Nel segno della comunione e dell’ascolto: la comunità di Bose compie 50 anni di L.Eugenio

Ludovica Eugenio
Adista Notizie n° 44 del 19/12/2015

«La comunione visibile tra tutti i cristiani battezzati nel nome del Signore Gesù e l’ascolto dell’umanità tutta, anche quella non cristiana, impegnata in altre vie di spiritualità o in un cammino di umanizzazione ispirato dalla coscienza»: da queste due urgenti indicazioni maturate dal Concilio Vaticano II, prese l’avvio, 50 anni fa, l’intuizione dell’esperienza della comunità monastica di Bose, fondata e guidata da Enzo Bianchi. Un’esperienza innovativa e radicale, la scommessa della condivisione ecumenica di un percorso monastico che dunque, proprio in questi giorni, sta celebrando un importante anniversario e che lo stesso Bianchi commenta, in una lettera pubblicata sul sito della comunità, rivolgendosi agli amici vicini e lontani.

La comunità di Bose nasce in una piccola frazione in provincia di Vercelli, su iniziativa appunto di Enzo Bianchi, laico. Ma comunità in senso proprio lo diviene tre anni dopo, quando lo raggiungono i primi confratelli, tra cui una donna e un pastore protestante. Tre i pilastri della vocazione monastica: celibato, comunione dei beni e obbedienza al Vangelo. Presto però arrivano i problemi. Nel 1967 il vescovo di Biella mons. Carlo Rossi dispone un interdetto per la presenza di aderenti non cattolici, ma il card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, lo rimuove l’anno successivo, approvando la regola monastica nel 1973, quando i primi sette confratelli pronunciano la loro professione. Nel 2010 la comunità acquisisce personalità giuridica canonica, grazie al vescovo di Biella mons. Gabriele Mana. La comunità – che nel frattempo ha fondato altre fraternità (Gerusalemme, Ostuni, Assisi, Cellole di San Gimignano e Civitella San Paolo) – conta oggi circa 80 membri, uomini e donne, tra i quali alcuni protestanti e ortodossi, cinque preti e un pastore. Una vita cenobitica improntata agli insegnamenti di San Pacomio, San Basilio e San Benedetto, fatta di preghiera e lavoro, nel segno dell’accoglienza di chi è in cerca di Dio: dalla cura del frutteto e dell’orto alla produzione artigianale di oggetti in ceramica e in legno, dalla creazione di icone tradizionali alla casa editrice Qiqaion, dalla ricerca teologica all’attività catechetica, mentre alcuni membri hanno una propria attività professionale all’esterno della comunità.

Cinquant’anni ricordati nel segno della massima sobrietà: «Nessuna commemorazione e nessuna festa», scrive Bianchi nella sua lettera aperta, «non perché vogliamo essere diversi dagli altri, ma perché mettiamo nelle mani del Signore il cammino percorso». «Non sappiamo dire – continua il priore di Bose – se questa vicenda è stata voluta dal Signore: lo speriamo. Non sappiamo dire se facciamo il bene o se siamo di ostacolo al Signore: ce lo dirà il Signore stesso nel giorno del giudizio». La comunità ha cercato di «compiere umanamente ciò che ci sembrava umano e non era in contraddizione con quella parola di Dio che cercavamo e che ci sembrava di trovare nell’ascolto quotidiano delle Sante Scritture».

«Al centro di tutto il nostro vivere c’è il Signore Gesù – spiega Bianchi, che papa Francesco ha nominato, nel 2014, consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani – quest’uomo che ci ha insegnato a vivere in questo mondo, quest’uomo che è passato facendo solo il bene, quest’uomo che era straordinario perché “umanissimo”, quest’uomo che raccontava Dio con la sua carne, la sua vita, la sua parola. Egli era ed è Dio, parola in verità ambigua, ma che per noi significa la verità, l’eternità».

«Quando facciamo memoria di lui, quando lo invochiamo, quando a tratti sentiamo di dire con audacia che viviamo con lui, sgorga spontanea sulle nostre labbra la semplicità del “Kyrie, eleison! Signore, abbi misericordia di noi!”. E vogliamo pronunciare questa parola facendoci voce di quanti non riescono a esprimerla, schiacciati dalla sofferenza, dal male e dal peccato, uomini e donne che faticano a vivere e a sperare, poveri perché bisognosi, ultimi, anonimi, non riconosciuti… “Signore, abbi misericordia di noi!”. Ma vorremmo essere voce anche degli alberi che ci stanno accanto sussurrando al soffio del vento, degli animali che piangono e cantano, delle pietre immobili che hanno la sola vocazione di restare dove sono».

È questa, afferma il priore di Bose concludendo la lettera, che ha anche il sapore di un testamento spirituale della comunità, «la vocazione che speriamo di portare a compimento quando chiederemo di essere stesi sulla nuda terra per fare l’esodo da questo mondo alla vita per sempre, per essere ancora insieme come lo siamo stati di qui, nell’amore, nell’amicizia, nella sorprendente avventura dell’incontro… Pregate per noi affinché non diamo scandalo a nessuno e perché nessuno possa dire che gli abbiamo mostrato indifferenza. Pregate affinché siamo liberati dalla “grande tentazione”. Noi preghiamo per voi».