Padre Pio, un immenso inganno di A.Cazzullo

Aldo Cazzullo
25 ottobre 2007

«Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto». L’informato è Giovanni XXIII. P.P. è Padre Pio. E queste sono le parole che il Papa annota il 25 giugno 1960, su quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto. «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente» annota il Pontefice. «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona— fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».

«Disastro di anime». «Immenso inganno ». Una delle «tentazioni» con cui il Signore ci mette alla prova. Espressioni durissime. Che però non si riferiscono alla complessa questione delle stigmate, su cui si sono concentrate le prime reazioni al saggio di Luzzatto, «Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento», in uscita la prossima settimana da Einaudi. All’inizio dell’estate 1960, Papa Giovanni è appena stato informato da monsignor Pietro Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto delle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Da mesi Roncalli assume informazioni sulla cerchia delle donne intorno a Padre Pio, si è appuntato i nomi di «tre fedelissime: Cleonilde Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci», più una misteriosa contessa che induce il Pontefice a chiedere se il suo sia «un vero titolo oppure un nomignolo». Nel sospetto—cui il Papa presta fede—che la devozione delle donne nei confronti del cappuccino non sia soltanto spirituale, Roncalli vede la conferma di un giudizio che aveva formulato con decenni di anticipo.

Al futuro Giovanni XXIII, Padre Pio non era mai piaciuto. All’inizio degli Anni ’20, quando per due volte aveva percorso la Puglia come responsabile delle missioni di Propaganda Fide, aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. Ma è soprattutto la fede ascetica, mistica, quasi medievale di cui il cappuccino è stato il simbolo, per la Chiesa modernista di inizio secolo come per la Chiesa conciliare a cavallo tra gli Anni ’50 e ’60, a essere estranea alla sensibilità di Angelo Roncalli. Che, sempre il 25 giugno, annota ancora: «Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili». E, dopo aver ordinato una nuova visita apostolica a San Giovanni Rotondo, ad appunto quasi quarant’anni da quella compiuta nel 1921, il Papa conclude che «purtroppo laggiù il P.P. si rivela un idolo di stoppa».

Gli appunti di Roncalli rappresentano uno dei passaggi salienti dell’opera di Luzzatto. E, se letti con animo condizionato dal pregiudizio, possono indurre a giudicarla o come una demolizione definitiva della figura del santo, o come un’invettiva laicista contro un fenomeno devozionale duraturo e interclassista. Ma sarebbero due letture sbagliate. Il giudizio di Luzzatto su Padre Pio non è quello sommariamente liquidatorio, che si è potuto leggere ad esempio nel recente e fortunato pamphlet di Piergiorgio Odifreddi. Luzzatto prende Padre Pio molto sul serio. E, con un lavoro durato sei anni, indaga non solo sulla sua biografia, ma anche e soprattutto sulla sua mitopoiesi: sulla costruzione del mito del frate di Pietrelcina e sulla sua vicenda, profondamente intrecciata non solo con quella della Chiesa italiana, ma anche con la politica e pure con la finanza. Unmito che nasce sotto il fascismo (Luzzatto dedica pagine che faranno discutere al «patto non scritto» con Caradonna, il ras di Foggia; ed è un fatto che le prime due biografie di Padre Pio sono pubblicate dalla casa editrice ufficiale del partito, la stessa che stampa i discorsi del Duce). Ciò non toglie che l’esito di quella ricerca sarà inevitabilmente elogiata e criticata, com’è giusto che sia. Ma anche gli stroncatori non potranno non riconoscere che uno studioso estraneo al mondo cattolico ha affrontato la figura del santo con simpatia, nel senso etimologico, e non è rimasto insensibile al fascino di una figura sovrastata da poteri—terreni prima che soprannaturali—più grandi di lei, e (comunque la si voglia giudicare) capace di alleviare ancora oggi il dolore degli uomini e di destare un interesse straordinario.

Scrive Luzzatto che «l’importanza di Padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di Papa». Benedetto XV si dimostrò scettico, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse da subito contro il cappuccino. Più diffidente ancora fu Pio XI: sotto il suo pontificato si giunse quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII invece consentì e incoraggiò il culto del frate. Giovanni XXIII autorizzò pesanti misure di contenimento della devozione. Ma Paolo VI, che da sostituto alla segreteria di Stato aveva reso possibile la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza, da Pontefice fece in modo che il frate potesse svolgere il suo ministero «in piena libertà». Albino Luciani, che per poco più di un mese fu Giovanni Paolo I, da vescovo di Vittorio Veneto scoraggiò i pellegrinaggi nel Gargano. Mentre Wojtyla si mostrò sempre profondamente affascinato dalla figura del cappuccino, che sotto il suo pontificato fu elevato agli altari.

Non è in discussione ovviamente la continuità morale e teologica tra i successori di Pietro.Però è impossibile negare che i Pontefici succedutisi nel corso del Novecento abbiano guardato a Padre Pio con occhi diversi, comprese le asprezze giovannee. E, come documenta Luzzatto, quando «La Settimana Incom illustrata» sparò in prima pagina il titolo «Padre Pio predisse il papato a Roncall »”, compreso il dettaglio di un telegrammadi ringraziamento che il nuovo Pontefice avrebbe inviato al cappuccino, Giovanni XXIII ordina al proprio segretario di precisare all’arcivescovo di Manfredonia che era “tutto inventato”: «Io non ebbi mai alcun rapporto con lui, né mai lo vidi, o gli scrissi, né maimi passò per la mente di inviargli benedizioni; né alcuno mi richiese direttamente o indirettamente di ciò, né prima, né dopo il Conclave, né mai».

