Vittime del sisma o delle guerre?

di Manlio Dinucci
da http://www.disarmiamoli.org/

La commissione difesa della camera ha già dato parere favorevole all’acquisizione del caccia e quella del senato lo farà probabilmente entro oggi. Nel budget 2009 del ministero della difesa è già previsto uno stanziamento di 47 milioni di euro per l’F-35. E’ solo un piccolo anticipo: per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare oltre un miliardo di euro. Intanto, mancano i soldi per i terremotati e la ricostruzione

Per i terremotati dell’Abruzzo il governo ha messo a disposizione 100 milioni di euro, ma ce ne vorranno molti di più: solo per le esigenze del ministero dell’interno, si dovranno trovare 130 milioni nei prossimi sei mesi. E, se si vorrà veramente ricostruire, occorreranno stanziamenti ben maggiori. Dove trovare questi fondi, in una fase di crisi come quella attuale, senza dover con ciò tagliare ulteriormente le spese sociali (scuola, sanità, ecc.)? La risposta è più semplice di quanto sembri: basterebbe bloccare l’enorme stanziamento che sta per essere destinato all’acquisizione del caccia statunitense F-35 Lightning II (Joint Strike Fighter) della Lockeed Martin.

La commissione difesa della camera ha già dato parere favorevole all’acquisizione del caccia e quella del senato lo farà entro il 16 aprile. Nel budget 2009 del ministero della difesa è già previsto uno stanziamento di 47 milioni di euro per l’F-35.

E’ solo un piccolo anticipo: per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare oltre un miliardo di euro.
Ma sono ancora spiccioli, di fronte alla spesa che il parlamento sta per approvare: 12,9 miliardi di euro per l’acquisto di 131 caccia, più 605 milioni per le strutture di assemblaggio e manutenzione. Complessivamente, 14,5 miliardi di euro. Saranno pagati a rate di circa un miliardo l’anno tra il 2009 e il 2026.

Ma, come avviene per tutti i sistemi d’arma, il caccia verrà a costare più del previsto e, una volta prodotto, dovrà essere ulteriormente ammodernato. E’ quindi certo che l’esborso totale (di denaro pubblico) sarà molto maggiore di quello preventivato. Va inoltre considerato che l’aeronautica sta acquistando 121 caccia Eurofighter Typhoon, il cui costo supera gli 8 miliardi di euro.

La partecipazione dell’Italia al programma del Joint Strike Fighter, ribattezzato F-35 Lightning (fulmine), costituisce un perfetto esempio di politica bipartisan. Il primo memorandum d’intesa è stato firmato al Pentagono, nel 1998, dal governo D’Alema; il secondo, nel 2002, dal governo Berlusconi; il terzo, nel 2007, dal governo Prodi. E nel 2009 è di nuovo un governo presieduto da Berlusconi a deliberare l’acquisto dei 131 caccia che, a onor del vero, era già stato deciso dal governo Prodi nel 2006 (v. il manifesto, 25-10-2006). Si capisce quindi perché, quando il governo ha annunciato l’acquisto di 131 F-35, l’opposizione (PD e IdV) non si sia opposta.

L’Italia partecipa al programma dell’F-35 come partner di secondo livello: ciò significa che contribuisce allo sviluppo e alla costruzione del caccia. Vi sono impegnate oltre 20 industrie, cioè la maggioranza di quelle del complesso militare, tra cui Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Selex Communications, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre non-Finmeccanica, come Aerea e Piaggio.

Negli stabilimenti Alenia in Campania e Puglia, e successivamente in quelli piemontesi, verranno prodotte oltre 1.200 ali dell’F-35. Presso l’aeroporto militare di Cameri (Novara) sarà realizzata una linea di assemblaggio e collaudo dei caccia destinati ai paesi europei, che verrà poi trasformata in centro di manutenzione, revisione, riparazione e modifica. Dalla catena di montaggio italiana usciranno probabilmente anche i 25 caccia acquistati da Israele, cui se ne potranno aggiungere altri 50.

Il governo lo presenta come un grande affare per l’Italia: non dice però che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entrano nelle casse di aziende private, i miliardi per l’acquisto dei caccia escono dalle casse pubbliche. Questa attività, secondo il governo, creerà subito 600 posti di lavoro e una “spinta occupazionale” che potrebbe tradursi in 10mila posti di lavoro. Una bella prospettiva quella di puntare, per far crescere l’occupazione, su uno dei più micidiali sistemi d’arma.

