Un buddhismo «protestante» di D.Mazzarella

intervista di Daniela Mazzarella a Marco Mathieu
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Nata neanche un secolo fa in Giappone, la Soka Gakkai conta oggi oltre 12 milioni di membri ed è uno dei maggiori movimenti buddhisti laici del mondo, con una presenza in 192 paesi. In Italia ha 75mila aderenti, è riconosciuta come ente di culto dal 2000 e ha appena firmato l’Intesa con lo Stato, in attesa della ratifica parlamentare. Abbiamo intervistato Marco Mathieu, giornalista, scrittore nonché ex bassista del gruppo punk Negazione. Nato in una famiglia valdese, Mathieu pratica il buddhismo della Soka Gakkai da 22 anni.

Lei nasce da una famiglia valdese. Come e quando è diventato buddhista?

Sono nato a Torino da una storica famiglia valdese, con grossi punti di riferimento nelle Valli, e ho partecipato alla vita della comunità fino a fare la confermazione, che è il momento in cui si chiede l’inserimento «ufficiale» nella comunità. Un anno dopo, alla soglia dei miei 18 anni, ho scritto una lettera chiedendo di non farne più parte perché non sentivo la fede. Ricordo che fu uno dei più sinceri momenti di confronto con mio padre, persona che ho sempre rispettato tantissimo, anche per il suo ruolo attivo nella Chiesa valdese e per la sua fede. Da lì seguirono anni importanti per la mia vita, caratterizzati dalla musica, o meglio dal punk, che tra le sue caratteristiche aveva proprio la ribellione e l’opposizione a tutto, compresa la religione. Alla fine della mia esperienza musicale con il gruppo in cui suonavo iniziai a essere molto interessato e incuriosito dall’Oriente, soprattutto nei suoi aspetti culturali, ed ero deciso a scoprirne di più. In quel periodo incontrai un’amica che mi parlò del buddhismo di Nichiren Daishonin; lei aveva iniziato a recitare Nam-myoho-renge-kyo e diceva di averne tratto giovamento per la sua vita. Mi dissi: «Perché no?», iniziai a leggere molte cose e a recitare, ma probabilmente in quel momento era soprattutto una ricerca razionale e culturale. Provai a interpretarlo come una meditazione, cosa che non è; infatti smisi dopo pochi mesi. Nel frattempo avevo fatto un lungo viaggio in Oriente in cui quello che mi aveva colpito di più non era tanto l’aspetto religioso quanto l’impatto positivo che quel tipo di religione aveva nella società, con il suo grande rispetto di fondo verso l’essere umano. Quando tornai – era l’inizio del 1993 – cercai la persona che mi aveva parlato di quel buddhismo e le chiesi di iniziare a recitare. Stiamo parlando quindi di 22 anni fa.

Nella sua cultura di origine l’assenza di idoli e di oggetti di culto è elemento centrale. È possibile che lei abbia cercato anche qualcosa di molto lontano dalla sobrietà del culto valdese?

No. Non vorrei banalizzare, ma in realtà credo di essere andato a cercare proprio qualcosa di simile. Il buddhismo di Nichiren può essere paragonato a una forma di protestantesimo nei confronti del cattolicesimo (Nichiren Daishonin, nel 1200, fu un monaco buddhista riformatore, ndr) e in realtà ho trovato quello che di più sobrio potessi trovare all’interno del buddhismo, perché nei miei viaggi in Asia avevo conosciuto altre forme che invece avevano un forte culto dell’immagine e della rappresentazione del Buddha. Quindi penso proprio di aver ritrovato degli elementi che fanno parte delle mie origini.

Non crede che la ritualità imposta dalla Soka Gakkai possa creare forme di dipendenza?

No, se viene interpretata nel modo corretto, perché null’altro è che la rappresentazione di se stessi. Non c’è alcunché di esterno di fronte a cui noi preghiamo. Fondamentalmente è la vita; è la nostra vita. Tutto il resto è un corollario: sono piccoli o grandi elementi liturgici. Per esempio, io quando viaggio recito davanti al mio piccolo gohonzon, ma potrei farlo anche davanti al nulla. Il problema vero è che all’inizio uno si ritrova molto affascinato da questa religione e va a cercare, come occidentale, delle regole o le conseguenze di un pensiero logico, in opposizione a quello che invece è il pensiero circolare che appartiene all’Oriente. Più che un problema di dipendenza ci può essere una reazione a una paura che nasce dall’estrema libertà a cui ti mette di fronte il buddhismo. Il nostro buddhismo propone una libertà estrema nella ricerca della felicità come valore supremo – una felicità sempre legata e condivisa con gli altri – per arrivare alla pace nel mondo. Ciò che recitiamo non sono solo parole, ma rappresentano delle opportunità di comportarti nella tua vita in un modo diverso. Quello che può sembrare dipendenza è una forma di disciplina. La nostra pratica riguarda la salute dei cuori, il nostro star bene in questo mondo, il nostro equilibrio.

Anche quando parla di grande libertà, possiamo trovare degli accostamenti con il protestantesimo?

