza nell’occuparsi delle persone omoaffettive. L’unica domanda su questo tema parla di attenzione solo verso le famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale. Sembra che non si voglia accettare l’evidenza empirica che per alcune persone, create da Dio come tutte le altre, l’omosessualità non è una colpa né un capriccio, ma una caratteristica che fa parte della loro natura.

La domanda, infatti, recita: «Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie che hanno al loro interne persone con tendenza omosessuale?». La terminologia adoperata nella domanda (persone con tendenza omosessuale) e anche il titolo del paragrafo, suggeriscono qualcosa di patologico o di curabile, mentre è scientificamente provato che non si tratta di nessuno dei due casi. Il Sinodo parli piuttosto di attenzione pastorale verso le persone omosessuali! Una persona omosessuale è una persona non con “tendenze omosessuali”; così come un eterosessuale è semplicemente una persona e non una persona “con tendenze eterosessuali”. Pensiamo quindi ad una domanda così formulata: “Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie, che hanno al loro interno persone omosessuali?”.

La nostra comunità, nell’incontro concreto con tante persone lgbt, ha fatto esperienza diretta della delicatezza del “venir fuori”, del coming out che, di caso in caso, può essere segnato, prima, durante e dopo, anche da vissuti traumatici o lacerazioni delle relazioni. Tanti genitori, spesso per fattori riconducibili al proprio modo di vivere la fede, trovano difficile accettare l’omosessualità dei figli sentendosi in colpa o in difetto. Nel proprio ministero pastorale con le famiglie, la Chiesa deve incoraggiare i genitori ad accettare la sessualità dei figli, quale che essa sia. Dovrebbe quindi uscire chiaramente dai lavori sinodali che la Chiesa accoglie anche questi suoi figli, cercando di favorirne la piena crescita umana e relazionale. Così le persone lgbt troverebbero accettazione e amore nel posto dove più che altrove si aspetterebbero di trovarli: a casa e all’interno della Chiesa. In questo senso abbiamo apprezzato le proposizioni nn. 50-52 della Relatio post disceptationem della prima sessione del Sinodo, delle quali però non si trova più traccia nei Lineamenta: proposizioni che pensiamo debbano essere riprese e approfondite.

In particolare, la n. 50: «Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso queste desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?». E la n. 52: «Senza negare le problematiche connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli».

È risaputo che una parte significativa dei suicidi di persone lgbt spesso è riconducibile al non essersi sentite accettate e, più doloroso, dal non esser state ben volute dalle proprie famiglie. Già questo, da solo, dovrebbe suggerire a vescovi, preti e operatori pastorali, un maggiore riguardo nell’incontro e nella relazione con queste persone. La nostra esperienza comunitaria ci suggerisce che la Chiesa dovrebbe cogliere ogni opportunità – a iniziare da questo Sinodo – di essere e di essere percepita come compagna di strada delle persone omosessuali, affrontando e combattendo i trattamenti discriminatori, cui possono andare incontro da parte della società.

Pensiamo, quindi, che la Chiesa dovrebbe astenersi da ogni giudizio morale sulla condizione omosessuale, e mettere in atto azioni di accoglienza e di integrazione per creare al proprio interno un consenso tale da rendere possibile l’accettazione, anche formale, delle coppie gay e lesbiche con un effettivo accompagnamento pastorale degli omosessuali senza intendimenti “missionari” di redenzione dal peccato. Purtroppo, dobbiamo registrare una chiusura totale di molte Chiese particolari nei confronti sia delle situazioni considerate sessualmente «oggettivamente disordinate», sia dei tentativi di legiferare in tale direzione. La nostra Chiesa locale si è dimostrata negli anni favorevole ad una legge sulle unioni civili e già accoglie e sostiene con amore fratelli e sorelle omosessuali condividendo con essi sia l’Eucarestia domenicale sia visioni e programmi di partecipazione per le campagne di solidarietà sociali, ecc.

Negli ultimi anni, grazie anche alla tenacia dei gruppi di omosessuali credenti, alcune diocesi hanno avviato timidi tentativi di pastorale verso persone appartenenti alle minoranze sessuali. Partendo dal presupposto che gli omosessuali sono persone come tante altre e, quindi, normali, noi crediamo che la Chiesa, affinché possa offrire cammini di vita cristiana adeguati al loro vissuto, non debba individuare dei percorsi pastorali specifici. Piuttosto dovrebbe rendere più flessibile il proprio atteggiamento, abbandonando una concezione antropologica ristretta secondo cui l’amore omosessuale sarebbe “contro natura”, rendendo, al contrario, più inclusiva e protettiva la propria azione pastorale verso chi è maggiormente a rischio di discriminazione.