Il ruolo del sacerdozio dopo lo scandalo della pedofilia

di Raffaele Garofalo, prete

A partire dal Concilio Vaticano II è stata ricorrente la riflessione sul ruolo stesso del sacerdozio nella società moderna. Negli anni 60 fu pubblicato un libro dal titolo irriverente ma significativo: “Dio ha creato il sacerdote, il diavolo ha creato la casta”.

Le prime comunità cristiane non attribuivano al sacerdote prerogative tali che facessero della sua figura un uomo di potere, distaccato dalla comunità. Era ben evidenziata invece la funzione del “servizio”. La comunità nominava il proprio ministro, sacerdote o vescovo, e lo sceglieva in seno alla stessa assemblea. Non era rilevante se il prescelto fosse celibe o sposato. Soprattutto non esistevano “luoghi appartati” riservati alla formazione degli aspiranti al ministero, la comunità educava i propri aderenti e ogni cristiano poteva essere chiamato a svolgere il ruolo di guida.

Solo successivamente la Chiesa si organizzava in una struttura gerarchica, mutuata dall’impero romano (sono a ricordarcelo i termini pontifex, curia e altri) in cui la figura del religioso doveva assumere le caratteristiche di uno “chiamato da Dio”, distaccato dal resto della comunità.

Il Concilio ha fatto sentire l’esigenza di riscoprire che il sacerdote è l’uomo di tutti, l’uomo di un ministero che non può essere racchiuso in ambiti riservati, né appartenere ad una “casta” sempre in difesa del proprio prestigio, dei propri interessi. Il sacerdote appartiene alla comunità, a tutta la comunità umana non solo a quella ecclesiale. Cristo non si era riservato spazi di azione nelle sinagoghe né in altri luoghi di culto, predicava ed agiva in mezzo agli uomini sui quali non poneva etichette.

Gli ultimi deprecabili avvenimenti di abuso sui minori hanno riproposto l’attenzione sul tema del celibato. Il celibato va restituito “comunque” alla libera scelta di ognuno, proprio per valorizzarne la portata, da vivere come atto d’amore e di disponibilità alla comunità, non come gesto “sacrificale”. Tuttavia la domanda radicale è se abbia un senso per l’uomo di oggi una figura sacerdotale che rischia di fossilizzarsi (per molti) in schemi che appartengono ad un passato che ha fatto del sacerdozio più una istituzione “ritualistica”, di potere profano, anziché un autentico servizio evangelico. Ne scaturisce chiedersi fino a che punto l’ immagine del sacerdote sia stata sfigurata nel tempo, se la concezione che se ne ha corrisponda alla vera idea originaria.

Troppi fedeli sono convinti che basti il ricorso formale al parroco nei momenti essenziali della vita o nella pratica religiosa di routine per confermare il ruolo del sacerdote. Le parrocchie sono concepite come stazioni di servizio, le forche caudine dell’essere credenti e praticanti. Un minimo di sensibilità porta il religioso a rendersi conto che la sua figura e il suo ruolo vengono in tal modo degradati al rango di “stregoni “e lo indurranno a ripensare più o meno angosciosamente alla sua vera identità. Pur riconoscendo i valori essenziali incarnati dal sacerdozio, molti credenti sono tentati di rifiutare le strutture artificiose e trionfalistiche che rivestono quei valori. Il sacerdozio, per lo più, non è più vissuto come ministero evangelico profetico, come impulso dinamico, ma come appartenenza ad una specie di categoria sociale, ben definita nei suoi privilegi, nel modo di vestire, nello stile di vita.

Perché il sacerdozio riacquisti il ruolo che ebbe alle origini bisogna essere capaci di rimettersi in discussione. Una tale riflessione è più che mai suggerita alla Chiesa dai recenti scandali. Finora si è favorita l’omertà e l’insabbiamento ma bisogna evitare il rischio che, nella frenesia di voler ripulire l’immagine appannata del “sistema” e recuperare la fiducia persa, si passi ora all’eccesso opposto di operare il linciaggio morale delle persone. La giustizia umana deve seguire il suo corso ma rimane sempre valido, soprattutto per la Chiesa, il principio cristiano che si condanna il peccato ma si sceglie la via della salvezza per il peccatore pentito. Soprattutto vanno ricercate le ragioni profonde delle gravi “deviazioni” e in tali circostanze la Chiesa deve far ricorso all’aiuto di uno studio psicanalitico del fenomeno della pederastia tra il clero. Tali proposte furono avanzate e sperimentate anni fa da Ivan Illich nel suo centro di formazione “interculturale” a Cuernavaca e, più recentemente, dal religioso psicoterapeuta Eugen Drewermann. L’istituzione ha sempre rifiutato con sufficienza l’aiuto di simili mezzi di introspezione.

Per il recupero dei preti che si sono macchiati di atrocità nei confronti di minori non basta più la “recita del santo rosario” né il “ritiro spirituale”. Di fronte ad un comportamento fortemente disturbato è necessario fare i conti col proprio passato.