Credo di sì e cito di nuovo mio padre. Quando gli spiegai la scelta che stavo compiendo, era incuriosito soprattutto dal concetto di karma e ho pensato molte volte al perché un valdese potesse essere tanto interessato a quel concetto. Il karma è azione, è come una sorta di zainetto, di valigia che ti porti dietro. Nel buddhismo puoi condizionare e indirizzare il tuo karma attraverso l’azione quotidiana. Si tratta di vedere come sei tu, da oggi in avanti, e non rivolto al passato, con sensi di colpa e peccati che non esistono. Questo senso di libertà ti mette di fronte a una grande responsabilità – e qui trovo una similitudine con l’etica protestante – perché attraverso la tua realizzazione nella vita potrai accedere a ciò che di meglio ci potrà essere in questa vita e nella vita successiva.

In rete si trovano molte cose «contro» la Soka Gakkai e la maggioranza di queste informazioni vengono date da siti o da persone che si dichiarano buddhiste. Secondo lei perché?

Io credo che ci siano molteplici ragioni. Per prima cosa bisogna pensare che la Soka Gakkai Italia è un’organizzazione molto giovane, che fa riferimento a una «casa madre» con una cultura politica e sociale completamente diversa dalla nostra. In più credo che siano stati commessi degli errori di eccessiva chiusura, dettati forse anche dall’improvviso e grande sviluppo e dalle conseguenti difficoltà di gestire il tutto e di trovare la giusta modalità di comunicazione con l’esterno. Poi penso anche che ci sia una sorta di competizione da parte di altre organizzazioni buddhiste, come penso però che ci sia anche in ambito cristiano. Non bisogna sottovalutare neanche il fatto che è un’associazione molto aperta in cui è facile entrare, così come andare via. Tanto è vero che la Soka Gakkai è entrata in contatto con centinaia di migliaia di italiani, anche se molti non hanno proseguito a praticare. A volte questo fa sì che alcune persone possano avere delle grandi aspettative e possano porsi verso questa cosa in maniera errata, con conseguenti forti delusioni.

Prendiamo ad esempio le critiche che si leggono sulle donazioni. A me hanno sempre ricordato le modalità di contribuzione all’interno delle chiese valdesi. Così come nei valdesi c’è un momento in cui c’è l’esigenza di raccogliere le contribuzioni, così avviene nella Soka Gakkai, che si autofinanzia completamente, salvo l’aiuto dei contributi che arrivano dal Giappone, per costruire e mantenere le proprie strutture sul territorio che hanno ovviamente dei costi altissimi.

Credo che un’organizzazione giovane possa commettere degli errori e vorrei ricordare che la Soka Gakkai si trova a confrontarsi con realtà che hanno storie millenarie. Mi viene da chiedere quali siano state le dinamiche e quali gli errori commessi all’inizio dalle diverse Chiese, dalle diverse organizzazioni religiose.

In Italia nel 1993 i membri della Soka Gakkai erano 13mila e attualmente sono oltre 75mila. Secondo lei il buddhismo della Soka Gakkai sarà, per l’Occidente, la religione di questo secolo?

Io non credo solo per l’Occidente. Credo che in un momento storico di conflitti, di fondamentalismi, di violenze in nome di una competizione religiosa, una religione che punta al dialogo, e al tempo stesso mette al centro di tutto l’essere umano, sia la risposta migliore alla deriva di abbrutimento dei rapporti interpersonali e della spiritualità che ci circonda.

A differenza di altre scuole buddhiste, quella di Nichiren si contraddistingue per essere il cosiddetto «buddhismo della prova concreta». Nichiren Daishonin nella sua vita, prima di arrivare a riassumere tutto nel Nam-myoho-renge-kyo, mise a confronto e si mise a confronto con tutte le altre dottrine dell’epoca e le «sfidò» proprio sulla prova concreta. Che cos’è questa prova concreta? Noi chiamiamo tutto ciò «benefici» e i membri si pongono degli obiettivi di qualsiasi tipo e si pratica per il raggiungimento di questi obiettivi. Questi obiettivi possono essere facilmente confusi con un materialismo, ma in realtà il vero beneficio è la felicità interiore, cioè il raggiungimento dello stato di illuminazione che si può realizzare non solo in questa vita ma in ogni singolo istante di questa vita, a differenza di altre scuole buddhiste. Se io dovessi dire che cosa mi ha spinto veramente ad avvicinarmi a questo buddhismo, potrei dire che ho trovato un modo per far pace con le diverse componenti della mia formazione e delle mie esperienze di vita. Il protestantesimo, il punk, la ribellione ecc. Quando mi sono avvicinato al buddhismo avevo già una vita abbastanza felice e piena, ma andavo su e giù tra euforia e depressione. Il beneficio più grande che mi ha dato il buddhismo è stato quello di avvicinare questi due estremi e di trovare un maggiore equilibrio. Ora sono più consapevole dell’importanza della felicità interiore e della condivisione di tutto ciò con gli altri. Questi sono i meccanismi su cui penso e spero si possa basare il cambiamento del mondo. Questa è la mia personale prova concreta.

(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2015, al cui interno si trovano gli altri articoli del servizio sulla Soka Gakkai)