Un silenzio che turba gli osanna

Luigi Sandri
Riforma, n. 17 del 29 aprile

La beatificazione di Giovanni Paolo II solleva problemi di metodo e di merito; perciò ci sembra bene parlarne, tanto più che, salvo rare eccezioni, i grandi media, in Italia almeno, hanno seguito festanti la corrente di chi, nell’aprile del 2005, ai funerali di Wojtyla innalzò il cartello con scritto «Santo subito».

Vi è, anzitutto, un problema che non riguarda la beatificazione in sé, ma il giorno scelto per proclamarla: il Primo maggio, festa dei lavoratori e, a Roma, nel pomeriggio, ormai da anni appuntamento musicale per tantissimi giovani. A parte la non facile gestione, per la città, di due eventi contemporanei che, nell’insieme, attireranno molta gente, si ha l’impressione che le autorità ecclesiastiche, per esaltare un papa mediatico come fu Giovanni Paolo II, abbiano voluto mettere il cappello su una giornata laica come quella del Primo maggio. Il tutto, in un clima di entusiasmo che, mentre spinge i fedeli a plaudire un papa, li porta anche a plaudire il papato: le lodi ad un pontefice sottendono inestricabilmente quelle all’istituzione papale.

Parlando invece della beatificazione in sé, ci si può chiedere perché l’iter della causa sia stato portato a termine in modo così rapido. Le normative vaticane in vigore, stabiliscono infatti che, prima di iniziare una causa di beatificazione e canonizzazione di un ˙servo di Dio, debbano passare cinque anni dalla sua morte. Dunque, essendo Wojtyla scomparso il 2 aprile 2005, la sua causa sarebbe potuta iniziare un anno fa; ma Ratzinger, già nove giorni dopo la sua elezione al papato, «considerate le peculiari circostanze esposte dal cardinal Camillo Ruini, vicario di Roma», dispensava dall’osservanza del tempo canonico prescritto, e quindi partiva subito l’iter che ora sta per concludersi.

Le ‘circostanze peculiari’ sono state la richiesta di larga parte del popolo cristiano, la cui ouverture pubblica fu «espressa in modo ingenuo ma autentico con il grido di quella notte: “Santo subito”», come ha spiegato pochi giorni fa Ruini in un’intervista a ‘La Repubblica’.

Ma, se la fretta vaticana di beatificare Wojtyla è stata motivata dal desiderio di ascoltare la voce del popolo (Vox populi,vox Dei!), a tanta sollecitudine forse non era estranea la volontà di impedire che la gente si facesse un suo santo prima e al di fuori del controllo delle gerarchie ecclesiastiche. Fretta analoga ci fu nel caso di madre Teresa di Calcutta che, morta nel ‘97, è stata beatificata nel 2003.

La storia recente dimostra però che i papi ascoltano il popolo quando fa richieste che vanno nel senso a essi gradito, ma accampano mille ragioni per non ascoltarlo, quando domanda scelte che mettano in questione l’establishment ecclesiastico. Il caso più clamoroso è quello di Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, assassinato il 24 marzo 1980 da un killer, prezzolato dall’oligarchia (cattolica!) al potere che riteneva intollerabili le denunce del prelato contro le ingiustizie sociali.

Mentre, all’offertorio della messa, egli alzava il calice, fu colpito in petto da una fucilata: quale morte più simbolica, quale martirio più autentico? Moltissimi, nel continente ove è vissuto, già venerano ‘San Romero d’America’, e da laggiù sono giunte a Roma migliaia di firme per chiederne la beatificazione. Inascoltate, perché, si dice nella Curia romana, se Romero fosse ‘promosso’ sarebbe strumentalizzato. Un ‘pericolo’ che non ha impedito di proclamare beato nel 1992 e santo nel 2002 il fondatore dell’Opus Dei, Josemaria Escrivá de Balaguer, morto nel 1975.

In quanto al merito. È evidente quanto sia complessa la valutazione storica, teologica e geopolitica di un regno durato ventisette anni, carico di luci e di ombre, e nel quale è assai arduo distinguere tra le virtuose scelte personali e quelle, spesso problematiche, istituzionali.

Perciò il 6 dicembre 2006 quindici cattolici, uomini e donne di vari paesi, esponenti del mondo teologico e dei media, sottoscrissero un ‘Appello alla chiarezza’ sulla causa di beatificazione di Wojtyla. Tra l’altro, essi imputavano al papa «il mancato controllo su manovre torbide compiute in campo finanziario da istituzioni della Santa Sede, e l’impedimento a che le autorità italiane potessero fare piena luce sulle oscure implicazioni dell’Istituto per le opere di religione (Ior, la banca vaticana) con il crack del Banco ambrosiano».

A questa obiezione, fondata, il Vaticano non ha dato una risposta pubblica ed argomentata; un silenzio che turba gli osanna.