L’F-35 è un caccia di quinta generazione, prodotto in tre varianti: a decollo/atterraggio convenzionale, per le portaerei, e a decollo corto/atterraggio verticale. L’Italia ne acquisterà 69 della prima variante e 62 della terza, che saranno usati anche per la portaerei Cavour. I caccia a decollo corto/atterraggio verticale, spiega la Lockheed, sono i più adatti a “essere dispiegati più vicino alla costa o al fronte, accorciando la distanza e il tempo per colpire l’obiettivo”. Grazie alla capacità stealth, l’F-35 Lightning “come un fulmine colpirà il nemico con forza distruttiva e inaspettatamente”.

Un aereo, dunque, destinato alle guerre di aggressione, a provocare distruzioni peggiori di quelle del terremoto dell’Abruzzo. Ma per le vittime non ci saranno funerali di stato, né telecamere a mostrarli.

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La grande crisi? Non per le armi
di Paolo Busoni

Il tremendo terremoto in Abruzzo -col suo carico di morte e devastazione- avviene in un momento di crisi finanziaria e recessione economica pesantissimo, ma nonostante quello che da più parti si va dicendo -in particolare dai vertici politici- è teoricamente possibile che il governo possa procedere nei soccorsi e nella più che doverosa ricostruzione senza dover affondare le mani nelle tasche dei cittadini.

Non è necessario emettere tasse una-tantum o ridurre l’ossigeno all’associazionismo deviando il gettito del 5 per mille, lo Stato può tagliare spese inutili che per ora tutti -maggioranza e opposizione- hanno fatto finta di non vedere. Da luglio in poi abbiamo assistito a continui annunci di tagli, alla scuola, alla sanità all’università, perfino alle spese per i militari, ma paradossalmente, l’industria della guerra non è stata toccata se non marginalmente.

L’industria armiera italiana, che è largamente controllata dalla finanziaria semi-pubblica Finmeccanica, vive e vive molto bene, nonostante la crisi. Non si tratta della posizione di eccellenza che certe fabbriche hanno in alcuni particolari ambiti, come quello dei cannoni navali, qui da noi come in gran parte del mondo il settore armi vive al riparo delle crisi grazie al meccanismo assurdo che ne regola gli scambi commerciali.

Il mercato delle armi è il più protetto in ogni senso. Sono coperti gli attori, i termini delle transazioni e le trattative avvengono lontano da ogni pubblicità -tanto che ai saloni internazionali, si pubblicizzano i contratti quando ormai sono più che consolidati- e soprattutto sono assolutamente impenetrabili i meccanismi per la determinazione del “prezzo”.

Negli Usa esiste un organismo statale, una sorte di Corte dei Conti, il Gao, che si occupa di valutare i costi dell’amministrazione e che stila periodicamente un listino prezzi dei materiali acquisiti dal governo, è inutile dire che le cifre più assurde provengono dal settore difesa e sicurezza, ma si tratta di una semplificazione per il grande pubblico e rimane ampio spazio per dubitare sulla reale validità del metodo di calcolo.

E’ impossibile sapere con certezza quanto costa un aereo, un carroarmato o una nave e il nostro bilancio della difesa (nonostante il corposo documento esplicativo allegato) non è -logicamente- più chiaro di quello Usa.
Certo nessuno può pretendere il cartellino del prezzo attaccato ad ogni elicottero o autoblindo, ma da questo al Far West che governa il mercato, ce ne corre.

Già, ma come si compra
no le armi? Facciamo un esempio. Un acquirente che debba valutare due offerte di fornitura, mettiamo dalla Cina e dall’Italia può agire in due modi diversi: se dispone di soldi in contanti, compra dalla Cina che offre un prodotto di qualità inferiore, ma a prezzo decisamente più allettante; se non dispone della cifra necessaria, compra il prodotto italiano pretendendo in cambio un pacchetto di “aiuti” sotto forma di crediti o investimenti italiani nel suo paese per un importo spesso superiore al valore del contratto stesso.

