Vorrei una teologia applicata al Dna di S.Duprè

Silvestro Dupré
www.riforma.it

E’ comparso recentemente su Nature [519, 410-411 (2015)], rivista scientifica di altissimo livello, un appello a firma di cinque scienziati, nel quale si chiede un dibattito tra gli addetti ai lavori (e non solo, aggiungerei io) ed eventualmente una moratoria su di uno specifico argomento scientifico. Una discussione che dovrebbe, a mio giudizio, coinvolgere aspetti scientifici, etici, morali, filosofici ed anche teologici.

Per introdurre l’argomento è bene esporre, anche se in modo succinto, i termini prettamente scientifici del problema, che apparentemente interessa al momento solo aspetti teorici, ma che potrebbe a breve irrompere violentemente nel nostro mondo di normali utenti delle scoperte scientifiche (o forse lo è già).

La completa elucidazione della sequenza del Dna umano ha permesso di associare a molta parte dei nostri cromosomi una funzione specifica che, prima o poi, sarà operante nella vita delle nostre cellule. Si è visto che una parte del nostro Dna contiene tutte le informazioni necessarie per la sintesi di tutte le proteine e per tutte le regolazioni dei nostri processi biochimici (ad esempio quando mettere in moto, nel ritmo giornaliero o nella vita dell’individuo, un processo o una sintesi, come tenerli sotto controllo, quando interromperli e così via), mentre una grossa parte di esso si è rivelata apparentemente «senza senso», ovvero sequenze di nucleotidi non associabili a nulla, ma, come il resto del nostro patrimonio genetico, soggette al «rimescolamento» durante il processo della fecondazione.

Forbicine molecolari. Sono oggi disponibili gli strumenti che permettono di intervenire, con estrema precisione, sul Dna per modificarlo: vere «forbicine» molecolari che tagliano un solo legame specifico, metodi per rimuovere pezzi più o meno lunghi di Dna (ritenuti difettosi) e sostituirli con altri (eventualmente sintetizzati ad hoc) ritenuti corretti o più utili. Oggi ci sono tutti i mezzi tecnici per manipolare «a nostro piacere» il nostro materiale genetico. Lo spartiacque, che dovrebbe essere chiaro a tutti, è il seguente: il materiale genetico delle cellule somatiche (le cellule differenziate) influenza totalmente la vita di quella cellula e di quelle che da essa derivano ma non è ereditabile. Il Dna delle cellule germinali (in inglese germ cells, ovuli e spermatozoi) invece si ritrova come tale, dopo la fecondazione, in tutte le cellule che ne derivano (a meno di mutazioni) ed è ereditabile a tutte le generazioni future.

Sulle cellule somatiche si sta già intervenendo a livello sperimentale e, in uno o due casi, anche già in fase I di sperimentazione clinica: si interviene sul gene «difettoso», sul pezzetto di Dna diverso da quello «normale», per ripararlo ed evitare l’evoluzione della patologia (al momento Aids, emofilia, vari tipi di tumori). Per quanto si sa finora, la tecnica appare sicura, senza rischi per generazioni future e di grandi potenzialità, pur sollevando (a mio giudizio) vari problemi etici. Sulle cellule germinali, a quanto ne so, non si è ancora intervenuti, almeno in vivo: è già stato dimostrato che la tecnica è applicabile nel ratto, e non si può escludere che sia già sperimentata su cellule germinali umane, anche se molte nazioni hanno espressamente vietato per legge tale pratica.

Recentemente (su Protein and Cell) è apparso un lavoro scientifico di “Dna-editing” (letteralmente «correzione delle bozze del Dna») sull’embrione umano, pubblicato da un laboratorio cinese. I risultati sono, da un certo punto di vista, deludenti: le modificazioni sul Dna non compaiono in tutte le cellule dell’embrione e la percentuale di «errori» è elevata. I rischi di tali esperimenti, già ampiamente eseguiti su embrioni animali, sono tali da destare la preoccupazione degli autori dell’appello su Nature: trattandosi, nell’embrione, di più cellule indifferenziate in duplicazione il processo di «correzione» non è più completamente controllabile, con la concreta possibilità di creare degli «embrioni mosaico» (mosaic embryos), nei quali siano presenti contemporaneamente i geni originali (sbagliati?) e quelli corretti (giusti?), tutti trasmissibili alle generazioni future. Da qui la loro pressante richiesta.