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Papa Giovanni non perseguitò Padre Pio

Padre Pio da Pietrelcina, il santo del Gargano, non fu «perseguitato» da Giovanni XXIII. Il beato Roncalli, infatti non diede credito alle presunte notizie raccolte da alcuni collaboratori, ma decise alla fine di affidarsi al più equilibrato e fondato giudizio del vescovo di Manfredonia evitando sanzioni pesanti verso il cappuccino con le stimmate acclamato come un santo mentre era ancora in vita e viveva a San Giovanni Rotondo.

È quanto emerge dal bel libro Oboedientia et Pax. La vera storia di una falsa persecuzione (edizioni Padre Pio e Libreria Editrice Vaticana), scritto dal giornalista Stefano Campanella. Il volume, che porta la prefazione del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, è stato presentato questo pomeriggio a Roma. Oggetto del volume sono quelle che Bertone definisce «vicende fatte oggetto di surrettizie interpretazioni storiche», vale a dire il mito di un santo «persecutore», il Papa buono, e di un santo «perseguitato», Padre Pio.

L’opera di Campanella si avvale di diversi documenti inediti, provenienti dagli atti della causa di beatificazione, e smentisce ricostruzioni giornalistiche ma anche la versione proposta nella recente biografia di Padre Pio pubblicata dallo storico Sergio Luzzatto. E documenta come le pesanti e autorevoli accuse rivolte al frate non trovarono credito nel Papa.

All’origine di quella che sarà chiamata la «seconda persecuzione» di Padre Pio, avvenuta tra il 1960 e il 1961 c’è il parroco romano del Divino Amore, don Umberto Terenzi, il quale voleva proteggere il santo frate e la sua opera, Casa Sollievo della Sofferenza, dalle indebite ingerenze di un persone troppo interessate ai soldi. Don Terenzi ottenne dal Sant’Uffizio l’incarico verbale di indagare, ma esagerò presentandosi a San Giovanni Rotondo come rappresentante papale e lasciando intendere di dover riferire personalmente a Giovanni XXIII, cosa che non avvenne mai. Vennero posizionati dei microfoni e un registratore nella foresteria, dove Padre Pio incontrava le persone (non nel confessionale) e in un colloquio con la già attempata Cleonice Morcaldi i curiosi precursori delle nostre intercettazioni credettero di ascoltare «un bacio».

La bobine, confuse e poco utilizzabili, vennero mandate al Sant’Uffizio. Il Papa, venuto a sapere, ordinà che i microfoni fossero tolti e non volle più trovarsi davanti don Terenzi, neanche nelle pubbliche udienze. Venne quindi nominato il visitatore apostolico Carlo Maccari, del vicariato di Roma. Anche lui si sentì un rappresentante del Papa, che parlava in suo nome, quando invece aveva solo il compito di raccogliere informazioni per poi riferire ai superiori. La visita non ebbe inizio nel migliore dei modi, a causa di qualche disguido, e Maccari accreditò le false accuse contro Padre Pio.

Ma la vera notizia contenuta nel libro, inedita, è la visita apostolica di un solo giorno compiuta nel febbraio 1961 dal domenicano padre Paolo Philippe, futuro cardinale e consultore del Sant’Uffizio. Venne a San Giovanni Rotondo e interrogò Padre Pio. Scrisse una relazione, citata nel volume di Campanella, dai toni durissimi contro il santo del Gargano, certamente peggiore di quella già negativa redatta da monsignor Maccari.

Scrisse: «P. Pio mi è apparso come un uomo di intelligenza limitata, ma molto astuto e ostinato, un contadino furbo che cammina per la sua strada senza urtare i Superiori di fronte, ma che non ha alcuna voglia di cambiare […] egli non è e non può essere un santo […] e neppure un degno sacerdote. […] P. Pio è passato insensibilmente da manifestazioni minori di affettuosità ad atti sempre più gravi, fino all’atto carnale. E, adesso, dopo tanti anni di vita sacrilega, forse non si accorge più della gravità del male. Questa è la storia di tutti i falsi mistici che sono caduti nell’erotismo […]»

«P. Pio non è solo un falso mistico, che è consapevole che le sue stigmate non sono da dio, e ciò nonostante lascia costruire tutta la sua “fama sanctitatis”su di esse, ma, peggio ancora, egli è un disgraziato sacerdote, che approfitta della sua reputazione di santo per ingannare le sue vittime», per cui, da «ex professore di storia della mistica», definiva «il caso di P. Pio la più colossale truffa che si possa trovare nella storia della chiesa».

Insomma, una requisitoria terribilmente negativa, anzi distruttiva. Frutto di un solo giorno di indagine e basata esclusivamente sulle relazioni precedenti. Una requisitoria fino ad oggi mai pubblicata. Papa Giovanni lesse, ne rimase impressionato. Ma volle consultare ancora una volta l’arcivescovo di Mafredonia, suo antico amico. Il colloquio, eloquentissimo, è riportato nel volume di Campanella. Giovanni XXIII capì che le accuse contro Padre Pio erano false, costruite ad arte, fondate sul nulla. E diede ordine ai cardinali del Sant’Uffizio di non inasprire le sanzioni verso Padre Pio. Se il santo del Gargano fu «perseguitato», il Papa buono e oggi beato, non fu mai il suo «persecutore».