Queste compensazioni, o «offset» non sono fornite dall’azienda che venderà le armi, ma sono a carico del governo che per “far vendere” è a sua volta costretto a “comprare”. Il meccanismo delle compensazioni si presta a svariate manovre ed è naturale terreno per la corruzione: maggiore è la concorrenza, maggiori saranno i benefici richiesti e offerti dalle parti e dai mediatori. In un sistema che si autosostiene, senza produrre benefici reali e che crea solo un aumento smisurato dei costi.

L’obbligo per il venditore a una compartecipazione indiretta all’acquisto, manda in pensione il mercante di armi alla Alberto Sordi nel film «Finché c’è guerra c’è speranza»: per vendere un prodotto bisogna essere disposti a comprare presso l’acquirente stesso o coinvolgendo terzi che contribuiscano al “bilanciamento” della transazione, regione per la quale l’importo complessivo supererà e di molto il valore della transazione iniziale.

La compensazione, in inglese «countertrade», avviene sempre sotto la protezione e la direzione dei governi nazionali. Le più diffuse forme di «countertrade» sono quattro. Il «barter», il baratto, è la formula di interscambio più antica, ma ancora ampiamente praticata. Si contano a decine gli accordi del genere: armi contro petrolio, armi contro derrate ecc.

In genere, la fornitura di materie prime costituisce il totale o comunque la maggior parte del pagamento. Questa pratica necessita di qualche cautela: nell’accordo si devono valutare i prezzi e fissare le quantità dei beni di scambio in modo da ammortizzarne le eventuali oscillazioni di valore.
Il «buy back» prevede che colui che vende impianti o tecnologia venga in parte ripagato con i prodotti provenienti dallo stesso contratto. Per esempio, nel caso dell’esportazione di licenze per la produzione di armi, l’esportatore si impegna ad acquistare componenti prodotte nel paese acquirente.

L’«offset» è la forma più utilizzata: il venditore è tenuto a coinvolgere enti o società dell’acquirente nella vendita del prodotto nel proprio mercato o in mercati terzi. In alternativa il venditore deve procurare vantaggi al compratore, per esempio spingendo i propri alleati o amici ad acquistare prodotti presso il paese acquirente delle proprie armi.

Lo «switch trading» è la forma di scambio finanziariamente più complessa, è possibile riassumerla in un complesso di accordi che prevedono la presenza di intermediari specializzati che si occupano di “gestire” il credito che l’esportatore riceve in cambio dei prodotti venduti. Gli intermediari “acquistano” il credito (con uno sconto) in cambio di valuta e a loro volta lo vendono (con un guadagno) ad altri intermediari che lo mettono a disposizione per importare servizi e prodotti della dall’acquirente.

Com’è facile immaginare, dietro alle compensazioni ammantate di una “reciprocità” «politically correct», è inevitabile che si nascondano traffici loschi e soprattutto che alla fin fine la vendita non sia un vero e proprio “affare”. Vendere sottocosto è possibile – è anche lecito se si colloca in un progetto strategico – ma se gli affari di questo genere sono la norma, solo perché lo Stato è disposto a coprire ogni transazione economicamente sbilanciata in nome di chissà quale ragione di sicurezza è un vero e proprio suicidio. Di solito la “copertura” di questi “piè di lista” avviene riversando i maggiori costi sugli acquisti per il mercato interno, cioè per le proprie forze armate.

Si dirà che l’acquisizione di un sistema d’arma è molto lunga e complessa, si tratta di grandi contratti con portata pluriennale e con il continuo coinvolgimento di altissime professionalità, della ricerca e in senso più ampio della “tutela” strategica del paese. Molto meglio svincolare questo delicato settore dalla vita reale che esporsi al rischi di lasciare maestranze e cervelli liberi di passare da una ditta all’altra o – peggio – da uno Stato all’altro, mettendo quindi in circolo i segreti della difesa.

Si tratta però di un alibi: certamente la protezione e la tutela di una nazione, passano anche da queste “spese improduttive”. Piuttosto che farsi scappare una risorsa strategica o un “cervello” particolarmente importante per la difesa è meglio tenerlo a libro paga senza farlo lavorare: nessuno si sognerebbe di pagare i pompieri per le sole ore passate sugli interventi, non remunerando i turni – ammesso che ve ne siano – passati in caserma senza alcuna chiamata. Ma qui si gioca un po’ troppo con questa “necessità” e soprattutto i governi, di qualsiasi colore essi fossero, non ne hanno mai dato conto all’azionista più importante di tutto il settore, cioè noi tutti.