Appare ora evidente quante implicazioni ci troviamo ad affrontare: cosa sia normale e cosa alterato o diverso; cosa sia dannoso o utile ed in base a quale criterio valutarlo come tale; se conosciamo la correlazione tra sequenza e carattere o funzione possiamo inserire un nuovo pezzettino (che poi sarà ereditabile per sempre) per modificare le caratteristiche a nostro piacimento. Il problema non è affatto nuovo: la novità è che queste raffinatissime tecniche di «editing» vengono applicate a cellule umane. Sono ormai anni che siamo abituati a parlare di Ogm (organismi geneticamente modificati), talvolta vere chimere (organismi con caratteristiche di un’altra specie) non dissimili da quello che potremmo aspettarci alla nascita di un mosaic embryo. Solo che finora abbiamo esperimentato (e spesso solo a fini di lucro) su batteri, vegetali ed animali, indifferenti (noi «signori del creato») alle conseguenze sull’ambiente e sulla natura tutta.

Punti di accelerazione. Mi sembra che sia possibile individuare, nella storia dell’evoluzione umana, alcuni avvenimenti che potremmo definire punti di discontinuità o di accelerazione: la loro influenza sullo sviluppo umano è stata tale da rendere impossibile (e perfettamente inutile) un ritorno indietro. Penso alla capacità di conservazione del fuoco; all’invenzione della ruota; allo sviluppo dei vaccini; agli studi che hanno portato alla fusione nucleare con il suo uso pacifico e bellico. Personalmente ritengo che la manipolazione del Dna sia uno di questi punti di accelerazione.

Quali possono essere le motivazioni che hanno indotto i firmatari dell’appello su Nature a prendere posizione, forse a valutare gli esperimenti dal punto di vista etico (nel bene e nel male)? Penso che siano valutazioni sulle ricadute, a breve e lungo termine, sugli individui, sulle generazioni future, sull’ambiente. È raro invece che compaiano motivazioni religiose in campo scientifico, come se la scienza fosse laica e la fede non dovesse entrare nel «DNA-editing».

A me, come scienziato credente, interessa invece sentirmi sostenuto da un pensiero teologico protestante su questi temi, che mi manca: non posso lasciare il campo solo al pensiero laico, coerente, spesso pienamente condivisibile, attualmente dominante, insieme al pensiero cattolico romano, che fornisce delle risposte chiare ed univoche (il contrario è peccato), per me spesso lontane dall’amore di Dio. Il genetista Austen Heinz ha recentemente detto che dovremmo «democratizzare la creazione» (democratize creation) con l’implicita aggiunta di una human creation. Questa appare essere la tendenza: permettere a tutti l’accesso alla mappatura del proprio Dna ed alle possibilità di correzione (a piacere) del proprio materiale genetico (ereditabile e non) a fini sanitari, preventivi, estetici o quant’altro richiesto.

Vorrei una teologia «applicata» ai grandi problemi che ho cercato di chiarire dal punto di vista scientifico, che interessano strettamente la nostra vita di individui e di società; non risposte univoche ma aiuto, supporto amorevole nell’affrontare quei problemi che io, come individuo prima che come scienziato, devo affrontare. Inizi, forse timidi, li abbiamo sul grande problema di «fine vita»: tutti lo devono affrontare; perché non dobbiamo avere, nel decidere, l’aiuto dei nostri teologi, invece di trovarci soli davanti alla parola di Dio, spesso così difficile da affrontare? Queste enormi problematiche, che sono collettive perché coinvolgono tutti, non voglio lasciarle solo agli appelli di scienziati su Nature, al ragionamento di esperti bioeticisti o politici: interessano la mia chiesa come comunità di credenti.